Ludovico Ariosto
L'assedio di Parigi
(Orlando furioso, XIV, 98-134)
Mentre Rinaldo sta tornando in Francia con i rinforzi scozzesi e inglesi per sostenere la resistenza dei Franchi, re Agramante si appresta a cingere d'assedio con un'immensa armata la città di Parigi, strenuamente difesa da Carlo Magno e i suoi paladini rimasti entro le mura. L'assalto dei mori è respinto a fatica pur infliggendo gravi perdite ai saraceni, tra le cui file campeggia la figura gigantesca di Rodomonte deciso a penetrare in città ad ogni costo: il re africano trascina le sue truppe al di là di un primo muro difensivo, attraverso un fossato che circonda la città, anche se quasi tutti i suoi uomini vengono poi arsi vivi dalle armi incendiarie scatenate contro di loro dai difensori cristiani. La pagina, narrata con un grandioso respiro epico, è forse l'episodio guerresco più famoso della letteratura cavalleresca del XV-XVI sec. e riecheggia il timore della minaccia turca nel Mediterraneo, per cui lo scontro tra mori e paladini adombra la necessità di una "guerra santa" contro l'Islam nel Cinquecento.
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Ludovico Ariosto
► OPERA: Orlando furioso
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Ludovico Ariosto
► OPERA: Orlando furioso
98
Mentre Rinaldo in tal fretta venìa, che ben parea da l'angelo condotto, e con silenzio tal, che non s'udia nel campo saracin farsene motto; il re Agramante avea la fanteria messo ne' borghi di Parigi, e sotto le minacciate mura in su la fossa, per far quel dì l'estremo di sua possa. 99 Chi può contar l'esercito che mosso questo dì contro Carlo ha 'l re Agramante, conterà ancora in su l'ombroso dosso del silvoso Apennin tutte le piante; dirà quante onde, quando è il mar più grosso, bagnano i piedi al mauritano Atlante; e per quanti occhi il ciel le furtive opre degli amatori a mezza notte scuopre. 100 Le campane si sentono a martello di spessi colpi e spaventosi tocche; si vede molto, in questo tempio e in quello, alzar di mano e dimenar di bocche. Se 'l tesoro paresse a Dio sì bello, come alle nostre openioni sciocche, questo era il dì che 'l santo consistoro fatto avria in terra ogni sua statua d'oro. 101 S'odon ramaricare i vecchi giusti, che s'erano serbati in quelli affanni, e nominar felici i sacri busti composti in terra già molti e molt'anni. Ma gli animosi gioveni robusti che miran poco i lor propinqui danni, sprezzando le ragion de' più maturi, di qua di là vanno correndo a' muri. 102 Quivi erano baroni e paladini, re, duci, cavallier, marchesi e conti, soldati forestieri e cittadini, per Cristo e pel suo onore a morir pronti; che per uscire adosso ai Saracini, pregan l'imperator ch'abbassi i ponti. Gode egli di veder l'animo audace, ma di lasciarli uscir non li compiace. 103 E li dispone in oportuni lochi, per impedire ai barbari la via: là si contenta che ne vadan pochi, qua non basta una grossa compagnia; alcuni han cura maneggiare i fuochi, le machine altri, ove bisogno sia. Carlo di qua di là non sta mai fermo: va soccorrendo, e fa per tutto schermo. 104 Siede Parigi in una gran pianura, ne l'ombilico a Francia, anzi nel core; gli passa la riviera entro le mura, e corre, ed esce in altra parte fuore. Ma fa un'isola prima, e v'assicura de la città una parte, e la migliore; l'altre due (ch'in tre parti è la gran terra) di fuor la fossa, e dentro il fiume serra. 105 Alla città, che molte miglia gira, da molte parti si può dar battaglia: ma perché sol da un canto assalir mira, né volentier l'esercito sbarraglia, oltre il fiume Agramante si ritira verso ponente, acciò che quindi assaglia; però che né cittade né campagna ha dietro, se non sua, fin alla Spagna. 106 Dovunque intorno il gran muro circonda, gran munizioni avea già Carlo fatte, fortificando d'argine ogni sponda con scannafossi dentro e case matte; onde entra ne la terra, onde esce l'onda, grossissime catene aveva tratte; ma fece, più ch'altrove, provedere là dove avea più causa di temere. 107 Con occhi d'Argo il figlio di Pipino previde ove assalir dovea Agramante; e non fece disegno il Saracino, a cui non fosse riparato inante. Con Ferraù, Isoliero, Serpentino, Grandonio, Falsirone e Balugante, e con ciò che di Spagna avea menato, restò Marsilio alla campagna armato. 108 Sobrin gli era a man manca in ripa a Senna, con Pulian, con Dardinel d'Almonte, col re d'Oran, ch'esser gigante accenna, lungo sei braccia dai piedi alla fronte. Deh perché a muover men son io la penna, che quelle genti a muover l'arme pronte? che 'l re di Sarza, pien d'ira e di sdegno, grida e bestemmia e non può star più a segno. 109 Come assalire o vasi pastorali, o le dolci reliquie de' convivi soglion con rauco suon di stridule ali le impronte mosche a' caldi giorni estivi; come li storni a rosseggianti pali vanno de mature uve: così quivi, empiendo il ciel di grida e di rumori, veniano a dare il fiero assalto i Mori. 110 L'esercito cristian sopra le mura con lance, spade e scure e pietre e fuoco difende la città senza paura, e il barbarico orgoglio estima poco; e dove Morte uno ed un altro fura, non è chi per viltà ricusi il loco. Tornano i Saracin giù ne le fosse a furia di ferite e di percosse. 111 Non ferro solamente vi s'adopra, ma grossi massi, e merli integri e saldi, e muri dispiccati con molt'opra, tetti di torri, e gran pezzi di spaldi. L'acque bollenti che vengon di sopra, portano a' Mori insupportabil caldi; e male a questa pioggia si resiste, ch'entra per gli elmi, e fa acciecar le viste. 112 E questa più nocea che 'l ferro quasi: or che de' far la nebbia di calcine? or che doveano far li ardenti vasi con olio e zolfo e peci e trementine? I cerchi in munizion non son rimasi, che d'ogn'intorno hanno di fiamma il crine: questi, scagliati per diverse bande, mettono a' Saracini aspre ghirlande. 113 Intanto il re di Sarza avea cacciato sotto le mura la schiera seconda, da Buraldo, da Ormida accompagnato, quel Garamante, e questo di Marmonda. Clarindo e Soridan gli sono allato, né par che 'l re di Setta si nasconda; segue il re di Marocco e quel di Cosca, ciascun perché il valor suo si conosca. 114 Ne la bandiera, ch'è tutta vermiglia, Rodomonte di Sarza il leon spiega, che la feroce bocca ad una briglia che gli pon la sua donna, aprir non niega. Al leon sé medesimo assimiglia; e per la donna che lo frena e lega, la bella Doralice ha figurata, figlia di Stordilan re di Granata: 115 quella che tolto avea, come io narrava, re Mandricardo, e dissi dove e a cui. Era costei che Rodomonte amava più che'l suo regno e più che gli occhi sui; e cortesia e valor per lei mostrava, non già sapendo ch'era in forza altrui: se saputo l'avesse, allora allora fatto avria quel che fe' quel giorno ancora. 116 Sono appoggiate a un tempo mille scale, che non han men di dua per ogni grado. Spinge il secondo quel ch'inanzi sale; che 'l terzo lui montar fa suo mal grado. Chi per virtù, chi per paura vale: convien ch'ognun per forza entri nel guado; che qualunche s'adagia, il re d'Algiere, Rodomonte crudele, uccide o fere. 117 Ognun dunque si sforza di salire tra il fuoco e le ruine in su le mura. Ma tutti gli altri guardano, se aprire veggiano passo ove sia poca cura: sol Rodomonte sprezza di venire, se non dove la via meno è sicura. Dove nel caso disperato e rio gli altri fan voti, egli bestemmia Dio. 118 Armato era d'un forte duro usbergo, che fu di drago una scagliosa pelle. Di questo già si cinse il petto e 'l tergo quello avol suo ch'edificò Babelle, e si pensò cacciar de l'aureo albergo, e torre a Dio il governo de le stelle: l'elmo e lo scudo fece far perfetto, e il brando insieme; e solo a questo effetto. 119 Rodomonte non già men di Nembrotte indomito, superbo e furibondo, che d'ire al ciel non tarderebbe a notte, quando la strada si trovasse al mondo, quivi non sta a mirar s'intere o rotte sieno le mura, o s'abbia l'acqua fondo: passa la fossa, anzi la corre e vola, ne l'acqua e nel pantan fin alla gola. 120 Di fango brutto, e molle d'acqua vanne tra il foco e i sassi e gli archi e le balestre, come andar suol tra le palustri canne de la nostra Mallea porco silvestre, che col petto, col grifo e con le zanne fa, dovunque si volge, ample finestre. Con lo scudo alto il Saracin sicuro ne vien sprezzando il ciel, non che quel muro. 121 Non sì tosto all'asciutto è Rodomonte, che giunto si sentì su le bertresche, che dentro alla muraglia facean ponte capace e largo alle squadre francesche. Or si vede spezzar più d'una fronte, far chieriche maggior de le fratesche, braccia e capi volare; e ne la fossa cader da' muri una fiumana rossa. 122 Getta il pagan lo scudo, e a duo man prende la crudel spada, e giunge il duca Arnolfo. Costui venìa di là dove discende l'acqua del Reno nel salato golfo. Quel miser contra lui non si difende meglio che faccia contra il fuoco il zolfo; e cade in terra, e dà l'ultimo crollo, dal capo fesso un palmo sotto il collo. 123 Uccide di rovescio in una volta Anselmo, Oldrado, Spineloccio e Prando: il luogo stretto e la gran turba folta fece girar sì pienamente il brando. Fu la prima metade a Fiandra tolta, l'altra scemata al populo normando. Divise appresso da la fronte al petto, ed indi al ventre, il maganzese Orghetto. 124 Getta da' merli Andropono e Moschino giù ne la fossa: il primo è sacerdote; non adora il secondo altro che 'l vino, e le bigonce a un sorso n'ha già vuote. Come veneno e sangue viperino l'acque fuggia quanto fuggir si puote: or quivi muore; e quel che più l'annoia, è 'l sentir che nell'acqua se ne muoia. 125 Tagliò in due parti il provenzal Luigi, e passò il petto al tolosano Arnaldo. Di Torse Oberto, Claudio, Ugo e Dionigi mandar lo spirto fuor col sangue caldo; e presso a questi, quattro da Parigi, Gualtiero, Satallone, Odo ed Ambaldo, ed altri molti: ed io non saprei come di tutti nominar la patria e il nome. 126 La turba dietro a Rodomonte presta le scale appoggia, e monta in più d'un loco. Quivi non fanno i Parigin più testa; che la prima difesa lor val poco. San ben ch'agli nemici assai più resta dentro da fare, e non l'avran da gioco; perché tra il muro e l'argine secondo discende il fosso orribile e profondo. 127 Oltra che i nostri facciano difesa dal basso all'alto, e mostrino valore; nuova gente succede alla contesa sopra l'erta pendice interiore, che fa con lance e con saette offesa alla gran moltitudine di fuore, che credo ben, che saria stata meno, se non v'era il figliuol del re Ulieno. 128 Egli questi conforta, e quei riprende, e lor mal grado inanzi se gli caccia: ad altri il petto, ad altri il capo fende, che per fuggir veggia voltar la faccia. Molti ne spinge ed urta; alcuni prende pei capelli, pel collo e per le braccia: e sozzopra là giù tanti ne getta, che quella fossa a capir tutti è stretta. 129 Mentre lo stuol de' barbari si cala, anzi trabocca al periglioso fondo, ed indi cerca per diversa scala di salir sopra l'argine secondo; il re di Sarza (come avesse un'ala per ciascun de' suoi membri) levò il pondo di sì gran corpo e con tant'arme indosso, e netto si lanciò di là dal fosso. 130 Poco era men di trenta piedi, o tanto, ed egli il passò destro come un veltro, e fece nel cader strepito, quanto avesse avuto sotto i piedi il feltro: ed a questo ed a quello affrappa il manto, come sien l'arme di tenero peltro, e non di ferro, anzi pur sien di scorza: tal la sua spada, e tanta è la sua forza! 131 In questo tempo i nostri, da chi tese l'insidie son ne la cava profonda, che v'han scope e fascine in copia stese, intorno a quai di molta pece abonda (né però alcuna si vede palese, ben che n'è piena l'una e l'altra sponda dal fondo cupo insino all'orlo quasi), e senza fin v'hanno appiattati vasi, 132 qual con salnitro, qual con oglio, quale con zolfo, qual con altra simil esca; i nostri in questo tempo, perché male ai Saracini il folle ardir riesca, ch'eran nel fosso, e per diverse scale credean montar su l'ultima bertresca; udito il segno da oportuni lochi, di qua e di là fenno avampare i fochi. 133 Tornò la fiamma sparsa tutta in una, che tra una ripa e l'altra ha 'l tutto pieno; e tanto ascende in alto, ch'alla luna può d'appresso asciugar l'umido seno. Sopra si volve oscura nebbia e bruna, che 'l sole adombra, e spegne ogni sereno. Sentesi un scoppio in un perpetuo suono, simile a un grande e spaventoso tuono. 134 Aspro concento, orribile armonia d'alte querele, d'ululi e di strida de la misera gente che peria nel fondo per cagion de la sua guida, istranamente concordar s'udia col fiero suon de la fiamma omicida. Non più, Signor, non più di questo canto; ch'io son già rauco e vo' posarmi alquanto. |
Mentre Rinaldo giungeva in fretta in Francia, guidato dall'arcangelo Michele e con tale silenzio che nel campo saraceno non se ne sentiva neppure una parola, il re Agramante aveva disposto la fanteria nei sobborghi di Parigi e nel fossato sotto le mura minacciate, per dispiegare quel giorno il massimo della sua potenza militare. Chi potesse contare l'esercito che il re Agramante oggi ha mosso contro Carlo Magno, conterebbe anche tutti gli alberi sulle sommità ombrose del selvoso Appennino, direbbe quante onde bagnano le pendici dell'Atlante in Nordafrica quando il mare è grosso, e con quante stelle il cielo spia a mezzanotte le opere furtive degli amanti. Si sentono suonare le campane a martello, con rintocchi frequenti e spaventosi; in tutte le chiese si vedono molte mani che fanno il segno della croce e bocche che pregano. Se le ricchezze piacessero a Dio come pensiamo noi sciocchi uomini, quel giorno il santo concistoro avrebbe forgiato ogni sua statua in oro. Si sente rammaricare il fatto che i vecchi giusti erano rimasti vivi in quelle sciagure, invece si dicono felici gli uomini sepolti in terra già da molti anni. Ma i giovani coraggiosi e forti che non guardano i loro futuri danni, disprezzando i ragionamenti degli anziani, vanno correndo qua è là lungo le mura. Qui c'erano baroni e paladini, re, duchi, cavalieri, marchesi e conti, soldati di Parigi e stranieri, tutti pronti a morire per Cristo e per il suo onore; pregano l'imperatore di calare i ponti levatoi per uscire addosso ai saraceni. Carlo è felice del loro animo audace, ma non consente loro di uscire. Li dispone in luoghi opportuni per impedire l'accesso ai barbari: si accontenta che in un punto vadano in pochi, in un altro non è sufficiente una compagnia numerosa; alcuni si occupano dei fuochi, altri delle macchine, secondo il bisogno. Carlo non sta fermo un attimo, va a dare il suo aiuto, si occupa di ogni cosa. Parigi ha sede in una estesa pianura, al centro della Francia, anzi nel cuore di essa; il fiume [la Senna] passa entro le sue mura e scorre, uscendo fuori da un'altra parte. Prima forma un'isola [l'Île de la Cité] e assicura una parte della città, la più importante; le altre due parti (il territorio infatti è diviso in tre) sono cinte dalla fossa all'esterno e dal fiume all'interno. Si può assalire in battaglia la città, che si estende per molte miglia, da molte parti: tuttavia Agramante, che vuole attaccare da un solo lato e preferisce non disperdere le truppe, si ritira oltre il fiume a ovest, per sferrare l'assalto da qui; infatti dietro di sé ha città e territorio in suo possesso, sino alla Spagna. In tutti i punti in cui Parigi è cinta dal gran muro, Carlo aveva già predisposto dei baluardi, fortificando con ogni sponda con un argine e dentro condotti e casematte; aveva portato enormi catene nei punti in cui l'acqua entra ed esce dalla terra; ma fece provvedere soprattutto nei punti dove aveva più ragione di temere un attacco. Il figlio di Pipino previde con occhi d'Argo il punto in cui Agramante avrebbe attaccato e il saraceno non pianificò nulla cui Carlo non avesse preparato una contromossa. Marsilio restò in armi nella campagna circostante, con Ferraù, Isoliero, Serpentino, Grandonio, Falsirone, Balugante e tutti i guerrieri che aveva condotto dalla Spagna. Sobrino era alla sua sinistra lungo la Senna, insieme a Puliano, Dardinello d'Almonte, col re d'Orano, che sembra un gigante ed è lungo sei braccia dai piedi alla testa. Ahimè, perché io sono meno rapido a muovere la penna che non quei guerrieri a muovere le armi? Infatti il re di Sarza [Rodomonte], pieno di ira e sdegno, grida e bestemmia e non può più trattenersi. Come le mosche importune nei caldi giorni d'estate sono solite assalire col suono roco delle loro ali stridule i canestri dei pastori o i dolci avanzi dei banchetti, e come gli storni vanno contro i pali rosseggianti di uve mature, così qui, riempiendo il cielo di grida e strepiti, i mori venivano a dare il feroce assalto. L'esercito cristiano difende la città senza paura sopra le mura, con lance, spade, asce, pietre e fuoco, e disprezza l'orgoglio di quei barbari; e quando molti di loro cadono uccisi, nessuno lascia la posizione per viltà. I saraceni ricadono nelle fosse a furia di ricevere ferite e percosse. Non si usa solo il ferro ma enormi massi, e merli intatti e saldi, e pezzi di muro staccati con gran lavoro, tegole di torri e grandi pezzi degli spalti. Le acque bollenti che arrivano dall'alto ustionano i mori e si resiste male a questa pioggia, che entra negli elmi e acceca gli occhi. E quest'acqua nuoceva quasi più del ferro: che dire allora delle nuvole di calcinacci? che effetto avevano i vasi ardenti con olio, zolfo, pece bollente e trementina? I cerchi infuocati, che hanno intorno un alone di fiamme, non son rimasti nei depositi di munizioni: questi, scagliati in diverse direzioni, mettono ai saraceni delle terribili ghirlande. Intanto il re di Sarza [Rodomonte] aveva spinto la seconda schiera sotto le mura, accompagnato da Buraldo e da Ormida, il primo dei Garamanti e il secondo di Marmonda. Clarindo e Soridano gli sono accanto e non per questo sembra che il re di Ceuta si nasconda; seguono i re di Marocco e di Cosca, ciascuno voglioso di dimostrare il proprio valore. Rodomonte di Sarza dispiega nella sua bandiera, tutta rossa, il leone che spalanca le fauci ad una briglia che gli porge la sua donna. Quel leone assomiglia a lui, mentre la donna che lo frena e tiene legato ricorda la bella Doralice, figlia del re di Granata, Stordilano: quella che re Mandricardo, come ho narrato, aveva rapito e ho detto dove e a chi. Questa donna era amata da Rodomonte più del suo regno e dei suoi occhi; e mostrava cortesia e valore per lei, non sapendo che era nelle mani di un altro: se l'avesse saputo avrebbe fatto subito ciò che fece dopo in quel giorno. Mille scale sono appoggiate insieme alle mura, che non hanno meno di due soldati su ogni gradino. Quello che segue spinge quello che sale davanti, e che fa salire suo malgrado il terzo più in alto. Chi è prode per virtù, chi per paura: è inevitabile che ognuno affronti la prova, poiché chiunque indugi, viene ucciso o ferito dal crudele re d'Algeri, Rodomonte. Ognuno dunque si sforza di salire sulle mura, tra il fuoco e gli oggetti che cadono. Ma tutti gli altri guardano se venga aperto uno spiraglio mal difeso: solo Rodomonte non vuole andare se non dove la strada è più pericolosa. Quando gli altri nella disperazione o nel rischio pregano, lui bestemmia Dio. Era armato di una forte e dura corazza, che fu una pelle scagliosa di drago. Con essa si cinse petto e schiena quel suo antenato [Nembrod] che costruì la torre di Babele, quando pensava di raggiungere il cielo e togliere a Dio il governo delle stelle: fece forgiare l'elmo, lo scudo e la spada in modo perfetto, solo a questo scopo. Rodomonte, non meno scatenato, superbo e furibondo di Nembrod, che non attenderebbe a salire al cielo di notte se mai trovasse la strada, ora non sta a guardare se le mura siano intere o spezzate, o se il fossato sia pieno d'acqua: lo supera, anzi corre e vola, immerso nell'acqua e nel fango sino alla gola. Sporco di fango e bagnato va tra il fuoco e i sassi e gli archi e le balestre, come il cinghiale è solito andare tra le canne di palude della nostra Mallea [palude nel Ferrarese], che ovunque vada si apre ampio passaggio col petto, col muso e con le zanne. Il saraceno sicuro, con lo scudo in alto, va disprezzando il cielo, non solo quel muro. Non appena Rodomonte è all'asciutto [è uscito dal fossato] sentirono che era arrivato sulle bertesche, che dentro al muro fungevano da ponte ampio e largo per le truppe franche. Ora si vede più di una fronte spezzata, si vedono chieriche maggiori di quelle dei frati, volare braccia e teste [Rodomonte uccide vari nemici]; e si vede cadere nella fossa un fiume di sangue dai muri. Il pagano getta lo scudo e afferra a due mani la spada crudele, e raggiunge il duca Arnolfo. Costui veniva da dove l'acqua del Reno si getta in mare [dall'Olanda]. Quel poveretto non si difende contro di lui meglio di come faccia lo zolfo contro il fuoco; e cade a terra fragorosamente, con la testa tagliata un palmo sotto il collo. Con un rovescio uccide al tempo stesso Anselmo, Oldrado, Spineloccio e Prando: il luogo stretto e la gran folla assiepata lo indusse a ruotare la spada all'impazzata. Una parte di morti venivano dalle Fiandre, l'altra dal popolo normanno. Poi squarciò il maganzese Orghetto con un taglio che dalla fronte andava al petto e al ventre. Getta giù nel fossato dai merli Andropono e Moschino: il primo è un prete, il secondo non adora che il vino e ne vuota le bigonce con un sorso. Fuggiva l'acqua come fosse veleno e sangue di vipera, quanto più poteva: ora muore qui e quel che più gli dà fastidio è sentire che muore nell'acqua. Tagliò in due Luigi il provenzale, e trapassò il petto ad Arnaldo di Tolosa. Oberto, Claudio, Ugo e Dionigi di Tours mandarono fuori l'anima col sangue caldo; e dopo questi morirono quattro parigini, Gualtiero, Satallone, Odo e Ambaldo, e molti altri: e io non saprei come indicare il nome e la patria di tutti i caduti. I soldati dietro a Rodomonte sono pronti ad appoggiare le scale e salgono in più di un punto. Qui i parigini non fanno più resistenza; la prima difesa serve a loro poco. Sanno bene che per i nemici ci sono più rischi all'interno, dove avranno difficoltà; infatti tra il muro e il secondo argine scende un profondo e orribile fossato. Oltre alla difesa opposta dai nostri dal basso verso l'alto, mostrando valore, nuovi soldati si avvicendano alla battaglia sopra il ripido pendio interno [dell'argine], che colpisce con lance e frecce la gran moltitudine di nemici di fuori, che credo proprio sarebbe stata meno numerosa senza la presenza del figlio di re Ulieno [Rodomonte]. Questi conforta gli uni e rimprovera gli altri, e li spinge avanti loro malgrado: trafigge il petto e il capo a questi e a quelli, se li vede voltare la faccia in fuga. Ne spinge e urta molti; ne prende alcuni per i capelli, per il collo e le braccia: e ne getta talmente tanti là in basso che quella fossa è stretta per contenerli tutti. Mentre lo stuolo dei barbari scende, anzi trabocca sul fondo pericoloso e da lì cerca di salire con molte scale sul secondo argine, il re di Sarza [Rodomonte], come avesse le ali in tutte le sue membra, sollevò il peso del suo corpo immenso e con tutte le armi addosso si lanciò al di là del fossato. Era una distanza di poco meno di trenta piedi e lui la superò agile come un cane da caccia, e nel cadere fece tanto rumore come se sotto i piedi avesse avuto il feltro: e ai nemici taglia l'armatura come se fosse di tenero peltro e non di ferro, anzi come se fosse di scorza: tale è la sua spada, e tanta la sua forza! Intanto i nostri, da cui sono tese delle insidie nella fossa profonda, dove hanno ammassato rami secchi e fascine in quantità e messo intorno pece abbondante (ma non se ne vede nessuna allo scoperto, anche se l'una e l'altra sponda della fossa ne sono piene sin quasi all'orlo), e vi hanno nascosto dentro tantissimi vasi, alcuni con salnitro, altri con olio, altri ancora con zolfo o simile materiale infiammabile; intanto i nostri, per punire il folle coraggio dei saraceni che erano nel fosso e credevano di salire con diverse scale sull'ultima bertesca, sentito il segnale dai luoghi convenuti, fanno avvampare le fiamme da ogni lato. La fiamma sparsa ne forma una sola, poiché il fossato ne è pieno dall'una all'altra sponda; e sale tanto in alto, che può quasi asciugare l'umido seno della luna. Sopra si spande un fumo nero e denso, che spegne il sole e getta oscurità. Si sente uno scoppio fortissimo, simile a un grande e terribile tuono. Un'aspra e orribile armonia di alti lamenti, di ululati e grida della misera gente che moriva bruciata nel fossato a causa del suo condottiero [Rodomonte], si sentiva stranamente in accordo col suono feroce della fiamma assassina. Ma ora, Signore [Ippolito], non voglio più proseguire questo canto; sono già rauco e voglio riposarmi un po'. |
Interpretazione complessiva
- L'episodio, costruito come un grandioso scenario epico mostrando la prima vera battaglia di tutto il poema, è diviso in due parti e descrive dapprima le difese approntate da Carlo e dai suoi uomini entro le mura di Parigi, nell'imminenza dell'assalto dei mori (ott. 98-109), poi il "fiero assalto" dei saraceni che vengono paragonati alle mosche che in estate si gettano sugli avanzi di cibo, oppure agli uccelli che carpiscono l'uva nelle vigne (ott. 110-134, similitudine che sottolinea il gran numero dei nemici e il loro carattere feroce, animalesco). La scena mostra soprattutto le forze impari in campo e l'impresa quasi disperata dei difensori che dovranno respingere l'assalto di un numero sterminato di nemici, talmente numerosi che contarli tutti sarebbe come contare gli alberi dell'Appennino o le onde del mare in tempesta o le stelle in cielo (l'iperbole vuol dare l'idea della sproporzione degli eserciti), pure i cristiani riusciranno a infliggere durissime perdite ai mori che pagheranno a caro prezzo questo primo assalto. Nel frattempo Rinaldo, di ritorno dalla sua missione in Britannia dove ha raccolto rinforzi, sta rientrando a Parigi aiutato dall'arcangelo Michele che ha mobilitato per lui il Silenzio permettendogli di arrivare in segreto e il suo arrivo darà manforte ai difensori, sovvertendo di fatto l'esito della battaglia. In tutta la pagina è molto evidente l'idea di una Cristianità assediata e minacciata dal nemico musulmano, situazione che riflette i timori legati all'avanzata dei Turchi in Europa nel XVI sec. (gli Ottomani giungeranno ad assediare Vienna nel 1529) e che si esprime già in questo canto, col richiamo ai soldati "per Cristo e pel suo onore a morir pronti" (102.4), e poi soprattutto in XVI.32 ss., quando Rinaldo rivolge un accorato appello ai guerrieri inglesi affinché difendano Parigi e, con essa, tutta la Cristianità che sarebbe alla mercé dei saraceni invasori ("Commun debito è ben, soccorrer l'uno / l'altro, che militian sotto una Chiesa"). Risulta chiaro che l'intento di Ariosto in questi versi è tutt'altro che ironico e che la materia epica è trattata con grande serietà, senza alcun intento di farne la parodia.
- Rodomonte è il vero protagonista delle ottave che descrivono l'assalto dei saraceni alle mura di Parigi, così come degli altri episodi di carattere militare che si succedono nel poema: la sua figura giganteggia sulla scena e viene presentato come un guerriero ardito e infaticabile, smanioso di combattere già prima dell'inizio dello scontro e poi pronto a uccidere persino i suoi se arretrano o voltano le spalle al nemico; indossa una corazza di pelle di drago già appartenuta al suo avo Nembrod, al quale assomiglia per il suo carattere di bestemmiatore senza alcun rispetto per la divinità o l'ordine costituito (il gigante biblico era associato alla costruzione della torre di Babele, benché tale tradizione fosse un'errata interpretazione del Medioevo). In realtà l'azione di Rodomonte è più temeraria che saggia ed egli trascina di fatto i suoi uomini al macello, perché li fa accalcare nel fossato stretto tra il muro e il secondo argine dove i cristiani hanno nascosto materiale infiammabile, così un gran numero di saraceni muoiono orrendamente bruciati quando i difensori danno fuoco alle fascine. All'inizio del canto seguente Ariosto sottolinea l'avventatezza della sua condotta che ha causato la morte di oltre 12.000 soldati mori, mentre Rodomonte si salva dalle fiamme superando l'argine e trovandosi poi all'interno di Parigi dove causerà una strage infinita e da dove verrà cacciato a fatica, allontanandosi a nuoto nella Senna (evidente l'imitazione con l'episodio di Turno nel campo troiano, Aen., IX.672 ss.). Il re africano sarà protagonista di altri episodi in cui darà prova di efferatezza e poco senno, come la morte di Isabella (► VAI AL TESTO) e soprattutto il duello finale in cui verrà ucciso da Ruggiero (► TESTO: Il duello di Ruggiero e Rodomonte).
- In tutto l'episodio è molto evidente l'imitazione dei modelli dell'epica classica, ovviamente dell'Iliade in cui l'azione bellica ruota attorno all'assedio di Troia, ma soprattutto del libro IX dell'Eneide in cui i Troiani sono trincerati nel loro accampamento e attaccati dai soldati di Turno, il quale a un certo punto verrà chiuso da solo all'interno delle mura e darà prove di incredibile ferocia prima di esserne cacciato e gettarsi nel Tevere (l'episodio è strettamente imitato da Ariosto in XVIII.8-24). L'autore si rifà allo stesso passo anche nelle ottave 122-125 del canto XIV, che descrivono l'eccidio compiuto da Rodomonte e ricalcano Aen., IX.691 ss. in cui è Turno a fare strage di Troiani (cfr. specialmente IX.762-777, dove Virgilio elencava con minuzia tutti i nemici abbattuti dal tremendo re dei Rutuli). Il brano ricorda anche Aen., X.380-425, in cui è Pallante ad abbattere i Latini prima di essere a sua volta affrontato e ucciso da Turno. Naturalmente l'arrivo poco dopo di Rinaldo con i rinforzi a Parigi che sovvertono l'esito della battaglia ricorda fin troppo da vicino l'arrivo di Enea con gli Arcadi a salvare il campo troiano assediato, per cui cfr. Aen., X.260 ss.
- Nel passo è nominata Doralice, la bellissima figlia di Stordilano re di Granata e promessa sposa di Rodomonte, che Mandricardo ha rapito dopo essersene follemente invaghito (XIV.38-64): il re africano porta uno stendardo che raffigura un leone in campo rosso tenuto al guinzaglio da una fanciulla, due personaggi che si rifanno allo stesso Rodomonte e alla sua fidanzata che, lui ignora, nel frattempo è stata ben felice di concedersi al suo feroce rapitore (► TESTO: Mandricardo e Doralice). Invece il re Dardinello d'Almonte che viene citato fra i guerrieri mori che affiancano Agramante nell'assalto è lo stesso che sarà protagonista, suo malgrado, dell'episodio di Cloridano e Medoro, quando i due fanti usciranno sul campo di battaglia per ritrovare il suo cadavere insepolto (► TESTO: Cloridano e Medoro).