Letteratura italiana
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Torquato Tasso


Erminia soccorre Tancredi
(Gerusalemme Liberata, XIX, 102-114)

Erminia ha ormai lasciato l'asilo dei pastori e si è unita all'esercito che dall'Egitto muove verso Gerusalemme, ormai espugnata, per dare manforte agli assediati: la principessa pagana incontra Vafrino, lo scudiero di Tancredi che è stato inviato al campo saraceno come spia, e non solo non lo denuncia ma lo supplica di portarla via con sé e di ricondurla a Gerusalemme. Durante il cammino i due si imbattono casualmente nel cadavere di Argante e, poco lontano, trovano lo stesso Tancredi esanime dopo il terribile duello con il pagano: dapprima lo credono morto, poi si accorgono che respira ancora ed Erminia lo cura con le arti mediche di cui è a conoscenza, rivelandogli il proprio amore mentre il guerriero crociato è privo di sensi e non può sentirla.

► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
► OPERA: Gerusalemme liberata


102
Il più usato sentier lasciò Vafrino,
calle cercando o più securo o corto.
Giunsero in loco a la città vicino
quando è il sol ne l'occaso e imbruna l'orto,
e trovaron di sangue atro il camino;
e poi vider nel sangue un guerrier morto
che le vie tutte ingombra, e la gran faccia
tien volta ai cielo e morto anco minaccia.

103
L'uso de l'arme e 'l portamento estrano
pagàn mostràrlo, e lo scudier trascorse;
un altro alquanto ne giacea lontano
che tosto a gli occhi di Vafrino occorse.
Egli disse fra sé: «Questi è cristiano.»
Più il mise poscia il vestir bruno in forse.
Salta di sella e gli discopre il viso,
ed: «Oimè,» grida «è qui Tancredi ucciso.»

104
A riguardar sovra il guerrier feroce
la male aventurosa era fermata,
quando dal suon de la dolente voce
per lo mezzo del cor fu saettata.
Al nome di Tancredi ella veloce
accorse in guisa d'ebra e forsennata.
Vista la faccia scolorita e bella,
non scese no, precipitò di sella;

105
e in lui versò d'inessicabil vena
lacrime e voce di sospiri mista:
«In che misero punto or qui mi mena
fortuna? a che veduta amara e trista?
Dopo gran tempo i' ti ritrovo a pena,
Tancredi, e ti riveggio e non son vista:
vista non son da te benché presente,
e trovando ti perdo eternamente.

106
Misera! non credea ch'a gli occhi miei
potessi in alcun tempo esser noioso.
Or cieca farmi volentier torrei
per non vederti, e riguardar non oso.
Oimè, de' lumi già sì dolci e rei
ov'è la fiamma? ov'è il bel raggio ascoso?
de le fiorite guancie il bel vermiglio
ov'è fuggito? ov'è il seren del ciglio?

107
Ma che? squallido e scuro anco mi piaci.
Anima bella, se quinci entro gire,
s'odi il mio pianto, a le mie voglie audaci
perdona il furto e 'l temerario ardire:
da le pallide labra i freddi baci,
che più caldi sperai, vuo' pur rapire;
parte torrò di sue ragioni a morte,
baciando queste labra essangui e smorte.

108
Pietosa bocca che solevi in vita
consolar il mio duol di tue parole,
lecito sia ch'anzi la mia partita
d'alcun tuo caro bacio io mi console;
e forse allor, s'era a cercarlo ardita,
quel davi tu ch'ora conven ch'invole.
Lecito sia ch'ora ti stringa e poi
versi lo spirto mio fra i labri tuoi.

109
Raccogli tu l'anima mia seguace,
drizzala tu dove la tua se 'n gio.»
Così parla gemendo, e si disface
quasi per gli occhi, e par conversa in rio.
Rivenne quegli a quell'umor vivace
e le languide labra alquanto aprio:
aprì le labra e con le luci chiuse
un suo sospir con que' di lei confuse.

110
Sente la donna il cavalier che geme,
e forza è pur che si conforti alquanto:
«Apri gli occhi, Tancredi, a queste estreme
essequie» grida «ch'io ti fo co 'l pianto;
riguarda me che vuo' venirne insieme
la lunga strada e vuo' morirti a canto.
Riguarda me, non te 'n fuggir sì presto:
l'ultimo don ch'io ti dimando è questo.»

111
Apre Tancredi gli occhi e poi gli abbassa
torbidi e gravi, ed ella pur si lagna.
Dice Vafrino a lei: «Questi non passa:
curisi adunque prima, e poi si piagna.»
Egli il disarma, ella tremante e lassa
porge la mano a l'opere compagna,
mira e tratta le piaghe e, di ferute
giudice esperta, spera indi salute.

112
Vede che 'l mal da la stanchezza nasce
e da gli umori in troppa copia sparti.
Ma non ha fuor ch'un velo onde gli fasce
le sue ferite, in sì solinghe parti.
Amor le trova inusitate fasce,
e di pietà le insegna insolite arti:
l'asciugò con le chiome e rilegolle
pur con le chiome che troncar si volle,

113
però che 'l velo suo bastar non pote
breve e sottile a le sì spesse piaghe.
Dittamo e croco non avea, ma note
per uso tal sapea potenti e maghe.
Già il mortifero sonno ei da sé scote,
già può le luci alzar mobili e vaghe.
Vede il suo servo, e la pietosa donna
sopra si mira in peregrina gonna.

114
Chiede: «O Vafrin, qui come giungi e quando?
E tu chi sei, medica mia pietosa?»
Ella, fra lieta e dubbia sospirando,
tinse il bel volto di color di rosa:
«Saprai» rispose «il tutto, or (te 'l comando
come medica tua) taci e riposa.
Salute avrai, prepara il guiderdone.»
Ed al suo capo il grembo indi suppone.


Vafrino lasciò la strada principale, cercando un sentiero più sicuro o più breve. [Lui ed Erminia] giunsero in un luogo vicino alla città, quando il sole stava tramontando e l'Oriente si oscurava, e trovarono il cammino sporco di sangue; e poi videro un guerriero morto e insanguinato [Argante], che ingombra col corpo l'intera via, e che tiene la grande faccia rivolta al cielo ancora minacciosa.



Il tipo di armi e le insegne diverse lo indicarono come un pagano e lo scudiero [Vafrino] passò oltre; un altro guerriero giaceva a poca distanza, che presto venne visto da Vafrino. Egli disse fra sé e sé: «Questo è un cristiano». Balza giù dalla sella e gli scopre il viso e grida:
«Ahimè, questo è Tancredi ucciso».





La sventurata [Erminia] si era soffermata a osservare il feroce saraceno, quando fu colpita in mezzo al cuore dal suono della voce addolorata. Al nome di Tancredi ella corse rapida, come se fosse in preda alla furia e forsennata. Quando vide la sua faccia bella e pallida, non scese dalla sella ma si precipitò a terra;




e su di lui versò lacrime che sembravano uscire da una fonte inesauribile, e parole mescola
te ai sospiri: «In quale misera circostanza ora mi conduce qui il mio destino? Dopo molto tempo, Tancredi, ti ritrovo appena e ti rivedo, non vista da te: non sono vista da te anche se sei qui, e trovandoti di perdo per sempre.





Povera me! non credevo che tu potessi mai essere spiacevole ai miei occhi. Ora vorrei farmi cieca per non vederti, e non ho il coraggio di guardarti. Ahimè, dov'è la fiamma dei tuoi occhi un tempo così dolci e spietati? dov'è nascosto il bel raggio? dov'è fuggito il bel colore roseo delle guance fiorenti? dov'è la serenità del tuo sguardo?




Ma come? anche così squallido e oscuro tu mi piaci. O anima bella, se dentro questo corpo ancora ti aggiri, se ascolti il mio pianto, perdonami se furtivamente appago le mie voglie audaci e il mio coraggio temerario: voglio strappare dalle tue pallide labbra i freddi baci, che sperai più caldi; sottrarrò alla morte parte dei suoi diritti, baciando queste labbra esangui e smorte.




O bocca pietosa, che in vita eri solita consolare il mio dolore con le tue parole, mi sia lecito consolarmi con qualche tuo caro bacio prima della mia morte; e forse allora, se io avessi avuto il coraggio di cercarlo, mi avresti dato quello che ora devo quasi rubare. Mi sia lecito ora stringerti e poi versare il mio spirito tra le tue labbra.




Tu raccogli la mia anima desiderosa di seguirti, indirizzala là dove la tua se ne è già andata». Così parla tra i gemiti, e quasi di strugge attraverso gli occhi e sembra trasformata in un ruscello [per le lacrime versate]. A quell'acqua vivace egli rinvenne e aprì un poco le labbra languide: aprì le labbra e con gli occhi chiusi mescolò un suo sospiro a quelli di lei.





La donna sente il cavaliere che geme ed è forzata a confortarsi un poco:
«Tancredi, apri gli occhi a queste ultime esequie - grida - che io ti faccio col mio pianto; guarda me che voglio venire insieme a te lungo la strada e voglio morirti accanto. Guarda me, non te ne andare così presto: questo è l'ultimo dono che ti chiedo».




Tancredi apre gli occhi e poi li richiude, annebbiati e pesanti, e lei continua a lamentarsi. Vafrino allora le dice:
«Questo non sta ancora morendo: prima lo dobbiamo curare, poi piangeremo». Lui gli toglie l'armatura, lei tremante e prostrata lo aiuta con le sue mani, osserva ed esamina le piaghe e, esperta nel giudicare le ferite, spera che Tancredi possa salvarsi.





Vede che il suo male nasce dal sangue che ha versato troppo copiosamente. Ma a parte un velo non ha nulla per fasciargli le ferite, in un luogo così solitario. Amore le fa trovare delle fasce insolite, e le insegna nuove arti di pietà: asciugò le ferite con le chiome dei suoi capelli
e le strinse con gli stessi capelli che si volle tagliare,




dal momento che il suo velo, corto e sottile, non può bastare a ferite così profonde. Non aveva con sé dittamo e croco [piante medicinali], ma conosceva formule magiche efficacissime per tale uso. Egli ormai scuote da sé il sonno mortale, può aprire gli occhi che si muovono luminosi. Vede il suo scudiero e la donna pietosa sopra di lui, che indossa panni stranieri.




Chiede:
«O Vafrino, come sono arrivato qui e quando? E tu chi sei, donna pietosa che mi curi?» Lei, sospirando tra la gioia e il dubbio, arrossì dolcemente nel volto: «Saprai tutto, - rispose - ma ora (te lo comando come tuo medico) taci e riposa. Tu guarirai, prepara la ricompensa». E quindi gli fa appoggiare la testa sul suo grembo.

Interpretazione complessiva

  • Collocato nella parte finale del canto XIX, l'episodio rappresenta il "secondo tempo" del terribile duello fra Tancredi e Argante che era posto in apertura (► TESTO: Il duello di Tancredi e Argante) e come quello si ricollega allo scontro interrotto tra i due nel canto VI, quando Erminia (che conosce arti mediche e magiche per curare le ferite) aveva deciso di travestirsi da Clorinda per andare a curare l'amato Tancredi: ora ne ha finalmente l'occasione, poiché la principessa, accompagnata da Vafrino sulla strada per Gerusalemme, si imbatte casualmente nel guerriero crociato che sembra morto per le piaghe riportate nel duello e che, invece, si salverà proprio grazie alle cure di lei. Erminia ricompare nel poema dopo la pausa idillica tra i pastori (► TESTO: Erminia tra i pastori), dalla quale era stata strappata a forza dall'esercito del re d'Egitto che muove verso Gerusalemme e dove è presente anche Armida, smaniosa di vendicarsi di Rinaldo. Qui la principessa ha incontrato Vafrino, lo scudiero di Tancredi che è stato mandato come spia e che lei riconosce, dandogli preziose informazioni e chiedendogli di condurla alla città, nella speranza di ritrovare l'uomo di cui è sempre innamorata. Il caso che la porta a trovare Tancredi e a curarlo ricorda fin troppo da vicino l'episodio del Furioso (XIX.17 ss.) in cui Medoro viene trovato e curato da Angelica, la quale poi si innamora di lui e lo segue nel Catai causando indirettamente la follia di Orlando (► TESTO: L'amore di Angelica e Medoro); Erminia ha in comune con la principessa pagana non solo il sangue reale e la bellezza, ma anche la conoscenza delle arti mediche e una certa dimestichezza con le "note... potenti e maghe".
  • Il passo rappresenta uno dei momenti più intensi e lirici del poema, con la protagonista Erminia che finalmente ritrova l'amato Tancredi e crede inizialmente che sia morto, per cui inizia a versare lacrime e a sospirare per la disperazione: sono evidenti le riprese dalla poesia petrarchista del Cinquecento, ad es. con il termine "lumi" (106.5) definiti "dolci e rei" in quanto avevano fatto innamorare la fanciulla, mentre di gusto decisamente manieristico è l'atteggiamento di Erminia che vuol baciare Tancredi pur credendolo morto e spera, in tal modo, di fare passare la propria anima nel corpo dell'amato, prima della morte che sente ormai prossima per sé. Il brano è anche una sorta di rovesciamento dell'analoga situazione fra Tancredi e Clorinda dopo il duello mortale, con la variante che qui il giovane non è ancora spirato ed Erminia può curare le sue ferite salvandogli la vita, arrivando a sacrificare i suoi capelli (simbolo della bellezza femminile) che taglia per ricavarne bende con cui fasciarlo, forse l'invenzione tassesca più poetica dell'intero episodio. Tancredi si rianima e alle sue domande Erminia risponde imponendogli dolcemente il silenzio e rimandando a quando sarà guarito il "guiderdone", la ricompensa per le cure ricevute, che vuol essere un'allusione all'amore che lei prova per lui e che, forse, il cristiano potrà ricambiare un giorno (la vicende dei due ha un finale "aperto", proprio come quella di Rinaldo e Armida alla conclusione del poema). Il gesto finale di Erminia che appoggia delicatamente la testa sul grembo di Tancredi riprende la scena di seduzione tra la maga pagana e Rinaldo, con la differenza che là era lui ad essere sottomesso alla donna e l'amore era frutto di un incantesimo (► TESTO: L'amore di Rinaldo e Armida).
  • Questa è di fatto l'ultima apparizione di Erminia nella Liberata, mentre Tancredi nelle fasi finale del combattimento con l'esercito egiziano (XX.83 ss.), pur ancora debole e convalescente, proteggerà col suo scudo il compagno Raimondo in difficoltà e darà quindi un contributo significativo alla vittoriosa conclusione della battaglia, benché inferiore a quello fondamentale dell'eroe Rinaldo. L'episodio di Erminia che cura le ferite dell'amato verrà eliminato invece dalla redazione della Conquistata, in cui la principessa pagana è chiamata Nicea ed è sempre infelicemente innamorata di Tancredi, anche se questo filone narrativo viene notevolmente sacrificato.

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