Torquato Tasso
L'abbandono di Armida
(Gerusalemme Liberata, XVI, 38-62)
Dopo che Carlo e Ubaldo hanno liberato Rinaldo dall'incantesimo e si accingono a lasciare le Isole Fortunate insieme a lui, la maga Armida scopre l'accaduto e corre disperata alla spiaggia, nel tentativo di trattenere l'uomo amato e impedirgli di tornare a Gerusalemme. Non potendo usare i suoi incanti a causa dello scudo fatato che il mago di Ascalona ha fornito ai crociati, la donna fa ancora una volta ricorso alle sue arti di seduzione amorosa, non sortendo tuttavia l'effetto sperato (Rinaldo, pur restando toccato dalle parole di Armida, non si lascia smuovere dal proposito di andarsene). La maga sfoga allora tutta la sua rabbia verso il guerriero, accusandolo di essere crudele e insensibile, poi perde i sensi mentre la nave condotta dalla Fortuna si allontana rapidissima dall'isola. L'episodio, che contiene molti riferimenti al dialogo di Didone ed Enea del libro IV dell' "Eneide", è essenziale in quanto mostra Rinaldo sulla strada della raggiunta maturità, che lo porterà di lì a poco a vincere gli incanti della selva di Saron, mentre in seguito ci sarà la radicale trasformazione di Armida che rinuncerà per sempre alla magia e diventerà una guerriera, più che mai decisa a vendicarsi dell'uomo che l'ha abbandonata.
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
► OPERA: Gerusalemme liberata
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
► OPERA: Gerusalemme liberata
38
Corre, e non ha d’onor cura o ritegno. Ahi! dove or sono i suoi trionfi e i vanti? Costei d’Amor, quanto egli è grande, il regno volse e rivolse sol co ‘l cenno inanti, e cosí pari al fasto ebbe lo sdegno, ch’amò d’essere amata, odiò gli amanti; sé gradí sola, e fuor di sé in altrui sol qualche effetto de’ begli occhi sui. 39 Or negletta e schernita in abbandono rimase, segue pur chi fugge e sprezza; e procura adornar co’ pianti il dono rifiutato per sé di sua bellezza. Vassene, ed al piè tenero non sono quel gelo intoppo e quella alpina asprezza; e invia per messaggieri inanzi i gridi, né giunge lui pria ch’ei sia giunto a i lidi. 40 Forsennata gridava: «O tu che porte parte teco di me, parte ne lassi, o prendi l’una o rendi l’altra, o morte dà insieme ad ambe: arresta, arresta i passi, sol che ti sian le voci ultime porte; non dico i baci, altra piú degna avrassi quelli da te. Che temi, empio, se resti? Potrai negar, poi che fuggir potesti.» 41 Dissegli Ubaldo allor: «Già non conviene che d’aspettar costei, signor, ricusi; di beltà armata e de’ suoi preghi or viene, dolcemente nel pianto amaro infusi. Qual piú forte di te, se le sirene vedendo ed ascoltando a vincer t’usi? cosí ragion pacifica reina de’ sensi fassi, e se medesma affina.» 42 Allor ristette il cavaliero, ed ella sovragiunse anelante e lagrimosa: dolente sí che nulla piú, ma bella altrettanto però quanto dogliosa. Lui guarda e in lui s’affisa, e non favella, o che sdegna o che pensa o che non osa. Ei lei non mira; e se pur mira, il guardo furtivo volge e vergognoso e tardo. 43 Qual musico gentil, prima che chiara altamente la voce al canto snodi, a l’armonia gli animi altrui prepara con dolci ricercate in bassi modi, cosí costei, che ne la doglia amara già tutte non oblia l’arti e le frodi, fa di sospir breve concento in prima per dispor l’alma in cui le voci imprima. 44 Poi cominciò: «Non aspettar ch’io preghi, crudel, te, come amante amante deve. Tai fummo un tempo; or se tal esser neghi, e di ciò la memoria anco t’è greve, come nemico almeno ascolta: i preghi d’un nemico talor l’altro riceve. Ben quel ch’io chieggio è tal che darlo puoi e integri conservar gli sdegni tuoi. 45 Se m’odii, e in ciò diletto alcun tu senti, non te ‘n vengo a privar: godi pur d’esso. Giusto a te pare, e siasi. Anch’io le genti cristiane odiai, no ‘l nego, odiai te stesso. Nacqui pagana, usai vari argomenti che per me fosse il vostro imperio oppresso; te perseguii, te presi, e te lontano da l’arme trassi in loco ignoto e strano. 46 Aggiungi a questo ancor quel ch’a maggiore onta tu rechi ed a maggior tuo danno: t’ingannai, t’allettai nel nostro amore; empia lusinga certo, iniquo inganno, lasciarsi còrre il virginal suo fiore, far de le sue bellezze altrui tiranno, quelle ch’a mille antichi in premio sono negate, offrire a novo amante in dono! 47 Sia questa pur tra le mie frodi, e vaglia sí di tante mie colpe in te il difetto che tu quinci ti parta e non ti caglia di questo albergo tuo già sí diletto. Vattene, passa il mar, pugna, travaglia, struggi la fede nostra: anch’io t’affretto. Che dico nostra? ah non piú mia! fedele sono a te solo, idolo mio crudele. 48 Solo ch’io segua te mi si conceda: picciola fra nemici anco richiesta. Non lascia indietro il predator la preda; va il trionfante, il prigionier non resta. Me fra l’altre tue spoglie il campo veda ed a l’altre tue lodi aggiunga questa, che la tua schernitrice abbia schernito mostrando me sprezzata ancella a dito. 49 Sprezzata ancella, a chi fo piú conserva di questa chioma, or ch’a te fatta è vile? Raccorcierolla: al titolo di serva vuo’ portamento accompagnar servile. Te seguirò, quando l’ardor piú ferva de la battaglia, entro la turba ostile. Animo ho bene, ho ben vigor che baste a condurti i cavalli, a portar l’aste. 50 Sarò qual piú vorrai scudiero o scudo: non fia ch’in tua difesa io mi risparmi. Per questo sen, per questo collo ignudo, pria che giungano a te, passeran l’armi. Barbaro forse non sarà sí crudo che ti voglia ferir, per non piagarmi, condonando il piacer de la vendetta a questa, qual si sia, beltà negletta. 51 Misera! ancor presumo? ancor mi vanto di schernita beltà che nulla impetra?» Volea piú dir, ma l’interruppe il pianto che qual fonte sorgea d’alpina pietra. Prendergli cerca allor la destra o ‘l manto, supplichevole in atto, ed ei s’arretra, resiste e vince; e in lui trova impedita Amor l’entrata, il lagrimar l’uscita. 52 Non entra Amor a rinovar nel seno, che ragion congelò, la fiamma antica; v’entra pietate in quella vece almeno, pur compagna d’Amor, benché pudica e lui commove in guisa tal ch’a freno può ritener le lagrime a fatica. Pur quel tenero affetto entro restringe, e quanto può gli atti compone e infinge. 53 Poi le risponde: «Armida, assai mi pesa di te; sí potess’io, come il farei, del mal concetto ardor l’anima accesa sgombrarti: odii non son, né sdegni i miei, né vuo’ vendetta, né rammento offesa; né serva tu, né tu nemica sei. Errasti, è vero, e trapassasti i modi, ora gli amori essercitando, or gli odi; 54 ma che? son colpe umane e colpe usate: scuso la natia legge, il sesso e gli anni. Anch’io parte fallii; s’a me pietate negar non vuo’, non fia ch’io te condanni. Fra le care memorie ed onorate mi sarai ne le gioie e ne gli affanni, sarò tuo cavalier quanto concede la guerra d’Asia e con l’onor la fede. 55 Deh! che del fallir nostro or qui sia il fine e di nostre vergogne omai ti spiaccia, ed in questo del mondo ermo confine la memoria di lor sepolta giaccia. Sola, in Europa e ne le due vicine parti, fra l’opre mie questa si taccia. Deh! non voler che segni ignobil fregio tua beltà, tuo valor, tuo sangue regio. 56 Rimanti in pace, i’ vado; a te non lice meco venir, chi mi conduce il vieta. Rimanti, o va per altra via felice, e come saggia i tuoi consigli acqueta.» Ella, mentre il guerrier cosí le dice, non trova loco, torbida, inquieta; già buona pezza in dispettosa fronte torva riguarda, al fin prorompe a l’onte: 57 «Né te Sofia produsse e non sei nato de l’azio sangue tu; te l’onda insana del mar produsse e ‘l Caucaso gelato, e le mamme allattàr di tigre ircana. Che dissimulo io piú? l’uomo spietato pur un segno non diè di mente umana. Forse cambiò color? forse al mio duolo bagnò almen gli occhi o sparse un sospir solo? 58 Quali cose tralascio o quai ridico? S’offre per mio, mi fugge e m’abbandona; quasi buon vincitor, di reo nemico oblia le offese, i falli aspri perdona. Odi come consiglia! odi il pudico Senocrate d’amor come ragiona! O Cielo, o dèi, perché soffrir questi empi fulminar poi le torri e i vostri tèmpi? 59 Vattene pur, crudel, con quella pace che lasci a me; vattene, iniquo, omai. Me tosto ignudo spirto, ombra seguace indivisibilmente a tergo avrai. Nova furia, co’ serpi e con la face tanto t’agiterò quanto t’amai. E s’è destin ch’esca del mar, che schivi gli scogli e l’onde e che a la pugna arrivi, 60 là tra ‘l sangue e le morti egro giacente mi pagherai le pene, empio guerriero. Per nome Armida chiamerai sovente ne gli ultimi singulti: udir ciò spero.» Or qui mancò lo spirto a la dolente, né quest’ultimo suono espresse intero; e cadde tramortita e si diffuse di gelato sudore, e i lumi chiuse. 61 Chiudesti i lumi, Armida; il Cielo avaro invidiò il conforto ai tuoi martiri. Apri, misera, gli occhi; il pianto amaro ne gli occhi al tuo nemico or ché non miri? Oh s’udir tu ‘l potessi, oh come caro t’addolcirebbe il suon de’ suoi sospiri! Dà quanto ei pote, e prende (e tu no ‘l credi!) pietoso in vista gli ultimi congedi. 62 Or che farà? dée su l’ignuda arena costei lasciar cosí tra viva e morta? Cortesia lo ritien, pietà l’affrena, dura necessità seco ne ‘l porta. Parte, e di lievi zefiri è ripiena la chioma di colei che gli fa scorta. Vola per l’alto mar l’aurata vela: ei guarda il lido, e ‘l lido ecco si cela. |
[Armida] corre e non si cura né ha ritegno del proprio onore. Ahimè! Dove sono adesso i suoi trionfi e i suoi vanti? Costei, prima, ha voltato e rivoltato solo coi suoi cenni il grande regno d'Amore, e il suo sdegno era pari al suo orgoglio, infatti le piacque di essere amata ma odiò gli amanti; amò solo se stessa e al di fuori di sé, negli altri, tollerò solo qualche atto di servitù amorosa suscitato dalla sua bellezza. Ora, trascurata e disprezzata, è abbandonata, e pure segue chi la fugge e la disprezza; e si appresta ad abbellire col pianto il dono della sua bellezza, rifiutato di per sé. Corre e per i suoi teneri piedi non sono un ostacolo il gelo e l'asprezza della montagna; e manda come suoi messaggeri le grida, e non raggiunge Rinaldo prima che lui sia arrivato alla spiaggia. Fuori di sé gridava: «O tu che porti con te una parte di me [l'anima], e una parte lasci qui [il corpo], devi prenderle entrambe oppure dare la morte ad ambedue insieme: ferma, ferma il passo, ascolta solo le mie ultime parole; non voglio darti dei baci, quelli li avrà un'altra più degna di me. Che cosa temi, malvagio, se resti? Avrai il coraggio di respingermi, visto che sei riuscito a scappare». Allora Ubaldo gli disse: «Rinaldo, non conviene che tu rifiuti di aspettare questa donna; ora viene armata della sua bellezza e delle sue preghiere, dolcemente mescolati al suo amaro pianto. Chi sarà più forte di te, se ti abitui a vincere vedendo e ascoltando le sirene? Così la ragione diventa pacifica dominatrice dei sensi e migliora se stessa». Allora il cavaliere si fermò e lei sopraggiunse affannata e in lacrime: esprime un sommo dolore, ma è altrettanto bella quanto è addolorata. Guarda Rinaldo e fissa in lui lo sguardo, e non dice nulla, o perché fa la sdegnosa, o perché riflette, o perché non osa. Lui non la guarda; e se anche la guarda, le rivolge gli occhi in modo vergognoso e fuggevole. Come un aggraziato cantore, prima di spiegare in modo chiaro e netto la voce al canto, prepara gli animi del pubblico all'armonia con note emesse in toni bassi, così Armida, che anche se è addolorata non dimentica tutte le arti e gli inganni, emette prima un breve preludio di sospiri per ben disporre l'anima che ascolterà le sue parole. Poi iniziò: «Non ti aspettare che io ti preghi, o crudele, come un amante fa con la persona amata. Noi fummo questo, una volta; ora, se neghi di essere tale per me, e anche il ricordo di ciò ti è fastidioso, almeno ascoltami come un nemico: talvolta i nemici ascoltano a vicende le loro preghiere. Del resto, quello che ti chiedo puoi concederlo e conservare intatto tutto il tuo sdegno. Se tu mi odi, e in questo provi una qualche gioia, non vengo a privartene: godi pure di ciò. Visto che ti sembra giusto, sia pure così. Anch'io ho odiato i cristiani, non lo nego, e odiai te stesso. Sono nata pagana, ho usato vari strumenti per far sì che la vostra potenza fosse abbattuta; ti tesi una trappola, ti catturai, e ti portai in luogo ignoto e strano, lontano dalla guerra. Aggiungi a questo ciò che tu ritieni maggior vergogna e maggior danno per te: ti ho ingannato, ti ho allettato nel nostro amore; una malvagia lusinga, certo, un vile inganno, lasciare che tu cogliessi la mia verginità, fare un altro tiranno della mia bellezza, quella che ho negato come premio a mille altri prima di te e che ho offerto in dono a un nuovo amante! Sia pure questa una delle mie frodi e il difetto di tante mie colpe faccia sì che tu te ne vada via di qui e non ti importi nulla di questa dimora che un tempo amavi. Vattene, varca il mare, combatti, soffri, distruggi la nostra fede pagana: io stessa ti spingo a farlo. Ma che dico nostra? Ah, non è più la mia fede! Io sono fedele solo a te, mio idolo crudele. Concedimi solo che io possa seguirti: una richiesta di poco conto, anche fra nemici. Il predatore non lascia indietro la preda; colui che trionfa va e il prigioniero non rimane. Il campo cristiano tra gli altri tuoi trofei veda anche me e aggiunga questa lode alle altre, che tu abbia schernito colei che ti scherniva, mostrandomi a dito come schiava spregevole. Schiava disprezzata, per chi conservo questi capelli che per te ora non valgono più nulla? Li taglierò: al titolo di schiava si conviene un portamento servile. Ti seguirò fra le schiere nemiche, quando la battaglia sarà nel più cruento svolgimento. Ho molto coraggio e quel vigore necessario a portarti i cavalli e le lance. Sarò quello che vorrai, il tuo scudiero o il tuo scudo: non mi risparmierò in tua difesa. Le armi passeranno attraverso questo petto, questo collo nudo, prima che giungano a te. Forse non ci sarà un nemico così crudele da volerti ferire e non mi colpirà, rinunciando al gusto della vendetta in omaggio alla mia bellezza che tu ora disprezzi. Povera me! Ancora nutro speranze? Ancora mi vanto della mia bellezza schernita che non ottiene nulla?» Voleva dire altro, ma la interruppe il pianto, che sgorgava da lei come una fonte da una roccia montana. Allora cerca di prendergli la mano destra o il mantello, in atto supplichevole, ma lui arretra, resiste e vince; e Amore trova impedito l'accesso al suo cuore, come le lacrime l'uscita. Amore non entra nel suo petto a riaccendere la fiamma antica che la ragione ha spento; vi entra al suo posto la compassione, pur compagna d'Amore anche se pudica, e lo commuove al punto che trattiene a stento le lacrime. Eppure Rinaldo soffoca quel tenero affetto e, per quanto riesce, dissimula compostezza. Poi le risponde: «Armida, sono molto in pena per te; se potessi liberarti l'anima accesa da questa insana passione, lo farei: il mio non è odio, non è sdegno, non voglio vendetta e non rammento alcuna offesa; tu non mi sei schiava né nemica. Hai sbagliato, è vero, e hai oltrepassato i limiti, coltivando ora l'amore, ora l'odio; e allora? Sono errori consueti fra gli uomini: ti scuso in nome della tua fede, del fatto che sei donna e giovane. Anch'io in parte ho sbagliato; se non vuoi negarmi pietà, non sarò io a condannarti. Nelle gioie e negli affanni sarai sempre tra i miei ricordi cari e onorati, sarò tuo cavaliere quanto mi è concesso dalla guerra in Asia e dalla fede e dall'onore. Orsù! Poniamo fine ora ai nostri errori e ormai prova vergogna dei nostri peccati, e il loro ricordo resti sepolto in questo estremo confine del mondo. Solo questa, fra le altre mie opere, sia taciuta in Europa, in Africa e in Asia. Orsù! Non volere che la tua bellezza, la tua nobiltà e il tuo sangue reale siano macchiati da un segno infamante. Resta qui in pace, io me ne vado; a te non è concesso venire con me, chi mi fa da guida me lo vieta. Rimani, oppure va' per un'altra strada felice, e da donna saggia rendi più pacati i tuoi propositi». Lei, mentre il guerriero le parla così, non trova pace, torbida e inquieta; da molto tempo, con volto imbronciato, lo guarda ostile, e alla fine esplode con insulti: «Non sei stato generato da Sofia e non sei nato dal sangue romano; tu sei stato generato dall'onda furiosa del mare, e dal freddo Caucaso, e ti hanno allattato le mammelle di una tigre dell'Ircania. Perché fingo ancora? Quest'uomo spietato non ha dato neppure un segno di essere una creatura umana. Forse è impallidito? Forse al mio dolore ha almeno pianto o ha emesso un solo sospiro? Quali cose devo tralasciare e quali ripetere? Dice che è mio, e mi fugge e mi abbandona; come se fosse un vincitore clemente, dimentica le offese di un nemico malvagio e perdona le dure colpe. Senti come ragiona! Senti il casto Senocrate, come parla d'amore! O Cielo, o dei, perché tollerate che questi empi cristiani brucino le nostre torri e i nostri templi? Vattene pure, crudele, con quella pace che mi lasci; vattene ormai, malvagio. D'ora in poi mi avrai sempre alle spalle, come spirito nudo e ombra seguace, da te indivisibile. Come una nuova furia, ti tormenterò con le serpi e la fiaccola tanto quanto ti amai. E se è destino che tu esca vivo dal mare, che tu possa schivare gli scogli e le onde e che arrivi alla battaglia, là, giacendo ferito tra il sangue e le morti mi pagherai le pene, malvagio guerriero. Chiamerai spesso Armida per nome, negli ultimi gemiti: spero di udire questo». Qui alla dolente donna mancarono le forze e quest'ultima parola la espresse in modo incompleto; cadde svenuta e fu cosparsa di sudore freddo, chiudendo gli occhi. Chiudesti gli occhi, Armida; il Cielo, ingeneroso, tolse il conforto alle tue pene. Apri, misera, gli occhi; perché non osservi il pianto amaro negli occhi del tuo nemico [Rinaldo]? Oh, se tu potessi sentirlo, come il suono caro dei suoi sospiri ti raddolcirebbe! Egli dà quello che può e prende l'ultimo congedo pietoso a vedersi (e tu non lo credi!). Ora che cosa farà? Deve lasciare questa donna sulla nuda spiaggia, a metà tra la vita e la morte? La cortesia lo trattiene, la pietà lo frena, ma la dura necessità lo porta via con sé. Se ne va e la chioma di colei [la Fortuna] che gli fa da guida è scompigliata da leggeri zefiri. La nave dorata vola sull'alto mare: lui guarda la costa e la costa ormai svanisce. |
Interpretazione complessiva
- Il passo costituisce la conclusione della lunga parentesi idillica di Rinaldo e Armida sulle Isole Fortunate, con il guerriero che ha ritrovato la ragione e si è liberato dall'incanto amoroso della maga, anche se conserva per lei qualcosa di simile all'affetto: quando Armida scopre di essere stata abbandonata corre sulla spiaggia, cerca di trattenere l'uomo che ama con un discorso supplichevole, anche se Rinaldo (ormai votato al proprio dovere militare e in procinto di redimersi dai propri errori) non si lascia persuadere né a restare, né tanto meno a portare la bella maga con sé. Da sottolineare il fatto che Armida non rinuncia a fingere e a recitare una parte di fronte a Rinaldo, paragonata dall'autore a un "musico gentil" (un cantore) che prima di esibirsi esegue le "ricercate", note basse emesse per provare la voce e disporre il pubblico all'ascolto del brano: Armida ama realmente Rinaldo, tuttavia non può fare a meno di prodursi in una esibizione per cercare di trattenerlo, così come in fondo aveva fatto sino a quel momento durante l'idillio amoroso (cfr. soprattutto le ott. 18 ss. di questo canto, in cui è descritto l'amoreggiare dei due; ► TESTO: L'amore di Rinaldo e Armida).
- In tutto il brano è molto evidente l'imitazione del dialogo di Enea e Didone nel libro IV dell'Eneide, quando la regina scopre che l'eroe sta preparando in segreto la partenza per l'Italia e lo affronta supplicandolo di restare, per poi attaccarlo con forza di fronte al suo rifiuto: il modello virgiliano è presente soprattutto all'ott. 56 (5-8), quando Armida ascolta turbata le parole di Rinaldo (Aen., IV, 362-364: Talia dicentem iamdudum aversa tuetur / huc illuc volvens oculos totumque pererrat / luminibus tacitis et sic accensa profatur) e all'ott. 57 (1-4), quando Armida accusa Rinaldo di essere stato generato dal Caucaso e allattato da una tigre (Aen., IV, 365-367: nec tibi diva parens generis nec Dardanus auctor, / perfide, sed duris genuit te cautibus horrens / Caucasus Hyrcanaeque admorunt ubera tigres); poi quando si chiede (5-8) a che scopo fingere ancora, vista l'apparente insensibilità del guerriero (Aen., IV, 368-370: nam quid dissimulo aut quae me ad maiora reservo? / num fletu ingemuit nostro? num lumina flexit? / num lacrimas victus dedit aut miseratus amantem est?). Anche nell'ott. 59 c'è una ripresa delle parole di Didone, quando la regina invitava Enea ad andarsene e al contempo gli augurava un destino infausto e gli prometteva di tormentarlo nei suoi incubi (Aen., IV, 381-384: i, sequere Italiam ventis, pete regna per undas. / Spero equidem mediis, si quid pia numina possunt, / supplicia hausurum scopulis et nomine Dido / saepe vocaturum; 386: dabis, improbe, poenas). La risposta di Rinaldo al primo discorso di Armida è invece assai più "signorile" di quello di Enea, che pur soffocando in cuore la pena per l'amata Didone le parlava in modo assai più sbrigativo e concludeva invitandola a cessare di tormentarlo, dal momento che non di sua volontà cercava di arrivare in Italia (Aen., IV, 333-361).
- Dopo la partenza di Rinaldo avverrà una radicale trasformazione del personaggio di Armida, che infatti distruggerà il giardino incantato sull'isola e rinuncerà per sempre alla magia, diventando una guerriera (si unirà infatti alle schiere in procinto di partire dall'Egitto verso Gerusalemme) col proposito di vendicarsi dell'uomo che l'ha tradita, anche se userà ancora le sue arti di seduzione per indurre altri campioni pagani a uccidere Rinaldo. Alla fine non riuscirà nel suo intento perché ancora innamorata del crociato, e tuttavia l'amore agirà su di lei inducendola addirittura a convertirsi, lasciando aperto uno spiraglio su una possibile evoluzione del suo rapporto con Rinaldo (► TESTO: La conversione di Armida). È interessante inoltre osservare come nell'episodio della selva di Saron, quando a Rinaldo apparirà una falsa immagine della maga che tenterà di sedurlo, questa agirà proprio come la vera Armida e si esibirà in una scena sapientemente recitata in cui alternerà minacce e suppliche, sospiri e lacrime (► TESTO: Rinaldo vince gli incanti della selva).