OPERA
Il principe
Il Principe è un trattato storico-politico di Niccolò Machiavelli (► AUTORE), composto nel corso del 1513 durante il soggiorno forzato dell'autore all'Albergaccio (il suo podere agricolo presso S. Casciano) dove era stato confinato in seguito al fallito colpo di stato contro i Medici l'anno prima. È lo stesso Machiavelli a dar conto della composizione dell'opera nella lettera a Francesco Vettori del 10 dic. 1513, in cui dichiara di aver scritto un "opuscolo" intitolato De principatibus in cui spiega "che cosa è principato, di quale spezie sono, come e' si acquistono, come e' si mantengono, perché e' si perdono", confidando all'amico di voler dimostrare attraverso questo piccolo libro tutta la sua esperienza politica e sperare, in tal modo, di essere riammesso al servizio dei Medici. L'opera è infatti dedicata a Lorenzo de' Medici cui è indirizzata una lettera dedicatoria (inizialmente l'autore pensava di rivolgersi a Giuliano, poi morto prematuramente) e si conclude con un'appassionata esortazione alla signoria affinché si metta alla testa di un non meglio precisato moto di riscossa nazionale, che scacci lo straniero dall'Italia e riunifichi politicamente la Penisola sotto il proprio dominio. Il testo rientra nel genere del trattato in prosa quale si era delineato nel Cinquecento rifacendosi ai modelli classici, soprattutto latini (Cicerone in primis) ed è suddiviso in 26 capitoli piuttosto snelli, strutturati secondo un preciso schema: dopo il cap. proemiale che enuncia la materia, l'autore passa in rassegna i vari esempi di principato (II-XI), quindi tratta il tema delle milizie (XII-XIV), elenca le qualità del principe (XV-XXIII), affronta il tema della fortuna e della virtù (XXIV-XXV) e infine rivolge la sua esortazione ai Medici (XXVI). Propriamente il testo vuol essere una sorta di insegnamento ai sovrani e ai potenti sul modo migliore di gestire e mantenere il potere su uno Stato, frutto della passata esperienza politica dell'autore e delle sue conoscenze teoriche, e tale insegnamento prescinde totalmente da qualunque scrupolo morale e religioso, per cui si può affermare che il trattato getti le basi della teoria politica moderna. Il testo ebbe enorme risonanza in Italia e in Europa e attirò numerose critiche contro il suo autore, presto accusato di immoralità e di cinismo politico (il cosiddetto "machiavellismo"), mentre nel clima della Controriforma l'opera venne posta all'Indice dalla Chiesa e in seguito sottoposta a un intenso lavorio interpretativo, che non di rado ne ha snaturato profondamente il senso originario (tale atteggiamento si manifestò soprattutto tra XVI e XVII sec., perdurando sino al Settecento).
Qui un breve video su Machiavelli e Cesare Borgia (il duca Valentino), tratto dal canale YouTube "Video Letteratura" |
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Titolo, struttura, composizione
Machiavelli si dedicò alla stesura dell'opera nel corso del 1513, durante il soggiorno forzato all'Albergaccio, con l'intento dichiarato di produrre un trattato che dimostrasse ai Medici la sua competenza nell'arte politica e indurli ad assegnargli un incarico pubblico nel loro governo, anche di modesta entità (è lui stesso a darne notizia nella lettera all'amico Francesco Vettori, datata 10 dicembre 1513; ► VAI AL TESTO). Il trattato, il cui titolo originale doveva forse essere De principatibus, è di argomento storico-politico e non presenta la struttura dialogica spesso utilizzata dal trattato rinascimentale, mostrando anzi una certa snellezza e una relativa brevità (l'autore stesso lo definisce "opuscolo", sempre nella lettera al Vettori). L'opera circolò in forma manoscritta quando Machiavelli era ancora vivo e non venne mai stampata ufficialmente dell'autore, mentre la prima edizione è postuma e risale al 1532, già col titolo, poi diventato quello tradizionale, di Principe. Il testo si compone di 26 brevi capitoli ed è accompagnato da una lettera dedicatoria a Lorenzo di Piero de' Medici, che funge in certo modo da introduzione generale e fu scritta nel 1516, poiché in un primo tempo Machiavelli pensava di dedicare il trattato a Giuliano de' Medici poi prematuramente scomparso. Non è escluso che alcuni capitoli siano stati rimaneggiati dall'autore dopo il 1513, anche se della storia redazionale del trattato siamo assai poco informati (stando alla lettera al Vettori, comunque, pare che la struttura dell'opera fosse sostanzialmente definita già a quell'epoca, quindi gli ulteriori interventi devono essere stati lievi). Ogni capitolo è preceduto da una rubrica in latino che sintetizza l'argomento trattato e la struttura dell'opera è rigidamente definita, con un primo capitolo di introduzione generale (I), l'elenco dei vari tipi di principato esistenti (II-XI), il tema delle milizie e degli eserciti (XII-XIV), le qualità che deve avere il principe (XV-XXIII), il rapporto virtù-fortuna (XXIV-XXV), l'esortazione finale ai Medici per l'unificazione dell'Italia (XXVI). Ecco un prospetto sinottico del contenuto dei vari capitoli dell'opera (gli argomenti indicati sono la traduzione delle rubriche in latino):
Cap. I
Cap. II Cap. III Cap. IV Cap. V Cap. VI Cap. VII Cap. VIII Cap. IX Cap. X Cap. XI Cap. XII Cap. XIII Cap. XIV Cap. XV Cap. XVI Cap. XVII Cap. XVIII Cap. XIX Cap. XX Cap. XXI Cap. XXII Cap. XXIII Cap. XXIV Cap. XXV Cap. XXVI |
I tipi di principato e formazione del principato (►)
I principati ereditari I principati misti Perché, dopo la morte di Alessandro, i suoi successori non persero il regno di Dario che Alessandro aveva conquistato In che modo si debbano governare le città o i principati che, prima di esser conquistati, avevano un proprio ordinamento I principati nuovi conquistati con armi proprie e con virtù (►) I principati nuovi conquistati con armi altrui e con fortuna (►) Coloro che hanno ottenuto il principato per mezzo di delitti Il principato civile (►) In che modo si debbano valutare le forze militari dei principati I principati ecclesiastici Quanti siano i tipi di esercito e le milizie mercenarie (►) Le milizie ausiliarie, miste, e proprie Il rapporto tra principe ed esercito Le qualità per le quali gli uomini e specialmente i principi sono lodati o criticati (►) Liberalità e parsimonia Crudeltà e clemenza; è meglio essere amato che temuto, o il contrario? In che misura i principi debbano mantenere la parola data (►) Come evitare il disprezzo e l'odio (►) Se le fortezze e molte altre tecniche oggi adottate dai principi siano utili o dannose Ciò che il principe deve fare per ottenere prestigio I consiglieri del principe In che modo evitare gli adulatori (►) Perchè i principi d’Italia abbiano perduto i loro Stati (►) Quale sia il potere della fortuna nelle vicende umane e in che modo ci si possa opporre ad essa (►) Esortazione a prendere l'Italia e a liberarla dai barbari (►) |
La novità della forma. Il procedimento logico dell'autore
Contrariamente a quanto solitamente avveniva nella trattatistica volgare del Rinascimento, Machiavelli nel Principe non usa la forma dialogica (immaginando cioè un dialogo fittizio tra interlocutori contemporanei reali, cosa che farà solo nell'Arte della guerra), bensì sceglie una struttura snella e decisamente moderna, con una dissertazione che l'autore rivolge direttamente al lettore in un libro di relativa brevità, non a caso da lui definito "opuscolo". Il trattato si rivolge del resto a un principe "ideale", da non identificare necessariamente con Lorenzo de' Medici cui l'opera era dedicata, cui l'autore spiega come deve governare e cui fornisce indicazioni pratiche per il mantenimento dello Stato, per cui il testo rientra in certo qual modo nel genere della trattatistica di comportamento molto diffusa nel primo Cinquecento. Nell'opera Machiavelli trasfonde tutto il suo sapere politico e la competenza accumulata negli anni trascorsi al servizio della Repubblica, dono prezioso che egli fa ai Medici come chiarisce nella lettera dedicatoria (► VAI AL TESTO), e fa continui esempi per chiarire il suo pensiero e fornire modelli di comportamento, che lui sceglie sia dal mondo antico sia da quello contemporaneo (complessivamente questi ultimi sono più numerosi). Il procedimento seguito dell'autore è estremamente rigoroso e logico ed è stato definito di tipo "dicotomico", in quanto Machiavelli spesso indica una alternativa perentoria tra due situazioni o due classificazioni e si concentra su una sola di esse, come fa del resto nel cap. iniziale che funge da introduzione: i governi politici possono essere repubbliche (se guidate da più uomini) o principati (se guidati da uno solo), questi ultimi si dividono in principati ereditari e nuovi, questi a loro volta possono essere tutti nuovi o nuovi in parte, e così via (► TESTO: L'incipit del Principe). Lo stile e la lingua usati sono coerenti con l'essenzialità della forma, in quanto l'autore ricorre al fiorentino contemporaneo (scelta che osserva in tutte le sue opere) e scrive in uno stile spezzato, poco curato nella forma, povero di artifici o sottigliezze letterarie, cosa della quale si scusa nella lettera dedicatoria affermando che, in realtà, in un testo di questo genere deve prevalere il contenuto e non gli "orpelli" retorici. Il periodare è dunque piuttosto semplice e frequente è l'uso della paratassi (coordinazione), mentre non mancano anacoluti e termini del linguaggio cancelleresco con cui l'autore aveva familiarità, che qualificano l'opera come specialistica e rivolta a un pubblico selezionato di "addetti ai lavori", in grado di apprezzare il contenuto senza badare all'eleganza della forma letteraria. L'atteggiamento di Machiavelli è perciò alquanto distaccato e oggettivo, come si converrebbe a una moderna trattazione "scientifica", anche se in alcuni momenti (ad es. il cap. VII in cui parla del Valentino, da lui personalmente conosciuto, o nel XXVI in cui esorta i Medici alla riunificazione d'Italia; ► TESTI: L'esempio di Cesare Borgia; L'esortazione finale ai Medici) si lascia andare a considerazioni personali e traspare la passione dell'uomo politico costretto a stare lontano dal governo, che smania di poter ottenere un nuovo incarico per dimostrare la sua bravura.
La concezione politica di Machiavelli
Machiavelli è uomo del Cinquecento ed è quindi lontanissimo da qualunque visione democratica dello Stato, quale la cultura occidentale avrebbe elaborato solo molto più tardi: fin dal cap. iniziale è chiaro che per lui lo Stato è un dominio esercitato dagli uomini (uno solo o un gruppo più o meno ampio) sulla massa, per cui il fine principale dell'uomo di governo non è tanto il "bene comune" o la giustizia nei confronti dei cittadini, quanto la sopravvivenza dello Stato stesso, per ottenere la quale il principe è legittimato a usare anche la violenza, la frode e altri metodi moralmente negativi. È ovvio che in quest'ottica la distinzione tra principato (noi diremmo "monarchia") e repubblica non acquista un valore assoluto e l'autore semplicemente sceglie di trattare in quest'opera il governo monarchico, mentre nei Discorsi si occuperà più specificamente delle repubbliche cui, va detto, egli accordava le sue simpatie (quelle oligarchiche come lo Stato fiorentino del 1498-1512, non certo quelle popolari). Se la sopravvivenza dello Stato è il fine principale dell'uomo di governo, sia egli un sovrano o il funzionario di un regime oligarchico, è ovvio che tutto il resto è subordinato ad esso e quindi l'esercito diventa un mezzo per garantire non la sicurezza dei cittadini ma il mantenimento del governo al potere, la legge serve più che altro ad assicurare l'ordine pubblico ed evitare ribellioni popolari, per cui non di rado il principe deve applicare "pene esemplari" per dissuadere i propri sudditi dal contrastare il suo dominio (l'esempio di Cesare Borgia è illuminante in questo senso; ► TESTO: L'esempio di Cesare Borgia). Ciò non significa, ovviamente, che Machiavelli esorti il principe ad usare sistematicamente la crudeltà e la tirannia, se può evitarlo, ma è altrettanto ovvio che la violenza è uno strumento come un altro per raggiungere i propri scopi, così come il non mantenere i patti o il mentire nei rapporti con altri governi, aspetto per cui l'autore è lontanissimo dalla moderna concezione della politica e spiega lo "scandalo" che il Principe ha suscitato negli anni della sua pubblicazione, fonte ancora oggi di discussioni. Rientra in questo discorso anche la concezione della religione come instrumentum regni, mezzo per governare lo Stato e assicurarsi l'obbedienza del popolo, aspetto che nel trattato è toccato marginalmente e che l'autore avrebbe sviluppato soprattutto nei Discorsi, sollevando anche in questo caso l'aspra condanna della Chiesa negli anni della Controriforma. È interessante anche osservare che questa visione politica per cui l'uomo di potere è quasi costretto a fare cose riprovevoli in nome di un interesse superiore verrà ripresa e rielaborata nel tardo Cinquecento, quando alcuni autori come Giovanni Botero parleranno di "Ragion di Stato" (non sempre in modo negativo) e forniranno di fatto una giustificazione per l'assolutismo, tanto dei sovrani laici che della Chiesa (sul punto si veda oltre).
I rapporti con la tradizione letteraria. La "verità effettuale"
Realismo e pragmatismo politico sono la caratteristica essenziale del trattato, in cui l'autore è consapevole di introdurre una grande novità negli argomenti affrontati e rivendica con un certo orgoglio la distanza tra lui e gli altri trattatisti del passato, accusati di non parlare della "verità effettuale" (la realtà oggettiva dei fatti) ma di inseguire la "imaginazione di essa", teorizzando repubbliche e Stati ideali che non sono mai esistiti (► TESTO: La verità effettuale). Anche se Machiavelli non è esplicito, si possono identificare questi bersagli polemici tanto negli scrittori dell'età classica (il Platone della Repubblica e delle Leggi, testi che l'autore poteva conoscere in forma indiretta, il Cicerone di alcuni trattati politici...) quanto in quelli del Medioevo e del Quattrocento, tra cui il Dante della Monarchia e gli autori dei regimina principum in cui il sovrano veniva idealizzato come esecutore della volontà divina. Non va scordato, del resto, che nel XVI sec. altri autori avrebbero teorizzato delle vere e proprie utopie politiche, come il trattato di Tommaso Moro che porta questo titolo o la Città del sole di Tommaso Campanella, per cui il Principe si colloca in controtendenza anche rispetto ad opere del periodo immediatamente successivo. Va anche precisato che Machiavelli non inventa nulla nel campo della prassi politica e si limita a descrivere comportamenti assai diffusi nell'arte di governo fin dall'antichità, con la differenza che lui, anziché immaginare sovrani perfetti che si comportano sempre moralmente, dà espressione a una realtà politica che aveva conosciuto direttamente lavorando per la Repubblica di Firenze, un mondo in cui bisogna essere spietati e astuti per sopravvivere e dove non sempre è possibile osservare le norme del vivere civile. Il risultato è la fondazione della politica come "scienza moderna" e la separazione netta tra azione di governo e morale, per cui l'omicidio, la violenza, la frode vengono legittimati come strumento politico per il mantenimento e la conservazione dello Stato, cosa che nessun altro scrittore prima aveva mai messo nero su bianco in modo altrettanto esplicito. A sorreggere questa visione politica c'è naturalmente una concezione assai pessimistica dell'umanità e dei rapporti tra gli individui, per cui secondo l'autore gli uomini non sono buoni e sono naturalmente inclini a perseguire il loro interesse privato e a compiere il male per raggiungere i loro scopi, quindi a maggior ragione chi li governa deve essere pronto a ricorrere agli stessi metodi pur di mantenere l'ordine ed evitare di essere travolto con conseguente perdita del potere e dello Stato (nel XVII sec. il filosofo inglese Thomas Hobbes partirà da considerazioni assai simili, sia pur giungendo a conclusioni differenti). Ciò non vuol dire che Machiavelli approvi la tirannia o che voglia fornire ai despoti strumenti politici per mantenersi al potere (anzi, spesso ribadisce che il sovrano può reggersi sul trono solo se ottiene il favore del popolo; ► TESTO: Il conflitto sociale), ma è innegabile che la sua attenzione si concentra sul vertice dello Stato e traspare dalle sue parole un certo disprezzo per la massa e gli strati sociali inferiori, per cui qualunque concezione del potere politico e delle leggi come espressione della volontà popolare e della società come "contratto" è totalmente estranea alla sua mentalità e verrà teorizzata solo nel Settecento dagli intellettuali dell'Illuminismo.
Elementi encomiastici dell'opera. Il rapporto tra intellettuale e potere
Pur non essendo un'opera "encomiastica" nel vero senso della parola, pure è innegabile che il Principe sia nato per la volontà dell'autore di accreditarsi presso i Medici (da poco tornati al potere a Firenze) quale esperto di prassi politica e ottenere quindi un nuovo incarico pubblico dopo il bando del 1512, per cui il testo almeno in parte contiene elementi celebrativi nei confronti della potente famiglia destinata a governare la città stabilmente per almeno un secolo, nonostante le simpatie repubblicane di Machiavelli. Ne è testimonianza anzitutto la lettera al Vettori del dic. 1513 (► VAI AL TESTO), in cui lo scrittore dichiara di avere prodotto il trattato con questo intento e chiede consigli su quale sia il mezzo migliore per presentare lo scritto ai signori di Firenze, inoltre il Principe è accompagnato da una lettera dedicatoria indirizzata a Lorenzo di Piero de' Medici (► VAI AL TESTO) cui Machiavelli offre l'opera come il dono più prezioso di cui è in possesso, essendo cioè il concentrato di tutta la sapienza politica accumulata negli anni del servizio alla Repubblica (il dedicatario inizialmente doveva essere Giuliano de' Medici, morto prematuramente nel 1516). Questi documenti sono interessanti in quanto mostrano l'autore come uomo politico prestato alla letteratura, insofferente dell'inattività cui è costretto dal bando e smanioso di riconquistare la fiducia dei Medici, fosse anche per "voltolare un sasso" e dimostrare così la sua bravura nell'arte di governo, specie nel campo militare (sul punto si veda oltre). In questo è visibile una notevole differenza tra lui e Guicciardini, ma anche con gli altri poeti di corte del Rinascimento italiano, intenti a celebrare i fasti dei loro protettori con versi a scopo più che altro decorativo, mentre Machiavelli produce un trattato che vuole dare consigli pratici ai Medici su come governare in modo efficace, scritto in una forma essenziale e non curata di cui si scusa nella citata lettera a Lorenzo (si tratta in fondo di una elegante excusatio propter infirmitatem, benché il testo sia in effetti privo di orpelli retorici). È significativo che l'autore, in realtà, coltivasse simpatie per la forma repubblicana, come emerge soprattutto dai Discorsi, in quanto indica che il suo principale intento era costruire uno Stato che fosse solido e garantisse pace e ordine ai suoi sudditi, e poiché al momento erano al potere i Medici gli sembrava naturale rivolgersi a loro come propri interlocutori e teorizzare il comportamento di un "principe" in grado di perfezionare questo disegno politico che gli stava a cuore, al di là dell'effettiva forma di governo di Firenze. Ciò spiega anche la natura del rapporto tra intellettuale e potere quale viene delineato nell'opera, poiché Machiavelli non si considera certo un cortigiano intento ad adulare il suo signore per ottenerne il favore, bensì un esperto consigliere del principe in grado di mostrargli la giusta strada per mantenersi al governo, quindi è lontanissimo dalla concezione negativa che la vita di corte aveva in uno scrittore come Ariosto e si avvicina di più a quella che emerge nel Cortegiano di Castiglione, in cui in effetti l'uomo di corte deve saper consigliare il suo signore anche nella sfera politica (► TESTO: Il principe e gli adulatori). La fiducia nelle capacità dei Medici di garantire stabilità a Firenze è genuina e lo dimostra il cap. finale dell'opera (► VAI AL TESTO), in cui l'autore esorta i signori della città a riunificare tutta l'Italia per scacciare i "barbari" che l'avevano invasa, pagina dal forte sapore celebrativo e ricca di elementi utopistici, ma non priva della convinzione che per risollevare le sorti del Paese fosse necessario affidarsi a un "principe" in grado di assumere con coraggio l'incarico, che in quel momento storico gli pare possa essere solo un membro della famiglia Medici. L'esortazione finale assume quindi un significato più profondo di un semplice motivo encomiastico quale potevano essere le "dediche" nel proemio dei poemi epici (ad es. Tasso che nella Liberata augura ad Alfonso II d'Este il comando di una nuova Crociata), ed è invece espressione della fede di Machiavelli nella possibilità di riscattare l'Italia dalla crisi politica in cui era precipitata da anni, anche se la sua visione è in parte ingenua e non in linea con gli sviluppi storici del periodo.
Simulazione e dissimulazione. L'immagine pubblica del potere
La trattazione del Principe è moderna anche per la particolare attenzione che Machiavelli riserva a un aspetto quale l'immagine pubblica del sovrano, che secondo lui è fondamentale per ottenere il favore dei sudditi e garantire così la stabilità del governo, che (lo si ricordi) dev'essere l'obiettivo principale di chi regge uno Stato: da qui nasce il concetto di "simulazione" e "dissimulazione", ovvero la capacità del principe di fingere di essere ciò che non è e viceversa, indispensabile per non attirare critiche sul proprio comportamento che possano ledere il prestigio politico di chi governa (► TESTO: L'immagine pubblica del potere). Il concetto emerge chiaramente già nel cap. XV (► VAI AL TESTO), in cui l'autore afferma che il principe dovrebbe evitare quei "vizi" la cui "infamia" potrebbe danneggiare la sua reputazione togliendogli lo Stato, mentre può lasciarsi andare a quei comportamenti che sono sì considerati immorali, ma non sono tali da mettere in pericolo la sua leadership (per quanto, in casi estremi, il sovrano debba ricorrere anche a queste prassi). Nel cap. XVII viene detto che il principe deve "disiderare di essere tenuto pietoso, e non crudele", per quanto in molti casi sia più consigliabile usare una certa durezza per incutere timore nei propri sudditi e prevenire eventuali ribellioni, anche se deve evitare accuratamente di suscitare l'odio dei cittadini astenendosi dal perseguitarli in modo gratuito. Molto significativo infine anche il cap. XVIII, in cui Machiavelli, dopo aver citato l'esempio di papa Alessandro VI che ha sempre agito in modo contrario a quanto affermato pubblicamente, afferma che il principe deve "essere gran simulatore e dissimulatore", poiché gli uomini in generale sono semplici e si lasciano ingannare facilmente, aggiungendo poi che al sovrano "non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità [quelle positive, come il mantenere la parola data, rispettare gli impegni, ecc.], ma è ben necessario parere d’averle", dunque deve mostrare al popolo un volto diverso dalla sua reale natura e adatto alle diverse circostanze del governo (► TESTO: La volpe e il leone). Machiavelli afferma anche che un principe, e soprattutto colui che è appena arrivato al potere, deve aver cura di apparire pietoso, integro, religioso, mentre nella prassi politica non sarà ovviamente sempre così e ciò in quanto gli uomini "giudicano più agli occhi che alle mani", dal che emerge quel malcelato disprezzo che lo scrittore mostra nei confronti della "massa", che deve essere anche manipolata da chi la governa se questo è utile al mantenimento della pace e della stabilità dello Stato ("il vulgo ne va sempre preso con quello che pare, e con l’evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo"). L'esempio che chiude il capitolo è quello di re Ferdinando V di Spagna, che, pur non nominato direttamente dall'autore, predica sempre pace e fedeltà mentre nella realtà concreta si comporta in modo opposto e se non facesse in tal modo rischierebbe di perdere "lo Stato, e la riputazione", dunque un modello sostanzialmente positivo proprio come papa Alessandro VI citato nelle righe precedenti. Il discorso relativo all'arte della simulazione e dissimulazione spiega bene la concezione politica di Machiavelli, che concepisce lo Stato come dominio di pochi sulla massa e teorizza la necessità di ricorrere all'inganno pur di mantenere l'ordine ed evitare pericolose ribellioni, mentre verrà ulteriormente sviluppato da Guicciardini nella sua opera (specie nei Ricordi), sia pure con attenzione al rapporto tra funzionario e sovrano e alla necessità per l'uomo di corte di fingere per ottenere il favore del suo signore.
Il problema militare: eserciti cittadini o mercenari?
La questione militare è stata una preoccupazione costante di Machiavelli, sia nella prassi politica di governo (quando lavorava per la Repubblica si era occupato dell'arruolamento dei contadini a Firenze) sia ovviamente nella produzione letteraria, poiché lo scrittore è fermamente convinto che la forza degli eserciti sia fondamentale per il principe nel mantenere il controllo dello Stato e, soprattutto, i disastrosi eventi dell'Italia tra XV-XVI sec. suscitavano non solo in lui riflessioni circa le cause del declino degli Stati della Penisola, specie nel confronto tra le milizie mercenarie e quelle cittadine che egli sviluppa in numerosi passi delle sue opere. L'autore non ha dubbi in merito e condanna senz'appello l'uso delle soldatesche mercenarie, considerate poco affidabili e interessate solo al denaro, mentre caldeggia l'arruolamento di soldati cittadini (sul modello dell'antica Repubblica di Roma, poi analizzato più in dettaglio nei Discorsi), affermando già nel cap. VI che il principe nuovo, che è arrivato al potere usando "armi proprie", fatica maggiormente a costruire il suo Stato ma poi ha maggiore facilità a mantenerne il controllo, attraverso gli esempi antichi di Ciro II, Teseo, Romolo, e con quello opposto di Savonarola che viene presentato come "profeta disarmato" e che, una volta perso il favore del popolo, è stato travolto e ucciso (► TESTO: I grandi esempi del passato). L'esercito è dunque visto come un mezzo indispensabile per mantenere l'ordine e "forzare" i sudditi a obbedire al sovrano, oltre ad essere lo strumento con cui il principe può creare dal nulla il proprio Stato e e mantenerlo solido e prospero, sempre nell'ottica di una contrapposizione feroce tra diverse componenti sociali e potentati che, per Machiavelli, si risolve essenzialmente con le armi e non certo con un confronto dialettico e diplomatico (in questo senso l'autore è lontanissimo da una visione democratica e "civile" della politica). Quanto poi alle soldatesche mercenarie, lo scrittore dedica ampio spazio all'argomento nei capp. XII-XIV in cui dichiara che gli eserciti prezzolati sono inutili e dannosi, mentre ugualmente pericolosi sono i capitani di ventura, perché o non sono bravi (e in quel caso rischiano di far crollare lo Stato) o sono troppo abili (e allora il rischio è che congiurino per rovesciare il sovrano e sostituirsi a lui), quindi la soluzione migliore è che sia il principe stesso a guidare l'esercito (► TESTO: Le milizie mercenarie). La condanna degli eserciti prezzolati torna anche nel cap. XXV sulla fortuna, allorché Machiavelli riflette sulle cause del declino politico dell'Italia dopo il 1494 e conclude dicendo che grande responsabilità è dei principi italiani che non hanno costruito "argini" efficaci per resistere all'esondazione del fiume, che fuor di metafora sono proprio le milizie cittadine che secondo lui sono molto più valide nell'opporsi alle invasioni degli eserciti stranieri (► TESTO: Il principe e la fortuna). Va detto che la visione dello scrittore è in parte viziata da alcuni pregiudizi e non tiene in debito conto la reale situazione storico-politica dell'inizio del Cinquecento, quando in effetti i principali Stati nazionali europei (Francia, Spagna, Impero asburgico) avevano eserciti composti in gran parte da mercenari, senza contare che la soluzione da lui proposta che vede il principe quale capo delle milizie poteva forse adattarsi a Stati piccoli e poco estesi, come Firenze, ma diventava poco attuabile per una grande monarchia il cui esercito era impegnato su più fronti. Non va scordato, inoltre, che la concezione militare dello scrittore è alquanto libresca e sottovaluta la portata dei nuovi armamenti (come le armi da fuoco) che si stavano imponendo ai suoi tempi, mentre il suo giudizio è esatto quando afferma che la cavalleria è in declino ed è destinata ad essere soppiantata dalla fanteria, opinioni espresse anche in altre opere e soprattutto nei discorsi Dell'arte della guerra (► TESTO: L'appello finale di Fabrizio Colonna; SCHEDA: Armi da fuoco e cavalleria).
Esempi di prassi politica: antichi e moderni
Machiavelli argomenta i suoi "consigli" al principe con una ricca serie di esempi storici tratti dal mondo antico e da quello moderno, secondo la suddivisione programmatica già esposta nella lettera dedicatoria a Lorenzo de' Medici in cui dichiara che la sua conoscenza dell'arte politica deriva da "una lunga esperienzia delle cose moderne e una continua lezione delle antique": l'autore si basa essenzialmente sulla lettura dei trattati latini di storiografia (anzitutto l'opera di Tito Livio) e da altre fonti antiche per gli esempi del passato, che rivelano un approccio libresco e non sempre sorretto da una reale competenza storica, mentre gli esempi moderni sono legati alla sua esperienza di uomo politico negli anni del servizio alla Repubblica come segretario di Pier Soderini, quando egli incontrò di persona alcuni dei personaggi citati nel trattato (specialmente Cesare Borgia, cui è dedicato ampio spazio). Ecco, in sintesi, le caratteristiche dei modelli proposti dallo scrittore nella sua opera.
Gli esempi del mondo antico
L'autore ricorre ai modelli antichi soprattutto nei capp. II-XI del trattato, in cui delinea le varie forme di principato, e gli esempi citati (quasi sempre in modo positivo) sono quelli dei Romani e del loro modo di governare le province assoggettate, così come quello di Filippo II di Macedonia e di suo figlio Alessandro Magno; nel cap. VI (► VAI AL TESTO) vengono poi proposti a sostegno del ragionamento alcuni "grandissimi esempli" di condottieri del passato, vale a dire Mosè, Ciro II di Persia, Teseo e Romolo, accomunati dal fatto che riuscirono a creare dal nulla uno Stato potente basandosi sulla virtù e le armi proprie, al contrario di Cesare Borgia che vi riuscì in età moderna grazie alla fortuna e all'appoggio del padre (a lui è dedicato quasi tutto il cap. seguente, il VII; ► TESTO: L'esempio di Cesare Borgia). Il carattere eterogeneo dei personaggi citati nel cap. VI mostra che Machiavelli non distingue in modo stringente tra storia e mito, dal momento che include tra i grandi del passato anche figure come il duca d'Atene, protagonista del ciclo leggendario della città di Creta, e il primo re di Roma, quasi certamente non esistito, mentre l'esempio di Mosè è subito declassato al rango di "esecutore" della volontà divina, benché tre di queste figure (lo stesso Mosè, Teseo e Ciro) vengano nuovamente proposte nel cap. XXVI durante l'esortazione ai Medici, come esempi di condottieri che liberarono il loro popolo dal giogo di una schiavitù straniera (► TESTO: L'esortazione finale ai Medici). Al di là dei singoli personaggi citati, comunque, l'autore propone soprattutto come modello vincente quello politico-militare dell'antica Repubblica di Roma, più volte evocato nei primi capp. del trattato ed esplicitamente lodato come buon esempio di amministrazione dei territori conquistati, nell'ottica di un brutale imperialismo: nel cap. III si dice che i Romani furono abili a prevedere i futuri inconvenienti e a prevenirli non rifuggendo le guerre, al contrario della politica inutilmente pacifista di alcuni "saggi" del XVI sec., mentre nel cap. V Roma viene elogiata in quanto non esitò a radere al suolo Cartagine e Numanzia nel II sec. a.C., pur di stroncare ulteriori ribellioni da parte di queste due città considerate come potenzialmente pericolose. È evidente in queste pagine come Machiavelli segua strettamente la trattazione di Tito Livio nei primi libri della sua opera, secondo una linea che verrà ripresa e ampliata nei Discorsi pochi anni più tardi, in cui proprio il modello repubblicano oligarchico di Roma verrà proposto come quello "ideale" anche in ambito moderno.
Gli esempi del mondo moderno: i papi
Non stupisce che fra gli esempi di principi del mondo moderno Machiavelli includa anche alcuni pontefici, da lui equiparati di fatto a sovrani in quanto capi politici dello Stato della Chiesa, e nel cap. XI vengono analizzati proprio i "principati ecclesiastici" esaltando la figura di papa Alessandro VI Borgia, abile secondo l'autore a rafforzare la potenza della Chiesa di Roma nel tentativo di favorire le mire del figlio naturale Cesare, il duca Valentino cui è dedicato quasi tutto il cap. VII (sul punto si veda oltre). Nello stesso capitolo VII la parabola del duca Valentino si intreccia in modo inscindibile a quella del padre Alessandro, che lo sostenne durante tutta la sua ascesa e fu in gran parte artefice della sua affermazione come capo di un nuovo stato nelle Romagne, anche se la morte improvvisa del papa nel 1503 (si pensò fosse stato avvelenato) causò la successiva rovina di Cesare, che non riuscì a evitare l'elezione al pontificato di Giulio II della Rovere, nemico giurato dei Borgia (► TESTO: L'esempio di Cesare Borgia). Papa Alessandro VI viene citato da Machiavelli anche nel cap. XVIII, in cui è proposto come esempio positivo di "sovrano" che trovò sempre il modo di ingannare gli uomini, non rispettando gli accordi presi in precedenza, aspetto che lo accomuna a re Ferdinando il Cattolico, citato indirettamente come personaggio che parla in un modo e agisce in un altro (► TESTO: La volpe e il leone). Significativo per l'autore anche l'esempio di papa Giulio II, che ereditò da Alessandro VI uno Stato della Chiesa saldo e rafforzato e seppe svilupparlo ulteriormente, con nuove conquiste territoriali all'insegna di una politica audace e aggressiva: il papa della Rovere viene citato già nel cap. XI, dedicato ai principati ecclestiastici, poi l'autore ritorna su di lui nel cap. XXV sulla fortuna, in cui afferma che Giulio II agì sempre in modo impulsivo e poco cauto, ottenendo comunque successi, mentre se avesse dovuto mutare la sua politica avrebbe incontrato secondo numerose difficoltà (► TESTO: Il principe e la fortuna).
Gli esempi del mondo moderno: Francesco Sforza e Cesare Borgia
Molti sono gli esempi di condottieri e sovrani moderni che Machiavelli adduce per argomentare le sue tesi nel Principe, fra cui rientrano anche re Ferdinando il Cattolico di Spagna (sia pure citato in modo indiretto) e Girolamo Savonarola, quest'ultimo indicato come "profeta disarmato" che, essendo privo di milizie proprie con cui reggere il proprio Stato, venne condannato al rogo: tra le figure che tuttavia l'autore tratta con maggiore interesse vi sono quelle di Francesco Sforza e Cesare Borgia, entrambe proposte come modello positivo di condottieri che, quasi dal nulla, crearono uno Stato nuovo e lo resero forte e stabile, anche se l'esito della parabola politica dei due personaggi è opposto (lo Sforza diventò duca di Milano e gettò le basi di una potente signoria a base regionale, invece il Borgia fallì a causa della morte improvvisa e inopinata del padre naturale, papa Alessandro VI). Ai due personaggi è dedicato l'ampio cap. VII (► TESTO: L'esempio di Cesare Borgia), in cui lo Sforza è addotto come esempio di chi arriva al potere grazie alla virtù e alle armi proprie, come i condottieri antichi presentati nel cap. VI, al contrario del duca Valentino che crea il proprio Stato con la fortuna e le armi altrui, nel che sta la debolezza della sua costruzione politica: nondimeno il Borgia, che Machiavelli aveva conosciuto di persona e che aveva osservato nei primi anni del secolo quand'era in missione per conto della Repubblica, viene elogiato in quanto occupa, sì, lo Stato nelle Romagne grazie alle soldatesche fornitegli dal re di Francia, alleato del padre, ma in seguito si fornisce di milizie sue proprie per non dipendere dall'aiuto di altri, dunque mostrando la stessa concezione militare altrove caldeggiata dallo stesso autore (sul punto si veda sopra). Il Valentino è anche abile a ingannare i suoi nemici politici e ad attirarli nel tranello di Senigallia, dove li fa uccidere a tradimento (al fatto Machiavelli aveva dedicato un trattatello nel periodo giovanile: Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli...), poi governa con pugno di ferro la Romagna, preponendo alle popolazioni sottomesse il crudele ministro Ramiro de Lorqua, salvo poi farlo uccidere in modo plateale per riconciliarsi l'appoggio dei sudditi esacerbati, con un esempio lampante di ciò che sarebbe stato definito "machiavellismo". Il solo errore di Cesare Borgia fu di non prevedere l'eventualità che il padre morisse in modo inaspettato e, in questo caso, non evitare l'elezione a pontefice di Giulio II, nemico giurato dei Borgia, che lo illuse con false promesse e poi gli voltò le spalle: per colmo di sfortuna, il duca era gravemente malato nei giorni dell'elezione in conclave e ciò gli precluse un'efficace azione politica volta a tutelare i suoi interessi, per cui il nuovo papa lo fece imprigionare e in seguito lo inviò in Spagna, dove morì nel 1506 avendo ormai perso tutti i suoi domini in Italia. La parabola dell'ascesa politica di Cesare Borgia e del suo declino affascina fortemente Machiavelli, che infatti propone il Valentino come esempio positivo di quell'azione politica e militare spregiudicata che secondo lui deve essere propria del principe, anche se la debolezza dell'ultima fase della sua vita costituisce la radice della sua rovina ed è inoltre un monito sull'incostanza della fortuna in politica, come ulteriormente ribadito nel cap. XXV del trattato (► TESTO: Il principe e la fortuna).
Il rapporto tra virtù e fortuna
Al tema della fortuna e della sua influenza sulle vicende umane sono dedicati i capp. XXIV-XXV del trattato, con una riflessione che parte dalla situazione di grave crisi politica e militare in cui l'Italia versa agli inizi del XVI sec. e di cui lo scrittore indaga le ragioni, chiedendosi appunto se i principi italiani abbiano perso i loro Stati per l'azione di un potere superiore e divino oppure per "la ignavia loro": Machiavelli non ha dubbi nell'attribuire la responsabilità ai sovrani che non seppero premunirsi per tempo contro i possibili rovesci della sorte, quindi il potere della fortuna è molto ridimensionato a tutto vantaggio della virtù, ossia delle qualità che il principe deve possedere per far fronte alle diverse situazioni dell'azione di governo (► TESTI: L'origine della crisi italiana; Il principe e la fortuna). La fortuna viene del resto concepita non come espressione della volontà e del disegno di Dio, ma in modo assai più laico come l'azione capricciosa del caso, per cui essa domina solo la metà delle vicende umane e un principe accorto deve saper prevedere le circostanze infauste che gli si possono presentare in qualsiasi momento, proprio come un contadino previdente costruisce argini per prevenire le distruzioni che un fiume in piena può provocare alle coltivazioni. Fuor di metafora, gli "argini" che i principi d'Italia avrebbero dovuto erigere per difendersi dalle invasioni di eserciti stranieri (soprattutto da quella di Carlo VIII di Francia, nel 1494) sono le milizie cittadine, da Machiavelli polemicamente contrapposte alle soldatesche mercenarie che sono giudicate infide e inefficaci, fonte per lui dei principali problemi militari degli Stati italiani nel Cinquecento (sul punto, toccato dall'autore anche nei capp. XII-XIV, si veda sopra). Un esempio lampante di un condottiero che non seppe prevedere i rovesci della malasorte e fu travolto dagli eventi con la perdita di tutte le sue conquiste è Cesare Borgia, la cui figura è delineata nel cap. VII (► TESTO: L'esempio di Cesare Borgia) e la cui unica colpa fu di non impedire l'elezione a papa di Giulio II della Rovere dopo la morte improvvisa del padre Alessandro VI, anche perché era gravemente ammalato nei giorni dell'elezione del nuovo pontefice. La qualità più importante del principe sta proprio nel sapersi adattare al mutamento delle circostanze e nel modificare all'occasione la propria linea di condotta, sapendo diventare "impetuoso" o "respettivo" (noi diremmo: impulsivo o cauto) a seconda di ciò che la situazione richiede, cosa molto difficile in quanto non sempre si riesce a cambiare la propria indole con elasticità: significativo l'esempio proprio di Giulio II, che agì sempre in modo impulsivo e ottenne grandi successi, ma se la fortuna fosse mutata e lui avesse dovuto cambiare comportamento secondo l'autore sarebbe finito male, per l'incapacità di adattarsi alle nuove circostanze. La fortuna è poi paragonata da Machiavelli a una donna, per cui "è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla", affermazione in cui si vede la misoginia altrove espressa dall'autore nelle sue opere (specie nella Mandragola, dove pure la protagonista femminile Lucrezia è stata accostata a un "principe" capace di cogliere al volo un'opportunità favorevole; ► AUTORE: Niccolò Machiavelli). Opinioni molto diverse riguardo al tema della fortuna saranno espresse da Guicciardini nei suoi scritti, in cui è trasparente un indiretto riferimento polemico alle tesi espresse da Machiavelli nel Principe (► AUTORE: Francesco Guicciardini).
Lingua e stile
Machiavelli scrisse tutte le sue opere principali in volgare, scelta abbastanza "rivoluzionaria" in un periodo in cui la trattatistica storica e politica era perlopiù in latino, e la lingua da lui usata anche nel Principe è il fiorentino contemporaneo, da lui considerato strumento più efficace e di più immediata comprensione rispetto al fiorentino trecentesco teorizzato da Bembo nelle Prose (la posizione di Machiavelli è espressa nel Discorso intorno alla nostra lingua, operetta a lui attribuita con qualche riserva). Come spiegato nella lettera dedicatoria a Lorenzo de' Medici, nel Principe l'autore rinuncia in modo preliminare ad abbellire il testo con orpelli retorici e punta soprattutto sulla novità del contenuto, esprimendosi in una lingua essenziale e a tratti nervosa, con un periodare spezzato che privilegia la coordinazione: lo scrittore si rivolge direttamente al suo interlocutore ideale dandogli del "tu" e il lessico è spesso diretto e informale, pur con la presenza di numerosi latinismi che derivano dal linguaggio burocratico appreso da Machiavelli durante gli anni del servizio alla Repubblica (sono frequenti espressioni quali "in exemplis", "tamen", "etiam", "solum", "praeterea", "compedes", nel senso di "radicati"), mentre in latino sono anche le rubriche che precedono e riassumono il contenuto di ciascun capitolo. Proprio del fiorentino cinquecentesco è l'uso degli articoli "el", "e" in luogo di "il", "i" ("el sangue", "el ragionare"), così come i possessivi "tua", "sua" ("sono tutti tua", "de' sua cittadini") e le forme verbali "fussi", "lasciassi" invece di "fusse", "lasciasse" ("fussi insolente", "lasciassi governare"). Molto frequente l'uso delle forme verbali enclitiche a inizio di periodo ("acquistonsi", "possonsi", "veggonsi"), mentre anche l'incidenza dei pronomi soggetto "lui/lei" è maggiore rispetto ai testi della tradizione antica ("lui ci aveva", "lui non ha", "onde lei... fu costretta"). Machiavelli si allontana dalla soluzione proposta da Bembo per la questione della lingua e opta per una forma meno elaborata letterariamente, più adatta a divulgare contenuti politici presso un pubblico di non specialisti, aprendo una strada che sarà di fatto trascurata dai principali letterati del XVI-XVII sec., fedeli perlopiù al Bembismo (specie Ariosto, da cui Machiavelli si sentiva disprezzato: sul punto si veda oltre), ma seguita nel secolo seguente da Galileo che, nelle opere in volgare, si porrà lo stesso problema dell'uso di un linguaggio adatto alla divulgazione di opinioni scientifiche, quindi svincolato dai modelli di stretta osservanza letteraria che pure egli conosceva bene e apprezzava. Sotto questo aspetto la lingua del Principe rappresenta quasi un unicum nel panorama letterario del Rinascimento e ben si comprende la parziale condanna che, sul piano strettamente linguistico, ne fece qualche decennio più tardi Leonardo Salviati, tra i fondatori dell'Accademia della Crusca, il quale nei suoi Avvertimenti (1584) loda "la chiarezza, l’efficacia e la brevità" di Machiavelli, paragonabili a quelle di Cesare o Tacito, ma ne condanna "lo stile e la favella", in quanto egli scrisse "senza punto sforzarsi, nella favella che correva nel tempo suo, né volle prendersi alcuna cura di scelta di parole", dal momento che la prosa del Principe appare ben lontana dal modello di Boccaccio che si era imposto nel canone letterario del XVI secolo.
La ricezione del Principe tra i contemporanei
Il Principe conobbe subito una grande fama in Italia quando il suo autore era ancora vivo, benché il trattato circolasse in forma manoscritta (sarebbe stato stampato solo dopo la morte di Machiavelli) e ben presto avrebbe acquisito una diffusione europea grazie alle numerose traduzioni in altre lingue che diedero un'indubbia notorietà allo scrittore fiorentino, che pure nell'ambiente letterario italiano veniva trascurato e considerato un autore marginale: ne è prova il fatto che Ariosto, quando elenca nel Furioso i principali scrittori del tempo in procinto di accogliere la sua opera ormai finita (XLVI, 1-19), non include nella lista Machiavelli che pure conosceva, fatto di cui il fiorentino si rammaricò con espressioni colorite in una lettera a Luigi Alamanni. La novità delle tesi espresse nel Principe suscitò comunque un vivace dibattito negli ambienti politici di Firenze e non solo, come dimostra la reazione dell'amico e collaboratore Francesco Guicciardini che con le idee di Machiavelli polemizzò in più di un passo della sua opera, specie nei Ricordi dove contraddisse le sue opinioni riguardo alla fortuna, che per lui domina largamente le vicende umane, la tendenza a enunciare regole generali di comportamento che non sempre nella realtà concreta trovano attuazione, il prevalere della teoria sulla pratica, il portare continuamente come modello le istituzioni politiche e militari dell'antica Roma (questo anche nei Discorsi, oggetto di una critica particolare da parte di Guicciardini). Pochi anni dopo la morte di Machiavelli, del resto, il Principe venne pesantemente criticato da ambienti ecclesiastici che ne condannavano la spregiudicatezza e l'arditezza di alcune tesi, fino alla messa all'Indice nel 1559, proprio l'anno in cui la censura della Chiesa cominciò a proibire la lettura di libri giudicati "pericolosi" sul piano religioso nell'ambito della cultura della Controriforma. Ciò non impedì la grande diffusione dell'opera anche fuori d'Italia, dove (come detto) ci furono numerose traduzioni in altre lingue tra cui il francese, l'inglese, il tedesco e lo spagnolo, mentre in seguito il libro sarebbe arrivato anche fuori dell'area culturale europea, venendo tradotto persino in greco e in arabo (soprattutto nel XIX-XX sec.). In particolare il Principe godé di una notevole fortuna in Francia, dove si susseguirono numerose traduzioni per tutto il XVI sec. (e anche oltre, a dispetto della condanna della Chiesa) e dove si disse che Caterina de' Medici, la "regina madre" moglie di re Enrico II, apprezzasse particolarmente le opere del suo illustre concittadino, anche se forse ciò è un elemento in parte leggendario. Tanto in Francia quanto in Italia non mancarono poi interpretazioni falsanti delle opinioni espresse da Machiavelli nell'opera, che si dissero "oblique" e tentavano di stemperare il carattere rivoluzionario di certe sue affermazioni, mentre non mancarono neppure edizioni parziali o corrette del trattato nel tentativo di aggirare il bando della Chiesa, anche se il clima soffocante della Controriforma finì per oscurare in gran parte la conoscenza diretta dell'opera da parte del grande pubblico. Alle riserve di carattere religioso si aggiunsero anche quelle di tipo linguistico e letterario, espresse specialmente nell'ambiente dell'Accademia della Crusca e affidate alle opinioni di Leonardo Salviati, che non apprezzava la scelta del fiorentino contemporaneo in disaccordo con la proposta bembiana (sia pure non pienamente accolta dai "Cruscanti"), per cui si dovrà attendere il XIX sec. per una riscoperta e una consapevole lettura critica della grande opera dello scrittore fiorentino.
Il Principe e i totalitarismi del Novecento
Si è visto come le teorie di Machiavelli siano state criticate e condannate nel XVI-XVII sec., quando lo scrittore fiorentino veniva accusato di voler essere un "maestro di tiranni", e come, in maniera spesso distorta, una certa interpretazione "obliqua" abbia poi cercato di giustificare la sua opera attribuendogli la volontà di denunciare le malefatte dei tiranni, svelando "alle genti" le lacrime e il sangue che grondano dallo scettro dei sovrani (Foscolo): è tuttavia innegabile che Machiavelli e il Principe abbiano esercitato un certo fascino proprio su alcune sinistre figure di dittatori del Novecento (Mussolini, Hitler, Stalin) che conobbero e apprezzarono il trattato e vi ispirarono in maniera più o meno dichiarata, alimentando in seguito il dibattito critico intorno a un libro controverso che continua tutt'oggi a suscitare interpretazioni opposte. Ecco, in estrema sintesi, alcune considerazioni sull'influenza che il pensiero di Machiavelli ha esercitato sui leader dei più famigerati regimi totalitari del XX sec., autori di crimini efferati che, secondo alcuni studiosi, potrebbero aver tratto spunto proprio dai principi teorici del Principe.
Machiavelli e Mussolini
L'interesse di Benito Mussolini per l'opera di Machiavelli è testimoniata da un Preludio al Machiavelli, una sorta di introduzione al Principe che l'allora capo del movimento fascista e primo ministro scrisse come prolusione per una laurea honoris causa che avrebbe dovuto ricevere all'Università di Bologna nel 1924, anche se la cosa poi non andò in porto. Il testo venne in seguito pubblicato come articolo sulla rivista "Gerarchia" (apr. 1924) e in esso Mussolini presentava l'insegnamento di Machiavelli come attuale, in quanto lo scrittore fiorentino era maestro di psicologia politica e forniva all'aspirante leader gli strumenti per attuare un'efficace azione di governo, in cui in effetti era impegnato lui stesso; l'idea centrale del Preludio era che il popolo è un'entità inconsistente e che tocca al principe-duce guidarlo con azione decisa, usando la violenza e la manipolazione quando necessario, quindi era chiaro che le teorie di Machiavelli venivano in certo modo piegate e messe al servizio dell'ideologia fascista, quasi usate come giustificazione della violenza fisica e verbale che era insita nel movimento politico. Non è un caso se Giacomo Matteotti, il politico socialista che avrebbe denunciato in Parlamento i brogli delle elezioni del 1924 e che il 10 giugno di quell'anno sarebbe stato rapito e ucciso da squadristi fascisti, prima di morire scrisse un articolo in inglese intitolato Machiavelli, Mussolini and fascism (poi pubblicato a luglio sulla rivista "English Life"), in cui accusava Mussolini di usare Machiavelli per coprire il dispotismo e l'immoralità del fascismo e dove faceva esplicito riferimento al Preludio citato: in particolare, Matteotti richiamava i capp. IX e XVIII del Principe dove lo scrittore fiorentino ribadiva la necessità del consenso popolare per il governo e affermava che Mussolini usava la violenza per soffocare ogni forma di dissenso e per calpestare la democrazia, che però secondo il leader socialista sarebbe presto risorta. "Avrebbe Machiavelli permesso - si chiedeva retoricamente Matteotti nel suo scritto - una situazione simile? non di certo. Egli ben sapeva che uno Stato deve perire se dei bravacci privilegiati possono commettere crimini senza restrizioni di sorta", e concludeva con l'invito a Mussolini a non dedicare "crude effusioni" a Machiavelli, bensì a purificare il fascismo "la cui pubblica azione tende a infamare l’Italia di fronte al mondo intero". Tali parole suonano quasi come un testamento politico e morale, se si pensa che pochi giorni dopo aver scritto l'articolo Matteotti venne assassinato da "bravacci" che agirono per conto di Mussolini, mentre quando apparve il testo il suo corpo non era stato ancora ritrovato (ciò accadde solo il 16 agosto 1924) e una nota della rivista avvertiva che "non si sa quale sorte gli sia toccata". La personale lettura che Matteotti proponeva di Machiavelli anticipava in fondo quella elaborata qualche anno dopo da A. Gramsci e altri intellettuali comunisti, secondo i quali al principe-leader doveva sostituirsi il Partito e le teorie di Machiavelli dovevano essere in parte ridimensionate, proprio per non fornire alibi e giustificazioni ai "tiranni".
Machiavelli e Hitler
L'opera di Machiavelli fu conosciuta e apprezzata anche da Adolf Hitler, il fondatore del partito nazional-socialista in Germania e capo di uno dei regimi totalitari più feroci e sanguinari del Novecento, autore di crimini orrendi contro l'umanità: non sappiamo quando nacque il suo interesse per gli scritti del Segretario fiorentino, tuttavia è noto che Mussolini gli inviò un'edizione dei Principe con il Preludio da lui scritto, mentre l'influenza che il politico italiano esercitò (specie nei primi anni Trenta del XX sec.) su Hitler fu notevole e non è escluso che riguardasse anche aspetti "culturali", come appunto la lettura di trattati di carattere politico da cui prendere spunto per l'azione di governo. Del resto secondo la testimonianza di Hermann Rauschning, prima collaboratore del führer e poi costretto a fuggire dalla Germania, Hitler era seguace e discepolo delle teorie di Machiavelli e leggeva assiduamente il Principe, di cui teneva persino una copia sul comodino (affermazioni contenute nei Colloqui con Hitler, editi nel 1939), mentre altre testimonianze riferiscono che nella biblioteca del dittatore tedesco le uniche opere filosofiche occidentali erano le due Critiche di Kant e, appunto, il trattato di Machiavelli. Hitler apprezzava di quest'ultimo soprattutto l'insegnamento a impossessarsi del potere senza tener conto di vincoli morali e a commettere atrocità quando la situazione lo renda necessario, qualità di cui lui stesso diede dimostrazione in modo sinistro in più di un'occasione durante la sua ascesa al governo della Germania: secondo alcune testimonianze attendibili lo stesso Mussolini, durante un incontro a Venezia nel giugno 1934, gli avrebbe consigliato di sbarazzarsi dei collaboratori più pericolosi, come il Principe insegnava a fare proponendo ad es. il caso del duca Valentino, e di lì a pochi mesi ci sarebbe stata la "notte dei lunghi coltelli", in cui Hitler si sarebbe liberato delle SA facendo arrestare e assassinare i loro esponenti di spicco. Ciò non significa, ovviamente, che il pensiero di Machiavelli abbia ispirato a Hitler le folli idee di predominio della "razza ariana" né il progetto agghiacciante del genocidio del popolo ebraico, visto che nel Principe non vi è nulla di tutto questo, ma è innegabile che il dittatore nazista abbia tratto spunto almeno in parte dalle idee del fiorentino per la sua politica di potenza e abbia messo in pratica alcuni dei suoi insegnamenti più cinici, per cui alcuni studiosi moderni hanno ribadito il "rischio" insito nell'opera di Machiavelli come utile insegnamento ai tiranni moderni (tra questi val la pena citare il francese Raymond Aron, autore di uno scritto pubblicato di recente e intitolato Machiavel et les tyrannies modernes).
Machiavelli e Stalin
Per quanto non molto noto, il pensiero di Machiavelli conobbe nel XX sec. anche una notevole diffusione in Oriente ed esercitò una certa influenza anche sui principali leader della Russia comunista di inizio Novecento, tra cui sicuramente Lenin e Stalin: il primo in alcune occasioni citò indirettamente il Principe richiamando la necessità di commettere azioni crudeli quando la necessità lo imponeva, mentre il secondo (che dal 1924 fu a capo dell'URSS e di un regime totalitario che si rese responsabile di eccidi ed efferatezze) lesse e apprezzò l'autore fiorentino, dal momento che nella sua biblioteca personale c'era una copia del Principe riccamente annotata di suo pugno, anche se purtroppo è andata perduta. Rispetto ai casi di Mussolini ed Hitler siamo meno informati di quanto e in quali forme Stalin si sia effettivamente ispirato alle teorie di Machiavelli, ma se si pensa alle "purghe" del 1936 in cui numerosi dissidenti del regime vennero processati con accuse pretestuose e in parte eliminati fisicamente, in parte internati nei gulag, è difficile non vedere un'eco indiretta degli insegnamenti del Principe relativamente alla necessità di liberarsi dei collaboratori infidi, in modo non troppo diverso da quanto poco tempo prima Hitler aveva fatto con le SA. In particolare appare subdola l'accusa che il procuratore generale Andrej Vyscinskij rivolse all'ex-bolscevico Lev Kamenev di essere stato a sua volta discepolo delle idee di Machiavelli, rovesciando cioè sulla vittima la stessa strategia usata dal carnefice, mentre un ulteriore esempio di "machiavellismo" da parte di Stalin si ebbe nel 1940, quando Lev Trotskij venne assassinato a Città del Messico da sicari inviati dal dittatore sovietico, del quale il fuoriuscito stava, per colmo di ironia, scrivendo una biografia. Anche nel caso di Stalin sarebbe semplicistico ricondurre all'esempio di Machiavelli l'intera ideologia sanguinaria del dittatore o l'uso sistematico della violenza, specie considerando la sua personalità complessa e (secondo alcuni) affetta da nevrosi ossessive, tuttavia l'esempio di Stalin è efficace a dimostrare che il Principe ha offerto, al di là delle stesse intenzioni dell'autore, modelli di comportamento per leader politici privi di scrupoli, il che dimostra che Machiavelli non solo non ha "sfrondato gli allori" del potere né svelato "alle genti" i crimini compiuti dai tiranni, ma si è forse reso complice inconsapevole di delitti ed efferatezze che, alla luce degli avvenimenti della storia recente, impongono di rileggere l'opera dello scrittore del Cinquecento nel suo preciso contesto sociale, senza pretendere di trovarvi "massime" di validità generale.