Letteratura italiana
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Torquato Tasso


Il duello di Tancredi e Argante
(Gerusalemme Liberata, XIX, 1-28)

Gerusalemme è ormai stata espugnata dai Crociati e tra i difensori il solo a non arrendersi è Argante, che continua a fare strage di nemici e non vuol darsi per vinto se non da morto: è raggiunto da Tancredi, che lo sfida a battersi con lui in "singolar tenzone" in disparte e dà ordine ai suoi di non ferire il saraceno per non togliergli la soddisfazione di essere il primo a vincere un tale avversario. Il duello che ne segue è l'ideale proseguimento di quello interrotto nel canto VI e l'ira di Tancredi è accresciuta dal fatto che Argante era stato causa indiretta della morte di Clorinda, che ora vuole vendicare. L'episodio vuol essere imitazione di altri celebri duelli dell'epica (specie Ettore e Achille, Enea e Turno) con cui ha in comune la clemenza dimostrata a un certo punto dal vincitore Tancredi, disprezzata dal suo nemico che preferisce farsi uccidere.

► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
► OPERA: Gerusalemme liberata


1
Già la morte o il consiglio o la paura
da le difese ogni pagano ha tolto,
e sol non s'è da l'espugnate mura
il pertinace Argante anco rivolto.
Mostra ei la faccia intrepida e secura
e pugna pur fra gli inimici avolto,
piú che morir temendo esser respinto;
e vuol morendo anco parer non vinto.

2
Ma sovra ogn'altro feritore infesto
sovragiunge Tancredi e lui percote.
Ben è il circasso a riconoscer presto
al portamento, a gli atti, a l'arme note,
lui che pugnò già seco, e 'l giorno sesto
tornar promise, e le promesse ír vòte.
Onde gridò: «Cosí la fé, Tancredi,
mi servi tu? cosí a la pugna or riedi?

3
Tardi riedi, e non solo; io non rifiuto
però combatter teco e riprovarmi,
benché non qual guerrier, ma qui venuto
quasi inventor di machine tu parmi.
Fatti scudo de' tuoi, trova in aiuto
novi ordigni di guerra e insolite armi,
ché non potrai da le mie mani, o forte
de le donne uccisor, fuggir la morte.»

4
Sorrise il buon Tancredi un cotal riso
di sdegno, e in detti alteri ebbe risposto:
«Tardo è il ritorno mio, ma pur aviso
che frettoloso ti parrà ben tosto,
e bramerai che te da me diviso
o l'alpe avesse o fosse il mar fraposto;
e che del mio indugiar non fu cagione
tema o viltà, vedrai co 'l paragone.

5
Vienne in disparte pur tu ch'omicida
sei de' giganti solo e de gli eroi:
l'uccisor de le femine ti sfida.»
Così gli dice; indi si volge a i suoi
e fa ritrarli da l'offesa, e grida:
«Cessate pur di molestarlo or voi,
ch'è proprio mio piú che comun nemico
questi, ed a lui mi stringe obligo antico.»

6
«Or discendine giú, solo o seguito
come piú vuoi»; ripiglia il fer circasso
«va' in frequentato loco od in romito,
ché per dubbio o svantaggio io non ti lasso.»
Sí fatto ed accettato il fero invito,
movon concordi a la gran lite il passo:
l'odio in un gli accompagna, e fa il rancore
l'un nemico de l'altro or difensore.

7
Grande è il zelo d'onor, grande il desire
che Tancredi del sangue ha del pagano,
né la sete ammorzar crede de l'ire
se n'esce stilla fuor per l'altrui mano;
e con lo scudo il copre, e: «Non ferire»
grida a quanti rincontra anco lontano;
sí che salvo il nimico infra gli amici
tragge da l'arme irate e vincitrici.

8
Escon de la cittade e dan le spalle
a i padiglion de le accampate genti,
e se ne van dove un girevol calle
li porta per secreti avolgimenti;
e ritrovano ombrosa angusta valle
tra piú colli giacer, non altrimenti
che se fosse un teatro o fosse ad uso
di battaglie e di caccie intorno chiuso.

9
Qui si fermano entrambi, e pur sospeso
volgeasi Argante a la cittade afflitta.
Vede Tancredi che 'l pagan difeso
non è di scudo, e 'l suo lontano ei gitta.
Poscia lui dice: «Or qual pensier t'ha preso?
pensi ch'è giunta l'ora a te prescritta?
S'antivedendo ciò timido stai,
è 'l tuo timore intempestivo omai.»

10
«Penso» risponde «a la città del regno
di Giudea antichissima regina,
che vinta or cade, e indarno esser sostegno
io procurai de la fatal ruina,
e ch'è poca vendetta al mio disdegno
il capo tuo che 'l Cielo or mi destina.»
Tacque, e incontra si van con gran risguardo,
ché ben conosce l'un l'altro gagliardo.

11
È di corpo Tancredi agile e sciolto,
e di man velocissimo e di piede;
sovrasta a lui con l'alto capo, e molto
di grossezza di membra Argante eccede.
Girar Tancredi inchino in sé raccolto
per aventarsi e sottentrar si vede;
e con la spada sua la spada trova
nemica, e 'n disviarla usa ogni prova.

12
Ma disteso ed eretto il fero Argante
dimostra arte simile, atto diverso.
Quanto egli può, va co 'l gran braccio inante
e cerca il ferro no, ma il corpo averso.
Quel tenta aditi novi in ogni istante,
questi gli ha il ferro al volto ognor converso:
minaccia, e intento a proibirgli stassi
furtive entrate e súbiti trapassi.

13
Cosí pugna naval, quando non spira
per lo piano del mare Africo o Noto,
fra due legni ineguali egual si mira,
ch'un d'altezza preval, l'altro di moto:
l'un con volte e rivolte assale e gira
da prora a poppa, e si sta l'altro immoto;
e quando il piú leggier se gli avicina,
d'alta parte minaccia alta ruina.

14
Mentre il latin di sottentrar ritenta
sviando il ferro che si vede opporre,
vibra Argante la spada e gli appresenta
la punta a gli occhi; egli al riparo accorre,
ma lei sí presta allor, sí violenta
cala il pagan che 'l difensor precorre
e 'l fère al fianco; e visto il fianco infermo,
grida: «Lo schermitor vinto è di schermo.»

15
Fra lo sdegno Tancredi e la vergogna
si rode, e lascia i soliti riguardi,
e in cotal guisa la vendetta agogna
che sua perdita stima il vincer tardi.
Sol risponde co 'l ferro a la rampogna
e 'l drizza a l'elmo, ove apre il passo a i guardi.
Ribatte Argante il colpo, e risoluto
Tancredi a mezza spada è già venuto.

16
Passa veloce allor co 'l piè sinestro
e con la manca al dritto braccio il prende,
e con la destra intanto il lato destro
di punte mortalissime gli offende.
«Questa» diceva «al vincitor maestro
il vinto schermidor risposta rende.»
Freme il circasso e si contorce e scote,
ma il braccio prigionier ritrar non pote.

17
Alfin lasciò la spada a la catena
pendente, e sotto al buon latin si spinse.
Fe' l'istesso Tancredi, e con gran lena
l'un calcò l'altro e l'un l'altro recinse;
né con piú forza da l'adusta arena
sospese Alcide il gran gigante e strinse,
di quella onde facean tenaci nodi
le nerborute braccia in vari modi.

18
Tai fur gli avolgimenti e tai le scosse
ch'ambi in un tempo il suol presser co 'l fianco.
Argante, od arte o sua ventura fosse,
sovra ha il braccio migliore e sotto il manco.
Ma la man ch'è piú atta a le percosse
sottogiace impedita al guerrier franco;
ond'ei, che 'l suo svantaggio e 'l rischio vede,
si sviluppa da l'altro e salta in piede.

19
Sorge piú tardi e un gran fendente, in prima
che sorto ei sia, vien sopra al saracino.
Ma come a l'Euro la frondosa cima
piega e in un tempo la solleva il pino,
cosí lui sua virtute alza e sublima
quando ei n'è già per ricader piú chino.
Or ricomincian qui colpi a vicenda:
la pugna ha manco d'arte ed è piú orrenda.

20
Esce a Tancredi in piú d'un loco il sangue,
ma ne versa il pagan quasi torrenti.
Già ne le sceme forze il furor langue,
sí come fiamma in deboli alimenti.
Tancredi che 'l vedea co 'l braccio essangue
girar i colpi ad or ad or piú lenti,
dal magnanimo cor deposta l'ira,
placido gli ragiona e 'l piè ritira:

21
«Cedimi, uom forte, o riconoscer voglia
me per tuo vincitore o la fortuna;
né ricerco da te trionfo o spoglia,
né mi riserbo in te ragione alcuna.»
Terribile il pagan piú che mai soglia,
tutte le furie sue desta e raguna;
risponde: «Or dunque il meglio aver ti vante
ed osi di viltà tentare Argante?

22
Usa la sorte tua, ché nulla io temo
né lascierò la tua follia impunita.»
Come face rinforza anzi l'estremo
le fiamme, e luminosa esce di vita,
tal riempiendo ei d'ira il sangue scemo
rinvigorí la gagliardia smarrita,
e l'ore de la morte omai vicine
volse illustrar con generoso fine.

23
La man sinistra a la compagna accosta,
e con ambe congiunte il ferro abbassa;
cala un fendente, e benché trovi opposta
la spada ostil, la sforza ed oltre passa,
scende a la spalla, e giú di costa in costa
molte ferite in un sol punto lassa.
Se non teme Tancredi, il petto audace
non fe' natura di timor capace.

24
Quel doppia il colpo orribile, ed al vento
le forze e l'ire inutilmente ha sparte,
perché Tancredi, a la percossa intento,
se ne sottrasse e si lanciò in disparte.
Tu, dal tuo peso tratto, in giú co 'l mento
n'andasti, Argante, e non potesti aitarte:
per te cadesti, aventuroso in tanto
ch'altri non ha di tua caduta il vanto.

25
Il cader dilatò le piaghe aperte,
e 'l sangue espresso dilagando scese.
Punta ei la manca in terra, e si converte
ritto sovra un ginocchio a le difese.
«Renditi» grida, e gli fa nove offerte,
senza noiarlo, il vincitor cortese.
Quegli di furto intanto il ferro caccia
e su 'l tallone il fiede, indi il minaccia.

26
Infuriossi allor Tancredi, e disse:
«Cosí abusi, fellon, la pietà mia?»
Poi la spada gli fisse e gli rifisse
ne la visiera, ove accertò la via.
Moriva Argante, e tal moria qual visse:
minacciava morendo e non languia.
Superbi, formidabili e feroci
gli ultimi moti fur, l'ultime voci.

27
Ripon Tancredi il ferro, e poi devoto
ringrazia Dio del trionfal onore;
ma lasciato di forze ha quasi vòto
la sanguigna vittoria il vincitore.
Teme egli assai che del viaggio al moto
durar non possa il suo fievol vigore;
pur s'incamina, e cosí passo passo
per le già corse vie move il piè lasso.

28
Trar molto il debil fianco oltra non pote
e quanto piú si sforza piú s'affanna,
onde in terra s'asside e pon le gote
su la destra che par tremula canna.
Ciò che vedea pargli veder che rote,
e di tenebre il dí già gli s'appanna.
Al fin isviene; e 'l vincitor dal vinto
non ben saria nel rimirar distinto.


Ormai ogni pagano si è allontanato dalla difesa, per la morte o la prudenza o la paura, e solo
il tenace Argante non si è ancora distolto dalle mura espugnate. Egli mostra il volto intrepido e sicuro e combatte circondato da nemici, temendo più della morte l'essere respinto; e, morendo, non vuole sembrare sconfitto.




Ma sopraggiunge Tancredi, più ostile di qualunque altro avversario, e lo colpisce. Il circasso [Argante] lo riconosce subito per il portamento, gli atti e l'armatura che conosce, lui che già combatté con lui, e promise di tornare dopo sei giorni e le promesse non furono mantenute. Allora gridò: «Così, Tancredi, mantieni la parola? così adesso torni alla battaglia?




Arrivi tardi e non da solo; io però non rifiuto di battermi con te e di mettermi alla prova, anche se tu mi sembri venuto qui non come guerriero, ma come inventore di macchine da guerra. Fatti scudo coi tuoi uomini, trova nuovi ordigni bellici come aiuto e armi insolite, poiché non potrai sfuggire la morte dalle mie mano, valoroso uccisore di donne».





Il buon Tancredi sorrise a un tale riso di sdegno, e rispose con voce altera:
«La mia venuta è tardiva, ma penso che ti sembrerà fin troppo sollecita e vorrai che ti avesse diviso da me la montagna o vi fosse frapposto il mare; e vedrai nello scontro che la ragione del mio ritardo non fu timore o viltà.





Vieni in disparte, tu che uccidi solo giganti ed eroi; l'uccisore di donne ti sfida». Così gli dice;
poi si rivolge ai suoi uomini e li induce a non attaccare Argante e grida: «Ora voi smettete di molestarlo, poiché questi è nemico mio personale più che nemico di tutti, e sono vincolato a lui da un antico impegno».





Il feroce circasso riprende:
«Ora scendi dalle mura, solo o con altri come preferisci; va' in un luogo affollato o solitario, io non ti lascio per quanto il duello possa essere rischioso o svantaggioso». Posto così e accettato l'invito, muovono di comune accordo il passo verso il gran duello: sono entrambi accompagnati dall'odio, e il rancore rende l'uno nemico oppure difensore dell'altro.



Tancredi ha grande brama di gloria, gran desiderio del sangue del pagano, e non pensa di estinguere la sete dell'ira se viene versata una sola goccia di sangue [di Argante] per mano altru; lo copre con lo scudo e grida da lontano a quelli che incontra
«Non lo ferite»; cosicché porta il nemico salvo tra gli amici, dalle armi irose e vittoriose.





Escono da Gerusalemme e voltano le spalle alle tende dei soldati accampati, e se ne vanno dove una strada tortuosa li porta attraverso strani avvolgimenti; e trovano una piccola e ombrosa valle che giace tra più colli, proprio come se fosse un teatro chiuso tutt'intorno, per tornei o battute di caccia.





Qui si fermano entrambi e Argante, titubante, si volta a guardare la città in fiamme. Tancredi vede che il pagano non è protetto dallo scudo e getta lontano il proprio. Poi gli dice: «Ora quale pensiero ti ha preso? pensi che sia giunta la tua ultima ora? Se prevedendo questo sei timoroso, ormai il tuo timore è fuori luogo».





L'altro risponde:
«Penso alla città che fu antichissima capitale del regno di Giudea, che ora cade vinta e io cercai invano di impedire la sua fatale rovina, e penso che la tua testa, che il Cielo mi destina, è una magra vendetta al mio disprezzo». Tacque e i due si vanno incontro con grande cautel, poiché
ognuno conosce il valore dell'altro.




Tancredi è di corporatura agile e spedita, velocissimo di mano e piede; Argante lo sovrasta con la testa ed è molto più grosso di lui nelle membra. Si vede Tancredi che si muove raccolto in sé e chinato per entrare sotto la spada dell'avversario; e con la sua spada trova quella del nemico e usa ogni arte per evitarla.





Ma il feroce Argante, in piedi ed eretto, mostra un'arte simile e un atteggiamento diverso. Per quanto gli è possibile, va avanti col braccio e non cerca il ferro, ma il corpo di Tancredi. Quello tenta a ogni momento di trovare nuovi spiragli, questo gli punta sempre la spada al volto: lo minaccia e sta attento a impedirgli entrate segrete e fulminee schivate.




Così si vede una battaglia navale, quando sul mare non soffia l'Africo o il Noto, tra due navi ineguali, di cui una sia più grande e l'altra più veloce: una assale e gira con movimenti circolari da prora a poppa, l'altra sta immobile; e quando la nave più leggera si avvicina, minaccia grande rovina dalla parte più alta.





Mentre Tancredi tenta ancora di entrare di sotto sviando la spada che vede puntata contro di lui, Argante vibra la sua arma e gli presenta la punta agli occhi; l'altro corre ai ripari ma il pagano la fa cadere così veloce e violenta che anticipa il difensore e lo ferisce al fianco; e vedendo Tancredi ferito, grida:
«Lo schermidore è vinto grazie alla sua arte di schermirsi».




Tancredi si rode di sdegno e vergogna e lascia le solite cautele, e brama la vendetta al punto che ritiene una sconfitta il vincere tardivamente. Risponde al rimprovero di Argante solo col ferro e lo indirizza all'elmo, dove c'è la visiera. Argante ribatte il colpo e il risoluto Tancredi è già arrivato a lotta ravvicinata.





Allora passa veloce col piede sinistro e con la sinistra lo afferra al braccio destro, e con la destra intanto lo ferisce con punte mortali al fianco
destro. Diceva: «Il vinto schermidore rende questa risposta al maestro vincitore».
Il circasso freme e si torce e si scuote, ma non può tirar via il braccio prigioniero.




Alla fine lasciò cadere la spada appesa alla catena [che la fissava al braccio] e si spinse sotto Tancredi. Questi fece lo stesso e con grande sforzo si premettero e si abbracciarono a vicenda; Ercole non sollevò e non strinse con maggior forza dalla sabbia infuocata [della Libia] il grande gigante [Anteo], rispetto a quella forza con cui le braccia muscolose facevano nodi tenaci in modi vari.



Gli avvolgimenti e le scosse furono tali che entrambi al tempo stesso premettero il suolo col fianco, cadendo. Argante, che fosse sua arte o sua fortuna, ha sopra il braccio destro e sotto il sinistro. Ma la mano più efficace a colpire [la destra] sta sotto a Tancredi, impacciata; allora lui, che vede il suo svantaggio e il rischio, si divincola dall'altro e balza in piedi.





Il saraceno si alza più tardi e prima che sia in piedi un gran fendente lo colpisce. Ma come l'Euro piega la cima frondosa del pino e al tempo stesso la risolleva, così lui alza e risolleva il suo valore proprio quando è più prossimo a ricadere a terra. Ora qui ricominciano i colpi reciproci: la battaglia ha meno artifici ed è più sanguinosa.




A Tancredi il sangue esce da più ferite, ma il pagano ne versa quasi torrenti. Ormai il furore vien meno nelle forze indebolite, come una fiamma cui venga mancare l'alimento. Tancredi, che lo vedeva menare i colpi sempre più lenti col braccio privo di sangue, lasciata l'ira dal suo cuore nobile, gli parla pacatamente e ritrae il piede:





«Arrenditi, uomo valoroso, oppure riconosci che io o la fortuna ti abbiamo sconfitto; non cerco da te il trionfo o un trofeo, né vanto alcun potere su di te». Il pagano, più terribile che mi, desta e raduna tutte le sue furie e risponde: «Ora dunque ti vanti di avere la meglio e osi tentare Argante con la viltà?




Sfrutta pure la tua buona sorte, poiché io non temo nulla e non lascerò impunita la tua follia». Come una torcia prima di spegnersi rinforza la fiamma e si estingue luminosa, così Argante riempiendo d'ira le vene vuote di sangue rinvigorì la gagliardia perduta e volle rendere illustri le ore vicine della morte con una fine generosa.





Unisce entrambe le mani e, impugnando con esse la spada, la abbassa; cala un fendente e anche se trova opposta la spada di Tancredi, la sforza e passa oltre, arriva alla spalla e apre molte ferite in un sol colpo passando giù, lungo le costole
. Se Tancredi non ha paura, è solo perché la natura gli diede un cuore incapace di temere.




L'altro raddoppia il colpo orribile e ha sparso inutilmente al vento la forza e l'ira, perché Tancredi, attento a schivare il colpo, lo evitò e si lanciò a lato. Tu, trascinato dal tuo peso, andasti giù col mento, Argante, e non fosti in grado di sostenerti: cadesti per causa tua, almeno fortunato nel fatto che nessun altro ha il merito di averti buttato a terra.





La caduta dilatò le ferite aperte e il sangue, spremuto fuori, ne uscì copioso. Egli punta la mano sinistra a terra e si alza su un ginocchio, per difendersi.
«Arrenditi» gli grida il cortese vincitore, senza infierire, e gli fa nuove offerte di pace. Ma l'altro a tradimento caccia il ferro e lo colpisce sul tallone, quindi lo minaccia.




Allora Tancredi si infuriò e disse:
«Così, fellone, approfitti della mia pietà?» Poi gli infilò più volte la spada nella visiera, dove il ferro trovò la strada. Argante moriva, proprio come era vissuto: minacciava morendo e non si lamentava. Gli ultimi suoi movimenti e parole furono superbi, spaventosi e feroci.




Tancredi rinfodera la spada e poi ringrazia devotamente Dio di quell'onore trionfale; ma la
sanguinosa vittoria ha lasciato il vincitore quasi privo di forze. Egli teme fortemente che il suo debole vigore non possa durare al movimento; pure si incammina e così, a passi lenti, muove il piede stanco lungo il sentiero già percorso.





Non può trascinare molto oltre il debole fianco e quanto più si sforza più gli cresce l'affanno, per cui si siede a terra e mette le guance sulla mano destra, che trema come una canna al vento. Gli sembra di vedere tutto che gira, e il giorno gli si oscura come nelle tenebre. Alla fine sviene; e non sarebbe facile distinguere alla vista il vincitore dal vinto.


Interpretazione complessiva

  • Collocato nella parte finale del poema, il duello fra Tancredi e Argante riprende altri celebri episodi dell'epica classica e moderna (Ettore e Achille nell'Iliade, Enea e Turno nell'Eneide, senza dimenticare lo scontro Rodomonte-Ruggiero nel Furioso, col quale ha in comune più di un elemento) e tra i due personaggi della Liberata c'è del resto una componente di odio personale che è un'aggiunta tassesca, nel senso che essi avevano duellato già nel canto VI ma lo scontro si era interrotto per il calare della notte, e alla ripresa Tancredi non si era presentato perché era stato catturato da Armida nell'inseguimento di Erminia travestita da Clorinda, fatto rinfacciatogli del resto dallo stesso Argante. Il saraceno ricorda a Tancredi anche di aver ucciso proprio Clorinda e il cristiano, che lo ritiene indirettamente responsabile di quella tragedia perché lui e la donna avevano fatto la sortita notturna per incendiare la torre, vuole vendicarsi di lui e vieta ai suoi uomini di colpirlo, scortandolo addirittura fuori dalle mura di Gerusalemme e facendogli scudo perché non rimanga ferito (particolare che rimanda all'Iliade, XXII.205-207, in cui Achille fa lo stesso per serbare a sé l'uccisione di Ettore, colpevole di aver ucciso Patroclo). Argante si dimostra guerriero implacabile e, pur consapevole della caduta di Gerusalemme, non rinuncia a lottare contro i nemici, simile in questo al Rodomonte del Furioso col quale ha in comune anche il fatto di essere "d'ogni dio sprezzatore", anche se prima del duello si volta a guardare la città con un fremito di amarezza per la sconfitta, dettaglio che rimanda all'Eneide (XII.669-671, quando Turno, appreso il suicidio di Amata, si volta a guardare Laurento).
  • Lo scontro fra Tancredi e Argante è modellato soprattutto su quello di Rodomonte e Ruggiero che chiudeva l'Orlando furioso, poiché anche in questo caso il cristiano è meno fisicamente prestante e più agile, mentre il pagano ha una maggiore statura e una forza smisurata che gli danno almeno in teoria un vantaggio sull'avversario; le fasi del duello ricordano in parte l'episodio precedente, poiché anche Tancredi si mostra cortese con l'avversario (getta via il suo scudo, visto che Argante non ne ha uno) e ingaggia con lui un tremendo corpo a corpo nei momenti finali dello scontro, riuscendo ad abbattere il suo nemico a terra, come aveva fatto Ruggiero (Fur., XLVI.130). Anche qui il cristiano offre all'avversario una resa onorevole e si propone di risparmiarlo, dettaglio ripreso a sua volta dall'Eneide in cui Enea faceva lo stesso con Turno, ma Argante rifiuta sdegnoso come Rodomonte e cerca anche di colpire Tancredi a tradimento, dimostrando poca cavalleria come il re di Sarza che nel poema di Ariosto si batteva con Ruggiero stando a cavallo, mentre l'altro era a piedi. Alla fine Tancredi è costretto a uccidere Argante cacciandogli la spada nella visiera dell'elmo, più o meno come Ruggiero aveva fatto con Rodomonte trafiggendogli il cranio col pugnale (Fur., XLVI.140.1-4). Nell'Eneide era in realtà Turno a chiedere a Enea di risparmiarlo e l'eroe troiano era sul punto di accettare, poi aveva visto la cintura dell'amico Pallante morto e aveva deciso di infierire sull'avversario, in una situazione speculare rispetto ai due successivi episodi dei poemi moderni.
  • Dopo la fine del duello Tancredi ha riportato gravi ferite ed ha perso molto sangue, in modo assai simile a quanto accaduto dopo il duello mortale con Clorinda, e si trascina per qualche passo tentando di tornare alla città assediata, finché (stremato nelle forze) si accascia a terra e rimane lì più morto che vivo, proprio come nella conclusione dell'episodio del canto XII (70.6-8: "Già simile a l’estinto il vivo langue / al colore, al silenzio, a gli atti, al sangue"; ► TESTO: Il duello di Tancredi e Clorinda). La somiglianza con il passo precedente sta anche nella solitudine in cui il duello ha avuto luogo, dal momento che i due si sono appartati in una "ombrosa angusta valle" e qui danno vita a uno scontro che non ha alcuno spettatore, proprio come avveniva nel duello notturno tra il cristiano e la donna guerriera. Nel prosieguo del canto Tancredi verrà soccorso da Erminia che casualmente si imbatterà in lui e lo curerà salvandogli la vita, rivelandogli anche il suo amore mentre lui è esanime (► TESTO: Erminia soccorre Tancredi).

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