Letteratura italiana
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Torquato Tasso


Il monologo del satiro
(Aminta, Atto II, scena I)

L'Atto II si apre, subito dopo il coro che ha celebrato la "bella età de l'oro" per la libertà dell'amore, con l'inquietante monologo del satiro, che ama Silvia ma è da costei disprezzato e respinto non tanto per la sua bruttezza, quanto soprattutto per la sua povertà: egli maledice quel mondo che, lungi dall'essere "aureo", ha in realtà posto un prezzo all'amore ed esclude dalle sue gioie chi come lui non è ricco, per cui decide di usare la forza e di far sua la giovane ninfa a suo dispetto, commettendo uno stupro. La visione del satiro ribalta completamente il messaggio esposto nel coro appena concluso e contiene un'implicita critica all'ambiente di corte, che esclude chi non è nobile e non lo rende partecipe dell'amore concepito come valore elevato, per cui l'unica strada sembra essere quella della violenza.

► PERCORSO: La Controriforma 
► AUTORE: Torquato Tasso








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ATTO II, SCENA I
SATIRO SOLO

[...] Ma, se mia povertà non può donarti
cosa ch'in te non sia più bella e dolce,
me medesmo ti dono. Or perché iniqua
scherni e abborri il dono? non son io
da disprezzar, se ben me stesso vidi
nel liquido del mar [1], quando l'altr'ieri
taceano i venti ed ei giacea senz'onda.
Questa mia faccia di color sanguigno,
queste mie spalle larghe, e queste braccia
torose [2] e nerborute, e questo petto
setoso [3], e queste mie velate coscie
son di virilità, di robustezza
indicio; e, se no 'l credi, fanne prova.
Che vuoi tu far di questi tenerelli [4],
che di molle lanugine fiorite
hanno a pena le guancie? e che con arte
dispongono i capelli in ordinanza? [5]
Femine nel sembiante e ne le forze
sono costoro. Or di' ch'alcun ti segua
per le selve e pei monti, e 'ncontra gli orsi
ed incontra i cinghiai per te combatta.
Non sono io brutto, no, né tu mi sprezzi
perché sì fatto io sia, ma solamente
perché povero sono. Ahi, ché le ville [6]
seguon l'essempio de le gran cittadi!
e veramente il secol d'oro è questo,
poiché sol vince l'oro e regna l'oro.
O chiunque tu fosti, che insegnasti
primo a vender l'amor, sia maledetto
il tuo cener sepolto e l'ossa fredde,
e non si trovi mai pastore o ninfa
che lor dica passando: «Abbiate pace»;
ma le bagni la pioggia e mova il vento,
e con piè immondo la greggia il calpesti
e 'l peregrin. [7] Tu prima svergognasti
la nobiltà d'amor; tu le sue liete
dolcezze inamaristi. [8] Amor venale,
amor servo de l'oro è il maggior mostro
ed il più abominabile e il più sozzo,
che produca la terra o 'l mar fra l'onde.
Ma perché in van mi lagno? Usa ciascuno
quell'armi che gli ha date la natura
per sua salute: il cervo adopra il corso, [9]
il leone gli artigli, ed il bavoso
cinghiale il dente; e son potenza ed armi
de la donna bellezza e leggiadria;
io, perché non per mia salute adopro
la violenza, se mi fe' natura
atto a far violenza ed a rapire?
Sforzerò, rapirò quel che costei
mi niega, ingrata, in merto de l'amore; [10]
che, per quanto un caprar [11] testé mi ha detto,
ch'osservato ha suo stile, ella ha per uso
d'andar sovente a rinfrescarsi a un fonte;
e mostrato m'ha il loco. Ivi io disegno
tra i cespugli appiattarmi e tra gli arbusti [12],
ed aspettar fin che vi venga; e, come
veggia l'occasion, correrle addosso.
Qual contrasto col corso o con le braccia
potrà fare una tenera fanciulla
contra me sì veloce e sì possente?
Pianga e sospiri pure, usi ogni sforzo
di pietà, di bellezza: che, s'io posso
questa mano ravvoglierle nel crine,
indi non partirà, ch'io pria non tinga
l'armi mie per vendetta nel suo sangue. [13]









[1] Mi specchiai nella superficie del mare.



[2] Muscolose (latinismo).
[3] Villoso, ricoperto di peli.

[4] Dei pastori, creature effeminate.


[5] Che si pettinano i capelli mettendoli in ordine.





[6] I villaggi di campagna.










[7] E lo straniero.

[8] Rendesti amare.




[9] La corsa.







[10] Prenderò quello che lei, ingrata, mi nega rispetto all'amore [la farò mia con la violenza]. [11] Un pastore di capre.



[12] Ho deciso di nascondermi lì, tra i cespugli e gli arbusti.








[13] Allusione cruda allo stupro che il satiro progetta.


Interpretazione complessiva

  • Metro: versi endecasillabi sciolti. La lingua è il fiorentino letterario secondo la proposta di Bembo, con la presenza di latinismi (v. 37, "liquido", acqua; v. 41, "torose", muscolose; v. 55 "ville", case di campagna; v. 76, "corso"; v. 78, "salute", salvezza; v. 95, "crine", capelli). Nei vv. 90-97 c'è un'insistita allitterazione della "r", in corrispondenza dei propositi violenti del satiro.
  • Il lungo monologo del satiro, che si colloca immediatamente dopo il coro che chiudeva l'atto I (► TESTO: O bella età de l'oro), vuol essere un lamento d'amore dovuto al fatto che Silvia respinge le sue profferte, ma in realtà costituisce un inatteso ribaltamento della celebrazione appena conclusa dell'età antica e una singolare presa di posizione sull'amore, tanto più inquietante in quanto non è smentita a vantaggio dell'altra. Il satiro lamenta il fatto che la bella ninfa lo disprezzi non tanto per la sua bruttezza fisica, ché anzi il dio rivendica la sua virilità a paragone con gli effeminati pastori, ma piuttosto perché "povero", per cui egli è escluso dalla concezione nobile dell'amore per motivi sociali ed economici, nel che si ravvisa un'implicita e sottile critica al mondo della corte che tali meccanismi esclusivi inevitabilmente poneva in atto. Se solo chi è ricco e nobile può essere ammesso alla società raffinata dell'aristocrazia e godere le gioie dell'amore "petrarchesco", allora il satiro (che da quella dimensione è tagliato fuori) decide di usare altre armi, di prendersi il suo profitto sessuale con la violenza imitando quelle belve che usano le qualità date loro dalla natura per procacciarsi il cibo. Il passo, tutto giocato sul filo dell'ambiguità, sembra essere una presa di posizione autobiografica dello stesso Tasso, ammesso alla corte estense ma non ricco e, forse, spregiato come il satiro per la sua condizione sociale, da cui la dura polemica contro l'avidità che ha inquinato la vita amorosa (vv. 57-58: "e veramente il secol d'oro è questo, / poiché sol vince l'oro e regna l'oro"; e vv. 68-70: "Amor venale, / amor servo de l'oro è il maggior mostro / ed il più abominabile e il più sozzo"). Non va scordato che già nel XVI sec. nacque la leggenda di un Tasso innamorato di Eleonora, la sorella del duca Alfonso, e che per questo amore proibito sarebbe stato internato a Sant'Anna pur non essendo pazzo (ma sulla follia del poeta vi sono testimonianze certe).
  • Il v. 64 è un'evidente ripresa di Purg., III.130 ("Or le bagna la pioggia e move il vento", le parole di Manfredi di Svevia a Dante), così come letterario è l'elemento della tomba di chi ha reso l'amore venale che, per il satiro, non deve essere protetta ma disprezzata e disonorata da chiunque passi su di essa (le parole del satiro ricordano quelle di Erminia che si augura di essere sepolta tra i pastori e di essere visitata dall'amato Tancredi, usando anche lei l'espressione "cener freddo" che ricorda il "cener sepolto e l'ossa fredde"; ► TESTO: Erminia tra i pastori). Il tema della tomba ha una certa importanza per Tasso e lo si ritrova, in un tutt'altro contesto, anche nella Canzone al Metauro in cui viene rievocata la morte dei genitori (► TESTO: Canzone al Metauro).

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