Ludovico Ariosto
Mandricardo e Doralice
(Orlando furioso, XIV, 38-65)
Mentre re Agramante si prepara a dare l'assalto decisivo alla città di Parigi, si apprende che due squadre di saraceni sono state massacrate da un misterioso cavaliere cristiano dall'armatura nera (che sappiamo essere Orlando) e a questa notizia Mandricardo, il feroce guerriero figlio del defunto re dei Tartari Agricane, decide di lasciare il campo e di mettersi in cerca del responsabile dell'eccidio per vendicarsi di lui. Durante il viaggio si imbatte nella scorta di Doralice, la bellissima figlia del re di Granata Stordilano e promessa sposa di Rodomonte, che sta per ricongiungersi col padre e il fidanzato: invaghitosi della fanciulla, Mandricardo fa strage dei suoi difensori e la rapisce, mentre la ragazza, dopo l'iniziale spavento, mostra di non disdegnare la corte dell'uomo e finisce per concedersi a lui pienamente. L'episodio è interessante non solo per la caratterizzazione negativa di Mandricardo, ma anche per quella di Doralice il cui comportamento è opposto a quello virtuoso di altre protagoniste femminili del poema (Isabella, Bradamante, Olimpia).
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Ludovico Ariosto
► OPERA: Orlando furioso
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Ludovico Ariosto
► OPERA: Orlando furioso
38
Quel giorno e mezzo l'altro segue incerto il cavallier dal negro, e ne domanda. Ecco vede un pratel d'ombre coperto, che sì d'un alto fiume si ghirlanda, che lascia a pena un breve spazio aperto, dove l'acqua si torce ad altra banda. Un simil luogo con girevol onda sotto Ocricoli il Tevere circonda. 39 Dove entrar si potea, con l'arme indosso stavano molti cavallieri armati. Chiede il pagan, chi gli avea in stuol sì grosso, ed a che effetto insieme ivi adunati. Gli fe' risposta il capitano, mosso dal signoril sembiante e da' fregiati d'oro e di gemme arnesi di gran pregio, che lo mostravan cavalliero egregio. 40 «Dal nostro re siàn (disse) di Granata chiamati in compagnia de la figliuola, la quale al re di Sarza ha maritata, ben che di ciò la fama ancor non vola. Come appresso la sera racchetata la cicaletta sia, ch'or s'ode sola, avanti al padre fra l'ispane torme la condurremo: intanto ella si dorme.» 41 Colui, che tutto il mondo vilipende, disegna di veder tosto la pruova, se quella gente o bene o mal difende la donna, alla cui guardia si ritruova. Disse: «Costei, per quanto se n'intende, è bella; e di saperlo ora mi giova. A lei mi mena, o falla qui venire; ch'altrove mi convien subito gire.» 42 «Esser per certo dei pazzo solenne,» rispose il Granatin, né più gli disse. Ma il Tartaro a ferir tosto lo venne con l'asta bassa, e il petto gli trafisse; che la corazza il colpo non sostenne, e forza fu che morto in terra gisse. L'asta ricovra il figlio d'Agricane, perché altro da ferir non gli rimane. 43 Non porta spada né baston; che quando l'arme acquistò, che fu d'Ettor troiano, perché trovò che lor mancava il brando, gli convenne giurar (né giurò invano) che fin che non togliea quella d'Orlando, mai non porrebbe ad altra spada mano: Durindana ch'Almonte ebbe in gran stima, e Orlando or porta, Ettor portava prima. 44 Grande è l'ardir del Tartaro, che vada con disvantaggio tal contra coloro, gridando: «Chi mi vuol vietar la strada?» E con la lancia si cacciò tra loro. Chi l'asta abbassa, e chi tra' fuor la spada; e d'ogn'intorno subito gli foro. Egli ne fece morir una frotta, prima che quella lancia fosse rotta. 45 Rotta che se la vede, il gran troncone che resta intero, ad ambe mani afferra; e fa morir con quel tante persone, che non fu vista mai più crudel guerra. Come tra' Filistei l'ebreo Sansone con la mascella che levò di terra, scudi spezza, elmi schiaccia, e un colpo spesso spenge i cavalli ai cavallieri appresso. 46 Correno a morte que' miseri a gara, né perché cada l'un, l'altro andar cessa; che la maniera del morire, amara lor par più assai che non è morte istessa. Patir non ponno che la vita cara tolta lor sia da un pezzo d'asta fessa, e sieno sotto alle picchiate strane a morir giunti, come biscie o rane. 47 Ma poi ch'a spese lor si furo accorti che male in ogni guisa era morire, sendo già presso alli duo terzi morti, tutto l'avanzo cominciò a fuggire. Come del proprio aver via se gli porti, il Saracin crudel non può patire ch'alcun di quella turba sbigottita da lui partir si debba con la vita. 48 Come in palude asciutta dura poco stridula canna, o in campo àrrida stoppia contra il soffio di borea e contra il fuoco che 'l cauto agricultore insieme accoppia, quando la vaga fiamma occupa il loco, e scorre per li solchi, e stride e scoppia; così costor contra la furia accesa di Mandricardo fan poca difesa. 49 Poscia ch'egli restar vede l'entrata, che mal guardata fu, senza custode; per la via che di nuovo era segnata ne l'erba, e al suono dei ramarchi ch'ode, viene a veder la donna di Granata, se di bellezze è pari alle sue lode: passa tra i corpi de la gente morta, dove gli dà, torcendo, il fiume porta. 50 E Doralice in mezzo il prato vede (che così nome la donzella avea), la qual, suffolta da l'antico piede d'un frassino silvestre, si dolea. Il pianto, come un rivo che succede di viva vena, nel bel sen cadea; e nel bel viso si vedea che insieme de l'altrui mal si duole, e del suo teme. 51 Crebbe il timor, come venir lo vide di sangue brutto e con faccia empia e oscura, e'l grido sin al ciel l'aria divide, di sé e de la sua gente per paura; che, oltre i cavallier, v'erano guide, che de la bella infante aveano cura, maturi vecchi, e assai donne e donzelle del regno di Granata, e le più belle. 52 Come il Tartaro vede quel bel viso che non ha paragone in tutta Spagna, e c'ha nel pianto (or ch'esser de' nel riso?) tesa d'Amor l'inestricabil ragna; non sa se vive in terra o in paradiso: né de la sua vittoria altro guadagna, se non che in man de la sua prigioniera si dà prigione, e non sa in qual maniera. 53 A lei però non si concede tanto, che del travaglio suo le doni il frutto; ben che piangendo ella dimostri, quanto possa donna mostrar, dolore e lutto. Egli, sperando volgerle quel pianto in sommo gaudio, era disposto al tutto menarla seco; e sopra un bianco ubino montar la fece, e tornò al suo camino. 54 Donne e donzelle e vecchi ed altra gente, ch'eran con lei venuti di Granata, tutti licenziò benignamente, dicendo: «Assai da me fia accompagnata; io mastro, io balia, io le sarò sergente in tutti i suoi bisogni: a Dio brigata.» Così, non gli possendo far riparo, piangendo e sospirando se n'andaro; 55 tra lor dicendo: «Quanto doloroso ne sarà il padre, come il caso intenda! quanta ira, quanto duol ne avrà il suo sposo! oh come ne farà vendetta orrenda! Deh, perché a tempo tanto bisognoso non è qui presso a far che costui renda il sangue illustre del re Stordilano, prima che se lo porti più lontano?» 56 De la gran preda il Tartaro contento, che fortuna e valor gli ha posta inanzi, di trovar quel dal negro vestimento non par ch'abbia la fretta ch'avea dianzi. Correva dianzi: or viene adagio e lento; e pensa tuttavia dove si stanzi, dove ritruovi alcun commodo loco, per esalar tanto amoroso foco. 57 Tuttavolta conforta Doralice, ch'avea di pianto e gli occhi e 'l viso molle: compone e finge molte cose, e dice che per fama gran tempo ben le volle; e che la patria, e il suo regno felice che 'l nome di grandezza agli altri tolle, lasciò, non per vedere o Spagna o Francia, ma sol per contemplar sua bella guancia. 58 «Se per amar, l'uom debbe essere amato, merito il vostro amor; che v'ho amat'io: se per stirpe, di me chi è meglio nato? che'l possente Agrican fu il padre mio: se per ricchezza, chi ha di me più stato? che di dominio io cedo solo a Dio: se per valor, credo oggi aver esperto ch'esser amato per valore io merto.» 59 Queste parole ed altre assai, ch'Amore a Mandricardo di sua bocca ditta, van dolcemente a consolar il core de la donzella di paura afflitta. Il timor cessa, e poi cessa il dolore che le avea quasi l'anima trafitta. Ella comincia con più pazienza a dar più grata al nuovo amante udienza; 60 poi con risposte più benigne molto a mostrarsegli affabile e cortese, e non negargli di fermar nel volto talor le luci di pietade accese: onde il pagan, che da lo stral fu colto altre volte d'Amor, certezza prese, non che speranza, che la donna bella non saria a' suo' desir sempre ribella. 61 Con questa compagnia lieto e gioioso, che sì gli satisfà, sì gli diletta, essendo presso all'ora ch'a riposo la fredda notte ogni animale alletta, vedendo il sol già basso e mezzo ascoso, comminciò a cavalcar con maggior fretta; tanto ch'udì sonar zuffoli e canne, e vide poi fumar ville e capanne. 62 Erano pastorali alloggiamenti, miglior stanza e più commoda, che bella. Quivi il guardian cortese degli armenti onorò il cavalliero e la donzella, tanto che si chiamar da lui contenti; che non pur per cittadi e per castella, ma per tuguri ancora e per fenili spesso si trovan gli uomini gentili. 63 Quel che fosse dipoi fatto all'oscuro tra Doralice e il figlio d'Agricane, a punto racontar non m'assicuro; sì ch'al giudicio di ciascun rimane. Creder si può che ben d'accordo furo; che si levar più allegri la dimane, e Doralice ringraziò il pastore, che nel suo albergo le avea fatto onore. 64 Indi d'uno in un altro luogo errando, si ritrovaro al fin sopra un bel fiume che con silenzio al mar va declinando, e se vada o se stia, mal si prosume; limpido e chiaro sì, ch'in lui mirando, senza contesa al fondo porta il lume. In ripa a quello, a una fresca ombra e bella, trovar dui cavallieri e una donzella. 65 Or l'alta fantasia, ch'un sentier solo non vuol ch'i'segua ognor, quindi mi guida, e mi ritorna ove il moresco stuolo assorda di rumor Francia e di grida, d'intorno il padiglione ove il figliuolo del re Troiano il santo Impero sfida, e Rodomonte audace se gli vanta arder Parigi e spianar Roma santa. |
Per tutto quel giorno e metà di quello seguente Mandricardo segue incerto il cavaliere nero e domanda di lui. Ecco che vede un praticello coperto d'ombra, circondato da un grosso fiume in modo tale che lascia a malapena aperto un piccolo spiazzo, dove l'acqua si volge in un'altra direzione. Il Tevere circonda un luogo simile con il suo corso curvo presso Otricoli [a Terni]. Nel punto accessibile c'erano molti cavalieri con l'armatura indosso. Il pagano chiede chi li radunava in una squadra così numerosa e perché si trovassero lì. Il capitano, colpito dal suo aspetto signorile e dalla sua armatura fregiata d'oro e gemme di grande pregio, che lo indicavano come nobile cavaliere, gli rispose. «Siamo chiamati dal nostro re di Granata - disse - in compagnia di sua figlia, che l'ha promessa in sposa al re di Sarza [Rodomonte] anche se la notizia non è stata ancora diffusa. Non appena questa sera la cicala, che adesso è la sola che si sente, avrà taciuto, la condurremo davanti al padre fra le truppe ispaniche: intanto ella dorme.» Mandricardo, che oltraggia tutto e tutti, decide di provare subito se quei soldati difendono bene o male la donna a cui fanno la guardia. Disse: «Questa fanciulla, a quanto se ne sa, è bella; ora vorrei saperlo. Portami da lei o falla venire qui; io devo andare subito altrove.» «Tu devi certo essere un pazzo furioso», gli rispose il soldato di Granata e non aggiunse altro. Ma il Tartaro lo andò subito a colpire con la lancia abbassata e gli trafisse il petto; la corazza non parò il colpo e fu inevitabile che quello cadesse a terra morto. Il figlio di Agricane [Mandricardo] recupera la lancia, perché non ha nessun'altra arma con cui ferire. Non porta spada né bastone, poiché quando conquistò le armi che appartennero al troiano Ettore vide che mancava la spada e dovette giurare (non invano) che non ne avrebbe portata un'altra finché non avesse conquistato quella di Orlando: la spada Durindana, che Almonte stimò moltissimo ed ora è portata da Orlando, e fu di Ettore prima. È grande il coraggio del Tartaro, che lotta in svantaggio contro gli avversari gridando: «Chi vuole sbarrarmi la strada?» E con la lancia si cacciò tra loro. Alcuni abbassano la lancia, altri sguainano la spada; gli furono subito attorno da ogni lato. Egli ne uccise un gran numero, prima di spezzare la lancia. Quando la vede rotta, afferra con ambo le mani il grosso troncone che resta intero e con esso uccide tante persone che non si vide mai una strage peggiore. Come fece l'ebreo Sansone che sollevò da terra la mascella [d'asino], Mandricardo spezza scudi, schiaccia elmi e spesso un colpo uccide coi cavalieri anche i cavalli. Quei poveracci correvano a gara a morire, e il fatto che uno cada non trattiene l'altro dall'avanzare; il modo di morire sembra loro assai più amaro della morte stessa. Non possono tollerare che la vita preziosa sia tolta loro da un pezzo di lancia rotta, e siano giunti a morire sotto quegli strani colpi come bisce o rane. Ma quando a loro spese ebbero capito che morire era doloroso in ogni modo, essendo già morti circa i due terzi di loro, tutti i superstiti iniziarono a fuggire. Come se gli portassero via qualcosa di suo, il crudele saraceno non può tollerare che qualcuno di quella torma sbalordita se ne vada via da lui con la propria vita. Come in una palude secca la canna stridula o in un campo l'arida stoppia resiste poco contro il soffio del vento e contro il fuoco che il saggio contadino mette insieme, quando l'avida fiamma occupa il luogo e scorre tra i solchi, stridendo e scoppiando; così costoro possono difendersi male contro la furia scatenata di Mandricardo. Dopo che ha visto che l'ingresso [dello spiazzo] è rimasto senza custode, essendo stato mal difeso, lungo la via che era da poco calpestata e al suono dei lamenti va a vedere la donna di Granata, se la sua bellezza è pari alla lode che ne ha sentito: passa tra i cadaveri dove il fiume, tra le sue anse, gli dà strada. E vede in mezzo al prato Doralice (questo il nome della fanciulla) la quale, sostenuta dal tronco di un frassino selvatico, si lamentava. Il pianto, come un ruscello che sgorga da una viva sorgente, cadeva nel bel seno; e nel suo bel viso si vedeva che al tempo stesso si lamentava dei mali altrui e teme del proprio. La sua paura aumentò, non appena lo vide avanzare sporco di sangue e con la faccia malvagia e scura, e il suo grido spezza l'aria sino al cielo, per paura di sé e della sua gente; infatti oltre i cavalieri c'erano guide che avevano cura della bella fanciulla, uomini anziani e molte donne e ragazze del regno di Granata, tra le più belle. Appena il Tartaro vede quel bel viso che non ha paragoni in tutta la Spagna e che piangendo ha teso l'inestricabile ragnatela d'amore (e cosa farà sorridendo?), non sa se si trova ancora in terra o in paradiso: della sua vittoria non ha altro guadagno se non si darsi prigioniero in mano alla sua prigioniera, senza neppure saperlo. A lei però non concede il frutto della sua pena, non la libera, benché lei piangendo dimostri tutto quello che una donna può mostrare, dolore e lutto. Lui, sperando di trasformare quel pianto in immensa gioia, era disposto a portarla con sé in ogni modo; e la fece montare sopra un bianco ubino [un piccolo cavallo], tornando al suo viaggio. Licenziò con benevolenza tutti quelli che erano venuti con lei da Granata, donne, fanciulle e vecchi, dicendo: «Basterò io ad accompagnarla; sarò per lei maestro, balia e custode per ogni sua necessità: addio, amici.» Così, non potendo opporsi a lui, se ne andarono piangendo e sospirando; e tra loro dicevano: «Come sarà addolorato il padre, quando saprà la cosa! quanta ira, quanta rabbia ne avrà il fidanzato! oh, quale orrenda vendetta ne farà! Ahimè, perché adesso che ce n'è più bisogno lui non è qui a fare in modo che costui restituisca il sangue di re Stordilano [la figlia Doralice], prima che lo porti più lontano?» Il Tartaro, contento della gran preda che la fortuna e il valore gli hanno procurato, non sembra più avere la fretta di prima nel trovare il cavaliere nero. Prima correva, ora procede lento lento; e pensa di continuo dove possa alloggiare, dove possa riposare comodamente, per esalare tutto quel fuoco amoroso. Intanto conforta Doralice, che aveva il viso e gli occhi molli di pianto: inventa molte cose, dice che per la sua fama le ha voluto bene da molto tempo; e che ha lasciato la patria e il suo prospero regno, che leva agli altri la fama di grandezza, non per vedere la Spagna o la Francia, ma solo per ammirare il suo bel viso. «Se un uomo dev'essere riamato perché ama, io merito il vostro amore; infatti io vi ho amato. Se per la sua stirpe, chi è nato in una condizione migliore della mia? Infatti il potente Agricane fu mio padre. Se per la sua ricchezza, chi è più ricco di me? Il mio dominio è inferiore solo a quello di Dio. Se per il suo valore, oggi credo di aver dimostrato che io merito per valore di essere amato». Queste parole e molte altre che l'amore detta con le sue labbra a Mandricardo, vanno dolcemente a consolare il cuore della fanciulla afflitta dalla paura. Il timore se ne va, poi se ne va il dolore che le aveva quasi trafitto l'anima. Comincia a dare ascolto al suo innamorato con maggior pazienza; poi inizia con risposte molto più benevole a mostrarsi affabile e cortese con lui e non gli nega di fissare nel suo volto talvolta gli occhi accesi di pietà: il pagano, che fu colpito altre volte dalla freccia d'amore, fu certo e non solo speranzoso che la bella donna non sarebbe stata sempre ribelle ai suoi desideri. Lieto e gioioso con tale compagnia che lo diletta e lo accontenta in tal modo, essendo vicina l'ora in cui la fredda notte alletta ogni animale al riposo, vedendo il sole già basso e quasi tramontato, cominciò a cavalcare più velocemente; finché udì suonare zufoli e cornamuse e poi vide fumare fattorie e capanne. Erano case di pastori, un alloggio più comodo e opportuno che bello. Qui il cortese custode delle greggi fece onore al cavaliere e alla fanciulla, tanto che si dissero contenti di lui; infatti gli uomini nobili non si trovano solo in città e castelli, ma anche nelle capanne e nei fienili. Quello che poi avvenne nel buio tra Doralice e il figlio di Agricane non posso raccontarlo per certo; ognuno ne pensi ciò che vuole. Ma si può credere che andassero molto d'accordo; infatti l'indomani si alzarono più allegri e Doralice ringraziò il pastore che in quell'alloggio l'aveva onorata. Errando poi da un luogo a un altro si trovarono alla fine lungo un bel fiume, che silenzioso scorre verso il mare ed è così lento che è difficile dire in che direzione proceda; così limpido e chiaro che osservandolo si vede senza difficoltà il fondo. Sulle sue rive, sotto una fresca e bella ombra, trovarono due cavalieri e una fanciulla. Ora la mia alta fantasia, che non vuole che io segua sempre lo stesso sentiero, mi porta via di qui e mi fa tornare dove le truppe saracene assordano con il loro strepito e le loro grida la Francia, intorno alla tenda dove il figlio di re Troiano [Agramante] sfida l'impero di Carlo Magno, e l'audace Rodomonte si vanta con lui di bruciare Parigi e radere al suolo la santa Roma. |
Interpretazione complessiva
- Protagonista assoluto dell'episodio è il re dei Tartari Mandricardo, il figlio del defunto Agricane ucciso da Orlando (► TESTO: Il duello di Orlando e Agricane) la cui storia è narrata da Boiardo nell'Innamorato, III.I.5 ss.: partito dalla sua terra per vendicare la morte del padre, si era impadronito delle armi di Ettore dopo aver affrontato terribili prove presso una fata, liberando anche alcuni guerrieri saraceni tra cui Gradasso e Sacripante; poiché le armi erano mancanti della spada Durindana, in possesso di Orlando che l'aveva sottratta ad Almonte, Mandricardo aveva giurato di non cingerne mai nessuna prima di aver conquistato la spada del paladino di Francia. Egli si è unito alle forze di re Agramante che assediano Parigi, ma quando giunge la notizia che due squadre moresche sono state uccise da un misterioso cavaliere vestito di nero Mandricardo lascia il campo e va in cerca dell'uccisore per punirlo, ignorando che si tratta proprio di Orlando. Ariosto lo caratterizza come un guerriero feroce e privo di rispetto per chiunque, "Colui, che tutto il mondo vilipende" (cfr. Inn., III.I.6: "superbo ed inumano"), riottoso alla disciplina e pronto per superbia ad affrontare qualunque impresa, come appunto la strage che egli fa dei cavalieri spagnoli che difendono Doralice per il solo gusto di vedere la fanciulla (condotta tanto più insensata se si pensa che i soldati sono saraceni suoi alleati e che la fanciulla è la fidanzata di Rodomonte). Quanto a Doralice, Ariosto trae il suo personaggio dal poema di Boiardo dove vi è solo un accenno (II.VII.28 e altrove) e viene presentata come fidanzata di Rodomonte che l'ha raffigurata sul suo stendardo, mentre si è ipotizzato che il suo rapimento ad opera di Mandricardo alluda a un fatto di cronaca del XVI sec. quando Cesare Borgia rapì Dorotea Malatesta, dama di compagnia di Elisabetta Gonzaga e moglie di Giambattista Caracciolo, perché invaghito di lei.
- Doralice viene presentata come un personaggio assai particolare, poiché la fanciulla dapprima è atterrita dalla strage compiuta da Mandricardo e sembra avere orrore del suo rapitore, ma quando comprende che l'uomo si è innamorato di lei e che il suo nuovo pretendente non è inferiore a Rodomonte quanto a nobiltà e ricchezza, poco alla volta cambia il suo atteggiamento e accetta la sua corte sino a concedersi a lui pienamente (l'autore ce lo fa intendere in modo reticente e ironico all'ott. 63, dicendo che i due "si levar più allegri" dopo la notte trascorsa nell'umile dimora del pastore). Doralice si dimostra quindi una donna del tutto diversa da figure quali Bradamante e Olimpia, pronte all'estremo sacrificio in nome del proprio uomo, e soprattutto il suo esempio è opposto a quello di Isabella che viene catturata da Rodomonte in circostanze simili e tuttavia, pur di non tradire la memoria di Zerbino, induce il suo rapitore a ucciderla con un elaborato inganno (► TESTO: La morte di Isabella). Doralice è un ulteriore esempio della grande varietà di personaggi femminili del poema, che riflette la relativa indipendenza e maturazione della figura della donna nella società aristocratica del Rinascimento (► SCHEDA: La figura femminile nel '500).
- Il passo contiene numerosi riferimenti alla tradizione letteraria, a cominciare dalla descrizione del boschetto in cui soggiorna Doralice che riprende il locus amoenus della poesia classica (con tanto di erbetta e di fiume sinuoso, ambiente che ritorna alla fine del brano quando Mandricardo e la donna incontrano i due cavalieri e la fanciulla), mentre il villaggio di pastori presso il quale i due alloggiano si rifà ovviamente alla poesia bucolica e sarà in parte imitato da Torquato Tasso nel canto VII della Liberata (► TESTO: Erminia tra i pastori). La descrizione del fascino di Doralice piangente (52.3) riecheggia le Metamorfosi di Ovidio, quando viene esaltata la bellezza di Dafne inseguita da Apollo (I.497-8: Spectat inornatos collo pendere capillos / et: «Quid, si comantur?» ait, "[Apollo] ammira i suoi capelli che pendono senza cura e dice: 'Quanto sarebbe bella, se si pettinasse?'"). Dante è citato in 41.1, dove l'espressione "Colui, che tutto il mondo vilipende" ricorda Par., XI.69 ("colui ch’a tutto ‘l mondo fé paura"), e in 65.1, in cui "alta fantasia" riprende Par., XXXIII.142 ("A l’alta fantasia qui mancò possa").
- I due cavalieri e la fanciulla che compaiono alla fine dell'episodio sono Orlando, Zerbino e Isabella, questi ultimi finalmente ritrovatisi dopo che Zerbino era stato ingiustamente condannato per l'uccisione di Pinabello e Isabella rapita dai briganti (entrambi erano stati liberati da Orlando). Nell'occasione Mandricardo affronterà Orlando sia per vendicare il padre Agricane sia per impossessarsi di Durindana, anche se il duello dovrà essere sospeso; il Tartaro prenderà la spada dopo che questa sarà stata abbandonata da Orlando pazzo e ucciderà Zerbino che tenterà vanamente di impedirglielo. Il malvagio cavaliere verrà alla fine ucciso da Ruggiero, con cui si scontrerà in un duello.