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Angelo Poliziano


«I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino»
(Rime)

È la più celebre ballata di Poliziano, in cui a parlare è una fanciulla che racconta alle compagne di essersi trovata a maggio in un meraviglioso giardino pieno di fiori e di rose, il cui profumo e la cui bellezza erano inebrianti: il testo è un invito a godere dell'amore e della giovinezza finché è possibile, tema tipico dell'Umanesimo che riprende il motivo classico della rosa quale simbolo della bellezza femminile, a sua volta ampiamente diffuso nella letteratura del XV-XVI sec. L'abbandono sereno al piacere dei sensi qui riflette la prospettiva maschile, benché affidato a una voce femminile, ed è del tutto privo delle ubbìe morali della poesia del Trecento, come anche di alcuni testi di Lorenzo de' Medici.

► PERCORSO: L'Umanesimo
► AUTORE: Angelo Poliziano








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I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino
di mezzo maggio in un verde giardino.

Eran d’intorno violette e gigli
fra l’erba verde, e vaghi fior novelli
azzurri gialli candidi e vermigli:
ond’io porsi la mano a côr di quelli
per adornar e’ mie’ biondi capelli
e cinger di grillanda el vago crino.

Ma poi ch’i’ ebbi pien di fiori un lembo,
vidi le rose e non pur d’un colore:
io colsi allor per empir tutto el grembo,
perch’era sì soave il loro odore
che tutto mi senti’ destar el core
di dolce voglia e d’un piacer divino.

I’ posi mente: quelle rose allora
mai non vi potre’ dir quant’eran belle:
quale scoppiava della boccia ancora;
qual’eron un po’ passe e qual novelle.
Amor mi disse allor: «Va’, co’ di quelle
che più vedi fiorite in sullo spino».

Quando la rosa ogni suo’ foglia spande,
quando è più bella, quando è più gradita,
allora è buona a mettere in ghirlande,
prima che sua bellezza sia fuggita:
sicché fanciulle, mentre è più fiorita,
cogliàn la bella rosa del giardino.
Fanciulle, io mi trovai un bel mattino di metà maggio in un verde giardino.


Intorno c'erano violette e gigli in mezzo all'erba verde, e bei fiori appena sbocciati, azzurri, gialli, bianchi e rossi: allora io allungai la mano per cogliere alcuni di essi, per decorare i miei capelli biondi e cingere con una ghirlanda la mia bella chioma.


Ma dopo che mi fui riempita di fiori un lembo della veste, vidi le rose e non di un solo colore: allora io ne raccolsi alcune per riempirmi tutto il grembo, perché il loro profumo era così dolce che mi sentii destare tutto il cuore di un dolce desiderio e di un piacere divino.



Io feci attenzione: non potrei mai dirvi quanto erano belle quelle rose: alcune ancora stavano appena sbocciando, altre erano un po' appassite e altre erano ancora fiorite. Amore allora mi disse: «Va', cogli quelle che vedi più fiorite sullo stelo».



Quando la rosa distende ogni suo petalo, quando è più bella, quando è più piacevole, allora va bene per metterla nelle ghirlande, prima che la sua bellezza sia fuggita: allora, fanciulle, mentre è più fiorita, cogliamo la bella rosa nel giardino.


Interpretazione complessiva

  • Metro: ballata piccola di endecasillabi, formata da una ripresa di due versi e da quattro sestine, con schema della rima XX, ABABBX. La lingua è il toscano della tradizione letteraria, con alcuni elementi più popolari ("grillanda" per "ghirlanda", v. 8; "suo’" per "sue", v. 21). Al v. 4 "côr" è forma sincopata per "cogliere".
  • Il testo è una celebrazione dell'amore e della bellezza femminile, nonché un invito a godere della giovinezza prima che questa fugga e sia impossibile abbandonarsi ai piaceri amorosi: il tutto è affidato alle parole di una fanciulla che si rivolge alle compagne e racconta loro una sua precedente esperienza, in cui è stata in un meraviglioso giardino (il locus amoenus della tradizione classica e stilnovista) pieno di fiori, nel pieno della primavera che è anche la stagione degli amori (maggio è poi il mese in cui solitamente sbocciano le rose). L'atmosfera è piuttosto trasognata e la scena è descritta con grande delicatezza, tanto che è difficile dire se l'esperienza narrata dalla fanciulla sia reale o soltanto un sogno. La prospettiva espressa dalle sue parole sembra piuttosto quella maschile, dal momento che l'invito a cogliere la rosa (ovvero ad approfittare della bellezza delle donne) non può che essere rivolto a degli uomini e dunque l'esortazione "cogliàn" del v. 26 va letta come "lasciamoci cogliere", cediamo all'amore dei nostri spasimanti.
  • L'accostamento tra la bellezza femminile e i fiori profumati e variopinti ha una lunghissima tradizione prima di Poliziano, anche se è sufficiente risalire allo Stilnovo: i fiori che adornano il giardino sono viole e gigli, simbolo di bellezza e purezza, mentre i colori citati (azzurro, giallo, bianco, rosso) alludono probabilmente agli elementi della fisionomia delle fanciulle, come i capelli biondi (v. 7), la carnagione chiara, le labbra. L'immagine della ragazza che riempie un lembo della veste coi fiori raccolti per farne una ghirlanda ricorda Matelda in Purg., XXVIII, a sua volta ripresa da Petrarca nel descrivere Laura (► TESTO: Chiare, fresche et dolci acque). Per la metafora fiori-bellezza femminile cfr. anche Guinizelli (► TESTO: Io voglio del ver la mia donna laudare).
  • L'invito a "cogliere la rosa" per approfittare della bellezza e dell'amore quando si è giovani giunge a Poliziano da una lunga tradizione letteraria, che identificava la rosa con la giovinezza che dura poco e svanisce presto, per cui va goduta quando è più bella e fiorita: la stessa immagine è presente nel discorso di Sacripante nel Canto I del Furioso, quando il re pagano rimpiange la bella Angelica (► TESTO: La fuga di Angelica/2), nonché nell'allocuzione del pappagallo a Carlo e Ubaldo nel canto XVI della Liberata (► TESTO: Il giardino di Armida). Le rose vengono descritte da Poliziano nei tre momenti che corrispondono alle età della donna, ovvero la prima adolescenza (quando le rose sono appena sbocciate), la giovinezza (quando distendono i petali) e la maturità (quando cominciano ad appassire).
  • Lo stesso invito a godere dell'amore finché si è giovani ricorre nel Trionfo di Bacco e Arianna di Lorenzo de' Medici (► VAI AL TESTO), in cui tuttavia esso è velato di tristezza per il pensiero del futuro, cosa che qui è totalmente assente: questo sereno abbandono ai piaceri dei sensi è il segno più evidente della novità del poeta dell'Umanesimo rispetto alla letteratura precedente, quando anche in Petrarca permaneva una certa inquietudine religiosa per la vanità degli amori terreni e dei piaceri materiali in genere.


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