Luigi Pulci
Confessione a Maria Vergine
(Conf., 1-93; 145-159)
Scritto nel 1484 dietro suggerimento del predicatore agostiniano Mariano da Gennazzano, il componimento rientra nel filone della poesia religiosa ancora attivo alla fine del XV sec. e vuol essere una sorta di ritrattazione delle idee precedentemente espresse dall'autore attraverso l'invocazione alla Vergine, peraltro in modo simile a quanto avviene in apertura dei cantari del "Morgante". Pulci compose il poemetto anche per rispondere alle critiche ricevute dal Savonarola e per sopire le polemiche con Marsilio Ficino, tuttavia alcuni videro un intento parodistico anche in questi versi.
► PERCORSO: L'Umanesimo
► AUTORE: Luigi Pulci
► PERCORSO: L'Umanesimo
► AUTORE: Luigi Pulci
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Ave, Virgo Maria, di grazia plena salve, regina, in ciel nostra avvocata, benedetta fra l'altre, nazarena che la porta del Ciel, per noi serrata, apristi, onde fu salva tanta gente, ch'era nel sen di Abram giù religata per quel peccato del primo parente, onde Idio prese nostra umanitate, per unir la natura da sé absente; e nel consiglio della Trinitate eletta sola fusti e non fra mille, ma fra tutte l'altre anime bëate. In te tutte l'angeliche faville si racceson, o Virgin glorïosa, che raccheti i Profeti e le Sibille. Tu se' madre di Dio, figliuola e sposa, coronata di Santi e di splendore; tu se' tutta pietà, non sol pietosa. Però, sì come ingrato e peccatore, a te dico mia colpa, a te confesso e riconosco il mio passato errore, nel tempo, ove io solo ingannai me stesso, ché il fren della ragion sempre non regge, da poi ch'al mio Signor non son più presso, per non servar quella seconda legge di ricordare il santo nome indarno, come spesso pur fa l'umana gregge. Però qui le mie colpe scrivo e incarno con le lacrime miste con l'inchiostro, ch'arien forza di far d'un torrente Arno, acciò che ognun che passa pel tuo chiostro a vicitare il tuo divoto altare, leggendo, per me dica un paternostro. Priega il tuo figlio che non voglia entrare col suo servo in giudizio, ché nessuno si può al conspetto suo giustificare. Vorrei delle mie colpe esser digiuno: non posso, e però temo la sua ira, recordando che in tempore opportuno la giustizia di Dio suo arco tira, perché pur sapïenti non son gli uomini: così la conscientia mi martira. Quel che Idio teme sol savio si nomini: ogni cosa ben sa chi teme Idio: initium sapientie timor Domini. Priega, madre pietosa, il figliuol pio, (se il cor contrito umilïato basta) dello eccelso raguardi il pensier mio. Accetti la mia semplice olocausta, che non fu tardi mai grazia divina; e se vento contrario pur contrasta, né posso a tempo entrar nella piscina, porga la mano a questo infermo e dica col santo verbo: «A tua posta cammina». Che colpa ho io se quella madre antica ci creò con peccati e con defetti? (Però pur la speranza mi nutrica). E la natura par che si diletti varie cose crear, diversi ingegni: a me dette per dote i miei sonetti. S'io ho della ragion passati i segni, m'accordo colla Bibbia e col Vangelo, pur che tu per le chioma mi sostegni. In principio creò la terra e 'l cielo Colui che tutto fe', poi fe' la luce e levò delle tenebre il gran velo. Perché qui contemplando mi conduce la ragion, che principio il mondo avessi e che tutto governi un sommo duce, e la natura angelica facessi per mostrar la sua gloria e farne parte e come poi Lucifero cadessi, credo e confesso; e con mirabil arte ad imagine sua plasmassi l'uomo per ristorar l'antiche sedie in parte. E comandò che non toccassi il pomo: l'anima infuse in quello razionale, onde presto natura fe' giù il tomo. E con libero arbitrio e immortale la fece: ch'al gran dì poi della tomba ne portassi col corpo il bene e 'l male, quando udirà la spaventevol tromba ch'i' credo e in Giusaffà con gli altri aspetto, anzi già negli orecchi mi rimbomba. Poi veggendo degli uomini il difetto, la legge dètte sopra Sinaì a quel buon padre sopr'ogni altro eletto. E come il mar pe' sua meriti aprì, per salvar la sua gente e Faraone annegassi e 'l suo popol, fu così come appunto la Bibbia scrive e pone e così del Diluvio e la santa arca, quando tutte periron le persone. [...] Però, donna del Ciel, s'io ben racconto, quanto più queste cose ho di te lette, tanto più cristianissimo al ciel monto. Benedetta sia tu fra l'altre elette, onorato sia il nome del tuo figlio, e per condur questa opra in Nazarette, dove tu ricevesti il santo giglio, onde alcun disse poi poetizzando «Termine fisso d'eterno consiglio». Io l'immagino sì, ch'io il veggo quando Gabriel ginocchion disse quello «Ave!» tanto dolce per noi, te nunzïando. E perché tu con quel parlar suave «Ecce ancilla Domini» accettasti, il gran Cefàs ne riporta le chiavi. [...] |
Ave, Maria Vergine piena di grazia, salve, regina, avvocata nostra nel cielo, benedetta fra le altre donne, nazarena che apristi la porta del cielo, a noi chiusa, grazie alla quale fu salvata tanta gente relegata giù nel seno di Abramo per il peccato originale di Adamo, per cui Dio prese la nostra forma umana per assumere natura assente da lui; e tu sola fosti scelta dalla saggezza della Trinità, non fra mille ma fra tutte le altre anime beate. In te si riaccendono tutte le faville degli angeli, o Vergine gloriosa, tu che acquieti i profeti e le sibille. Tu sei la madre di Dio, sua figlia e sua sposa, coronata dai santi e dallo splendore; tu non sei solo pietosa, sei la pietà in persona. Perciò io dico a te la mia colpa e a te mi confesso come ingrato e peccatore, e riconosco il mio errore passato, nel tempo in cui io solo ingannai me stesso, poiché il freno della ragione non sempre è efficace da quando non sono più vicino al mio signore, per non aver rispettato il secondo comandamento che vieta di pronunciare il nome di Dio invano, come spesso fanno gli esseri umani. Perciò io scrivo e rappresento qui le mie colpe con le lacrime mischiate all'inchiostro, che potrebbero trasformare un torrente nell'Arno, affinché ognuno che passi nella tua chiesa a venerare il tuo devoto altare, leggendo, dica per me una preghiera. Prega tuo figlio che non voglia mettersi a giudicare il suo servo [Pulci], poiché nessuno può giustificarsi al suo cospetto. Vorrei non aver commesso le mie colpe: non posso, perciò temo la sua ira, ricordando che la giustizia di Dio scaglia il suo arco al momento opportuno, perché gli uomini non sono soltanto saggi: così la coscienza mi tormenta. Colui che teme Dio si chiami pure saggio: chi teme Dio sa tutto perfettamente: "Il timore di Dio è l'inizio della sapienza". O madre pietosa, prega il tuo pietoso figlio (se il mio cuore contrito e umiliato è sufficiente) affinché guardi il mio pensiero sull'Altissimo. Accetti il mio semplice sacrificio, infatti la grazia divina non arrivò mai tardi; e se un vento ostile mi contrasta e non posso entrare per tempo nella piscina, porga la mano a questo ammalato e dica con le sante parole: "Alzati e cammina". Che colpa ne ho se quell'antica madre [Eva] ci ha creato con peccati e difetti? Perciò sono nutrito dalla speranza. E sembra che la natura si compiaccia di creare varie cose, vari ingegni: a me ha dato in dono i miei sonetti. Se io ho oltrepassato i limiti della ragione, mi accordo con la Bibbia e col Vangelo, purché tu mi sostenga per i capelli. In principio Colui che fece tutto creò la terra e il cielo, poi fece la luce e tolse il gran velo delle tenebre. Poiché la ragione contemplando mi conduce qui, io credo e confesso che il mondo abbia avuto principio e che una somma guida governi tutto, e che la natura angelica sia stata creata per mostrare la sua gloria e farne parte, e poi Lucifero cadde dal cielo; e credo che plasmasse l'uomo con arte mirabile a sua immagine, per restaurare in parte le antiche sedi. E gli ordinò di non toccare il frutto proibito: infuse nell'uomo l'anima razionale, per cui ben presto la sua natura lo fece cadere. E lo creò con libero arbitrio e immortale: stabilì poi che il giorno del giudizio portasse il bene e il male con il corpo, quando sentirà la terribile tromba che io credo e che attendo con altri nella valle di Iosafat, anzi mi rimbomba già nelle orecchie. Poi, vedendo il difetto degli uomini, diede la legge sul monte Sinai a quel buon patriarca [Mosè] scelto su tutti gli altri. E come aprì il mare per i suoi meriti, per salvare il suo popolo e far annegare Faraone e la sua gente, fu così appunto come scrive la Bibbia e così anche del diluvio e dell'arca di Noè, quando tutti gli uomini morirono [...]. Perciò, donna del Cielo, se io racconto bene tutte queste cose che ho letto su di te, salgo al cielo ancor più cristiano. Benedetta tu sia tra le altre donne, sia onorato il nome di tuo figlio, e per aver realizzato questa opera a Nazareth, dove tu ricevesti il santo giglio [fosti fecondata], cosa per cui un altro [Dante] disse in versi: "Termine fisso di una eterna saggezza". Io me lo immagino al punto che vedo l'arcangelo Gabriele in ginocchio quando disse "Ave!", dandoti l'annuncio tanto dolce per noi. E poiché tu con quelle dolci parole accettasti, dicendo "Ecco la serva di Dio", il grande Pietro tiene le chiavi del Paradiso. |
Interpretazione complessiva
- Il testo, scritto in terzine dantesche, si presenta come una solenne invocazione alla Vergine cui l'autore si rivolge per ottenerne il perdono, ricalcando in parte la tradizione dell'innografia mariana: i vv. 1-18 costituiscono una lunga apostrofe a Maria, presentata come colei che ha salvato l'umanità dal peccato originale, accettando umilmente di dare alla luce Cristo quale unione di natura umana e divina; la Vergine è definita "madre di Dio, figliuola e sposa", espressione che ricorda Par., XXXIII, 1 ("Vergine madre, figlia del tuo figlio"), mentre il v. 3 del testo dantesco è citato direttamente al v. 153 del poemetto di Pulci (► TESTO: L'invocazione alla Vergine). I vv. 19-63 rappresentano il riconoscimento delle proprie colpe da parte dell'autore, che ammette di non aver tenuto a freno la ragione e di aver nominato Dio invano, con implicito riferimento alle pagine di sapore sacrilego da lui scritte in precedenza (cfr. i molti passi del Morgante e soprattutto il sonetto Costor, che fan sì gran disputazione, in cui irrideva in modo blasfemo le dottrine neoplatoniche sull'immortalità dell'anima; ► VAI AL TESTO). Pulci scrisse la Confessione probabilmente nel 1484, su consiglio del predicatore agostiniano Mariano da Gennazzano dopo aver subìto dure critiche pubbliche da parte di G. Savonarola.
- I vv. 64 ss. più che una confessione sono un "credo", ovvero un lungo elenco di verità dottrinali di cui Pulci afferma la veridicità e ciò sicuramente per allontanare la fama di eretico che lo perseguitava da anni, tanto che dopo la morte verrà sepolto in terra sconsacrata: l'autore rammenta la creazione, il fatto che l'uomo è dotato di libero arbitrio, ricorda il peccato originale, dichiara che il giorno del giudizio i corpi risorgeranno nella valle di Iosafat e ogni anima se ne rivestirà; cita anche il fatto che Dio consegnò a Mosè le leggi del popolo ebraico e ricorda il diluvio universale come castigo inflitto agli uomini, primo esempio di un lungo elenco di episodi biblici contenuti nei vv. 94-144. Il termine finale di questa storia è naturalmente l'incarnazione di Cristo, evento centrale delle vicende umane in cui Maria ebbe un ruolo essenziale e motivo per il quale ora Pulci può osare rivolgerle questa invocazione. Il tono del poemetto è solenne e non sono visibili intenti parodistici come parve ai contemporanei di Pulci, tanto più che il testo risale probabilmente agli ultimi anni di vita dello scrittore.
- Numerose le citazioni bibliche e scritturali, a cominciare dai vv. 1-3 che ricalcano i versetti del Salve, Regina, mentre il v. 45 ("initium sapientie timor Domini") ricalca il libro dei Proverbi, 1.7; al v. 49 "olocausta" è un termine ebraico per "sacrificio a Dio", così come al v. 52 la "piscina" rimanda all'episodio evangelico della guarigione del paralitico a Betesda (Ioann., 5.1 ss.), con il v. 54 che è una traduzione delle parole di Cristo all'infermo. I vv. 88-90 ricordano Exod., 14.19 ss., mentre i vv. 154-159 parafrasano il passo evangelico in cui avviene l'annunciazione a Maria da parte dell'arcangelo Gabriele, evento centrale nell'iconografia mariana (Luc., 1.26 ss.). Al v. 159 "Cefàs" è il nome ebraico di Pietro, la "roccia" su cui Cristo pose la sua Chiesa (il nome dell'apostolo era originariamente Simone), e le chiavi sono ovviamente quelle del Paradiso tradizionalmente attribuite al primo papa.