Angelo Ambrogini (Montepulciano, 1454 - Firenze, 1494), detto il Poliziano per il nome latino del luogo natale (Mons Politianus), è stato uno dei principali poeti lirici dell'Umanesimo volgare in Italia, cresciuto alla corte medicea di Firenze dove fu, tra l'altro, amico di Lorenzo il Magnifico e precettore dei suoi figli. Autentico enfant prodige della sua epoca (a sedici anni già traduceva in latino l'Iliade), fu anche erudito e cultore della filologia classica, proseguendo l'opera intrapresa da Petrarca nel secolo precedente, nonché professore di eloquenza latina e greca nello Studio fiorentino. La sua produzione volgare comprende un poemetto mitologico incompiuto (le Stanze dedicate a Giuliano de' Medici), varie rime e canzoni a ballo, e una favola teatrale che rappresenta la prima opera di contenuto profano del nostro teatro. Come scrittore latino ci ha lasciato numerosi lavori, tra cui opere di storia, raccolte critiche e filologiche, epistole, mentre fu autore anche di versi greci. È considerato il principale umanista del Quattrocento italiano, destinato forse ad ancora maggior fortuna se la morte non lo avesse colto quarantenne.
Biografia
La formazione e il servizio ai Medici
Angelo Ambrogini nacque il 14 luglio 1454 a Montepulciano, il cui nome latino (Mons Politianus) diede origine al soprannome "Poliziano": era figlio di Antonia Salimbeni e del giurista ed egregium legum doctor Benedetto, che fu assassinato per vendetta nel 1464 lasciando la famiglia in difficili condizioni economiche (la vedova aveva cinque figli in tenera età), anche se di questo fatto tragico non c'è alcun cenno nella successiva opera dello scrittore. In seguito il giovane Angelo si trasferì a Firenze presso dei parenti e frequentò le lezioni dello Studio della città, avendo come maestri Giovanni Argiropulo, Cristoforo Landino, Marsilio Ficino e segnalandosi per la sua precoce predisposizione alle lettere. Ricevette una completa formazione culturale e apprese latino e greco, iniziando tra l'altro nel 1470 a tradurre l'Iliade in esametri latini (il lavoro rimase incompleto, dal II al V libro del poema) e diventando uno degli umanisti più brillanti e colti del XV sec.; fu presto notato da Lorenzo de' Medici, signore di Firenze, e accolto nella sua cerchia di intellettuali e artisti, diventando inoltre precettore del figlio Piero nel 1475. In questi anni compose versi greci e latini e poesie volgari, molte delle quali di carattere encomiastico e celebrative della famiglia Medici, inoltre stese intorno al 1476 l'epistola dedicatoria della cosiddetta Raccolta aragonese, l'antologia di testi poetici dalle Origini al Quattrocento inviata da Lorenzo a Federico, figlio del re di Napoli Ferdinando d'Aragona. Sempre nel 1475 iniziò a stendere le Stanze per la giostra, poemetto mitologico che intendeva celebrare la figura di Giuliano de' Medici, fratello di Lorenzo, e il suo amore per Simonetta Cattaneo, salvo interromperne la composizione nel 1478 in seguito alla tragica morte del protagonista nella congiura dei Pazzi (su questo fatto compose inoltre un Pactianae coniurationis commentarium, sorta di cronaca in latino del complotto avente come modello le opere della storiografia latina classica). Nel frattempo aveva intrapreso la carriera ecclesiastica ed era stato nominato priore, non per una sincera vocazione religiosa ma unicamente per godere di benefici economici data la sua estrema povertà (Poliziano ebbe tra l'altro varie relazioni con donne).
Il periodo mantovano e il ritorno a Firenze
Nel 1479 maturò una rottura con i Medici, dovuta probabilmente a dei contrasti con Clarice Orsini, la moglie di Lorenzo che non condivideva il taglio umanistico e laico che lui, come precettore, dava all'educazione dei figli Piero e Giovanni: Poliziano lasciò Firenze e si trasferì a Mantova, presso la corte dei Gonzaga che lo ospitarono per qualche tempo giovandosi della presenza di un illustre umanista che dava prestigio alla loro famiglia (in particolare ebbe la protezione del cardinale Francesco Gonzaga). A Mantova, probabilmente nel 1480, compose la Fabula di Orfeo, un componimento teatrale che è il primo esempio di dramma profano della nostra letteratura (non è certo se esso sia stato messo in scena a corte). In seguito si riconciliò con Lorenzo e rientrò a Firenze, dove il Magnifico gli affidò la cattedra di eloquenza greca e latina nello Studio della città e dove si dedicò a studi filologici e letterari, aventi come oggetto Quintiliano, Stazio e altri autori classici; compose anche versi latini e scrisse delle Epistolae raccolte poi in dodici libri, con cui corrispondeva con altri umanisti del tempo e in cui discuteva di questioni letterarie e filologiche (l'opera venne completata nel 1494, anno della sua morte, e pubblicata postuma in un'edizione di Aldo Manuzio del 1498). Tale intensa attività erudita fu interrotta dalla morte precoce, avvenuta per un attacco di febbre perniciosa la notte fra il 28 e il 29 settembre del 1494, e in seguito Poliziano fu celebrato dai contemporanei più come filologo e autore di versi latini che non per la sua opera volgare, che fu comunque conosciuta e apprezzata e finì per influenzare profondamente le discussioni in campo letterario del primo Cinquecento, quando Poliziano veniva considerato il più illustre degli umanisti dell'età precedente.
La concezione umanistica e le polemiche letterarie
Poliziano è stato forse il primo umanista "completo" della nostra letteratura, in quanto univa alla perfetta conoscenza del latino anche quella del greco (condizione nient'affatto scontata nel XV sec.), elaborando inoltre una concezione della produzione poetica e dell'imitazione classica estremamente rigorosa, destinata a influenzare profondamente la tradizione successiva: estremamente vario era l'insieme dei modelli classici da lui presi in esame nella creazione della sua opera, così come diversificati erano gli scrittori volgari a cui si rifaceva (tra i quali spiccava naturalmente Petrarca e la sua poesia lirica, ma anche Dante il cui esempio sarebbe stato in parte accantonato nel periodo rinascimentale per via del suo "pluristilismo"). In effetti la concezione umanistica di Poliziano era incentrata sulla varietà delle fonti e in tal senso sorsero delle polemiche letterarie con altri intellettuali del tempo, come quella famosa con Paolo Cortese (1465-1510) che sosteneva la necessità di prendere Cicerone come modello esclusivo della letteratura umanistica, al contrario di Poliziano secondo cui era invece opportuno variare le fonti e che descriveva l'attività dello scrittore come quella di un'ape, che sugge il nettare da molti fiori per produrre un miele che è solo suo. Poliziano paragona inoltre i classicisti come P. Cortese a delle scimmie e a dei pappagalli, che imitano in modo meccanico e con scarsa originalità un solo modello (► TESTO: L'imitazione classica), mentre compito dell'autore è prendere spunto, sì, dagli scrittori antichi, ma per creare un'opera nuova che non sia solo riproposizione di esempi precedenti (è chiaro che il dibattito non riguarda semplicemente la scelta dei modelli, ma il rischio che un'imitazione troppo stretta ed esclusiva vada a discapito dell'originalità, dunque della creazione artistica). In effetti tra gli autori classici oggetto di interesse di Poliziano vi erano anche scrittori della cosiddetta "latinità argentea", cioè intellettuali del tardo Impero quali Stazio, Claudiano e altri, cui egli dedicò anche approfonditi studi filologici nelle Epistolae, mentre non manca da parte sua una certa attenzione a scritti latini di carattere giuridico, nonché all'opera filosofica di Aristotele (riscoperto recentemente nel XV sec.) intorno a cui spese gli ultimi anni della sua vita.
Riguardo al rapporto con la tradizione volgare, come detto, Poliziano non individuava dei modelli esclusivi, anche se riconosceva un'indubbia superiorità al volgare toscano e soprattutto al fiorentino che aveva avuto negli autori del Trecento gli esempi più illustri (Dante, Petrarca): ciò non significa che lui ne imitasse la lingua, dal momento che il volgare di Poliziano sembra piuttosto essere quello contemporaneo che, come tale, è alquanto diverso dalla soluzione proposta poi nel Cinquecento da P. Bembo, tuttavia lo scrittore individua una "linea" evolutiva della poesia volgare e un "canone" in cui inserisce i principali autori da Dante in poi, che quindi costituiscono i suoi punti di riferimento nella creazione di opere volgari tra cui spiccano, com'è noto, le Rime e soprattutto le Stanze per la giostra. Tale linea è del resto ripresa e illustrata dall'autore nella lettera dedicatoria della Raccolta aragonese, l'antologia di testi poetici volgari che Lorenzo de' Medici inviò in dono al figlio del re Ferdinando di Napoli, testo fondamentale in quanto Poliziano vi traccia una prima essenziale storia della letteratura italiana delle Origini che, assieme al De vulgari eloquentia di Dante, rappresenta un punto di riferimento per la successiva storiografia letteraria dalla poesia volgare.
Riguardo al rapporto con la tradizione volgare, come detto, Poliziano non individuava dei modelli esclusivi, anche se riconosceva un'indubbia superiorità al volgare toscano e soprattutto al fiorentino che aveva avuto negli autori del Trecento gli esempi più illustri (Dante, Petrarca): ciò non significa che lui ne imitasse la lingua, dal momento che il volgare di Poliziano sembra piuttosto essere quello contemporaneo che, come tale, è alquanto diverso dalla soluzione proposta poi nel Cinquecento da P. Bembo, tuttavia lo scrittore individua una "linea" evolutiva della poesia volgare e un "canone" in cui inserisce i principali autori da Dante in poi, che quindi costituiscono i suoi punti di riferimento nella creazione di opere volgari tra cui spiccano, com'è noto, le Rime e soprattutto le Stanze per la giostra. Tale linea è del resto ripresa e illustrata dall'autore nella lettera dedicatoria della Raccolta aragonese, l'antologia di testi poetici volgari che Lorenzo de' Medici inviò in dono al figlio del re Ferdinando di Napoli, testo fondamentale in quanto Poliziano vi traccia una prima essenziale storia della letteratura italiana delle Origini che, assieme al De vulgari eloquentia di Dante, rappresenta un punto di riferimento per la successiva storiografia letteraria dalla poesia volgare.
La produzione lirica volgare
Benché l'attività principale di Poliziano volgesse intorno alla composizione di versi latini e greci e agli studi propriamente filologici (sui quali si veda oltre), lo scrittore si dedicò anche a versi volgari che produsse in un arco piuttosto ampio della sua vita e che comprendono Rispetti continuati e spicciolati, Ballate e Rime varie, tutte forme metriche tratte dalla tradizione popolare e i cui modelli vanno ricercati negli autori italiani del periodo delle Origini tra cui spiccano i poeti toscani, a cominciare da Dante. Lo stile è vario e ispirato all'imitazione di vari modelli, secondo la concezione umanistica dell'autore (si veda sopra), mentre lo stile dominante è ricercato e prezioso e i temi affrontati spaziano dalla celebrazione dell'amore e della caducità della vita, specie attraverso il topos letterario della rosa, all'espressione di una visione pagana e laica della vita, il tutto in un equilibrio di linguaggio e di forme che anticipa già il carattere di molta letteratura della successiva età rinascimentale. Tra i testi lirici più noti e celebrati di Poliziano si possono ricordare la cosiddetta "Ballata delle rose", in cui una giovane fanciulla descrive alle compagne un meraviglioso giardino pieno di fiori, tra cui le rose che lei invita a cogliere come simbolo della bellezza femminile e della giovinezza (► TESTO: I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino), mentre altrettanto interessante è la ballata Ben venga maggio in cui la festività popolare di Calendimaggio diventa occasione per un nuovo invito a godere della giovinezza e dell'amore finché è possibile, per cui le ragazze debbono concedersi ai loro spasimanti nella primavera che è la stagione dell'amore per eccellenza (► TESTO: Ben venga maggio). Va ricordato che il topos della rosa come emblema della bellezza destinata a sfiorire presto è ampiamente presente nella poesia dell'età umanistico-rinascimentale e ricorre sia nelle Stanze per la giostra dello stesso Poliziano, sia nel Furioso di Ariosto (nel Canto I, nel lamento di Sacripante sulla fedeltà di Angelica), sia ancora nel discorso del pappagallo sulle Isole Fortunate, nella Liberata di Tasso. Alcune delle liriche di Poliziano erano destinate all'accompagnamento musicale, aspetto interessante della compresenza di arti diverse nella produzione umanistica (lo stesso Lorenzo de' Medici si dilettava nel suonare alcuni strumenti, mentre la musica avrebbe avuto grande importanza nella società del Cinquecento).
Le Stanze per la giostra
Titolo, struttura, composizione
Intorno al 1475 Poliziano progettò un poemetto mitologico in ottave intitolato Stanze cominciate per la giostra del magnifico Giuliano di Piero de' Medici, dedicato a Giuliano, il fratello minore di Lorenzo che aveva vinto quell'anno un torneo d'armi e destinato perciò a celebrare in modo encomiastico la famiglia signorile di Firenze: l'opera rimase incompiuta a causa della morte del protagonista nel 1478 in seguito alla congiura dei Pazzi ed è formata da due libri, il primo comprendente 125 ottave e il secondo interrotto all'ottava 46 (è probabile che il testo dovesse constare di tre libri complessivi). Il poemetto, che presenta una debole trama complessiva e risulta piuttosto dalla successione di quadri lirici indipendenti, racconta dell'amore tra Giuliano (presentato con il nome letterario di Iulio) e una bellissima ninfa di nome Simonetta, dietro alla quale si cela in modo evidente Simonetta Cattaneo amata da entrambi i fratelli Medici e in onore della quale il protagonista intraprende il torneo che vincerà in suo onore, anche se questa parte dell'opera non venne completata dall'autore. Il libro non venne pubblicato da Poliziano mentre era in vita e fu poi stampato senza il suo consenso a Bologna nel 1495, l'anno seguente alla sua morte, non senza una certa manipolazione del testo da parte degli editori.
La trama
Protagonista delle Stanze è Iulio (Giuliano de' Medici), un giovane nobile che disdegna l'amore per dedicarsi solo alla caccia, cosa che irrita il dio Amore che, per vendicarsi, lo attira in un tranello: durante una battuta di caccia gli fa apparire una candida cerva, che Iulio insegue allontanandosi dai compagni finché l'animale si trasforma in una bellissima ninfa che si presenta col nome di Simonetta (Simonetta Cattaneo). Iulio, colpito dalla freccia di Amore, si innamora perdutamente della fanciulla, che però poi si allontana e costringe il giovane a tornare dai suoi compagni (► TESTO: Iulio e Simonetta). Amore torna nel regno di Venere e qui c'è una lunga descrizione del giardino e del palazzo della dea (► TESTO: Il regno di Venere), finché il figlio raggiunge la madre che si è appena separata dal dio Marte. All'inizio del libro II Amore rivela alla madre Venere la propria impresa, descrivendo la nobiltà di Iulio e del fratello Lorenzo, con una celebrazione encomiastica di tutta la famiglia Medici (► TESTO: La celebrazione dei Medici). In seguito Simonetta appare a Iulio in un sogno suscitato da Venere, in cui la donna si difende dall'amore con le armi di Minerva per poi cedere di fronte all'intervento della Poesia, della Gloria e della Storia: Iulio capisce che per conquistare l'amore di Simonetta dovrà compiere imprese gloriose, ma giunto a questo punto il poemetto si interrompe.
Stile e modelli
L'opera propone una elegante e raffinata evasione dalla società rinascimentale del tardo XV sec., attraverso una favola mitologica in cui i personaggi reali assumono una sorta di travestimento e vivono un'avventura che sfugge agli schemi della vita reale delle corti: da questo punto di vista le Stanze inaugurano un nuovo genere poetico che ha pochissimi esempi nella letteratura volgare precedente e anticipano forme e temi che saranno ripresi dalla poesia del Cinque-Seicento, specie nella favola pastorale e nella produzione arcadica. Al centro del poemetto vi è senza dubbio la celebrazione encomiastica della famiglia Medici attraverso il valore e l'eroismo di Iulio, benché tale parte non sia poi stata ultimata, ma anche l'amore viene presentato come forza positiva che muove il mondo, specie con la figura di Simonetta che si mostra nelle vesti classiche di una ninfa ed è descritta come una donna reale, protagonista di un amore sensuale cui i personaggi si abbandonano serenamente (la giovane è in fondo l'evoluzione della Laura protagonista del Canzoniere petrarchesco, mentre ha pochissimi legami con la donna-angelo della tradizione stilnovista). Il tutto è descritto da Poliziano con una grazia raffinata e con uno stile conforme alla sua concezione classicista, che si rifà pertanto a vari modelli sia della tradizione latina (Virgilio, gli elegiaci, ma anche Stazio, Claudiano...) sia di quella volgare (specie Dante e Petrarca, dei quali riprende in vario modo l'allegorismo e la simbologia relativa al palazzo di Venere, soprattutto in riferimento ai Trionfi petrarcheschi). Il linguaggio è il fiorentino della tradizione letteraria arricchito di prestiti dal parlato e dalla lingua del tardo Quattrocento (sul punto si veda oltre), mentre una certa abbondanza di termini aulici derivati dal latino impreziosiscono il lessico in direzione del classicismo, dunque con una maggiore ricercatezza rispetto ad alcune liriche. Da ricordare infine che l'eleganza di certi episodi dell'opera ricorda molto quella di alcuni dipinti di Botticelli, l'artista più vicino alla dimensione culturale di Poliziano, mentre è indubbio che lo stesso Botticelli abbia tratto ispirazione da un passo delle Stanze (I, 99-100, la descrizione del palazzo di Venere) nel realizzare il suo dipinto più celebre, la Nascita di Venere.
La Fabula di Orfeo
Si tratta del primo testo teatrale della nostra tradizione di argomento profano, elaborato da Poliziano intorno al 1480 (durante il soggiorno a Mantova presso la corte dei Gonzaga, in seguito alla momentanea rottura coi Medici) e forse rappresentato a corte, benché di questo particolare non siamo informati: l'opera non rientra ancora in un genere scenico ben preciso e non è suddivisa in atti, limitandosi a presentare i vari personaggi che agiscono sulla scena e interpretano dialoghi e monologhi, senza tuttavia una struttura simile alle tragedie e commedie che verranno elaborate nel teatro del Cinquecento. Il titolo stesso, Fabula, richiama in modo generico l'aspetto narrativo della vicenda, che viene peraltro tratta dal mito classico e in particolare dai poeti latini che la descrissero nelle loro opere, specialmente Virgilio nel libro IV delle Georgiche e Ovidio nel libro X delle Metamorfosi. La trama riassume la triste vicenda del poeta tracio Orfeo, sposato con la bellissima Euridice che un giorno, sfuggendo al pastore Aristeo che vuole approfittare di lei, viene morsa da un serpente e muore: il marito, disperato per la sua perdita, scende negli Inferi e col suo canto melodioso commuove il dio Pluto (Plutone) e tutte le divinità dell'Oltretomba, ottenendo il permesso di riportare la moglie nel mondo a condizione di non voltarsi mai a guardarla durante il cammino (la donna dovrà infatti seguirlo). Orfeo tuttavia non resiste alla tentazione di guardare Euridice e la moglie viene riportata negli Inferi, venendo persa per sempre dall'uomo. Orfeo, nuovamente disperato, dichiara di non volersi più innamorare e la cosa irrita le Baccanti (le sacerdotesse del dio Bacco), che per punirlo lo fanno a pezzi e spargono i suoi resti nella campagna (► TESTO: Orfeo scende agli Inferi). Il testo, dotato di una debole trama complessiva e che presenta in realtà alcuni quadri staccati (in modo simile alle Stanze), è interessante non solo in quanto inaugura il teatro di argomento non sacro nel Quattrocento, ma anche per la grazia delicata in cui si muovono i personaggi e per la celebrazione dell'alto valore della poesia, attuata attraverso la vicenda emblematica di Orfeo che, già nel mito classico, era presentato come il cantore in grado di ammansire le belve e smuovere i sassi con la sua musica (in realtà l'aspetto propriamente religioso della sua figura non è affrontato dall'autore). La vicenda di Orfeo è anche una celebrazione dei valori pagani della vita e della dimensione terrena dell'esistenza, in maniera conforme al resto della produzione di Poliziano e con una notevole distanza rispetto al teatro di argomento sacro del XV sec., le "sacre rappresentazioni" che saranno quasi del tutto abbandonate dalla letteratura del Rinascimento. La lingua non è molto diversa da quella usata nelle altre poesie, specie nelle Rime, anche se nell'Orfeo vi sono alcuni termini popolari e addirittura pochi versi che riproducono la parlata di un "pastore schiavone", proveniente cioè dalla Dalmazia (con una maggiore libertà e varietà, dunque, rispetto alle Stanze; sul punto si veda oltre).
I versi latini e greci; gli scritti eruditi
La produzione volgare rappresenta in realtà una parte molto piccola dell'attività letteraria di Poliziano, che si dedicò prevalentemente alla scrittura di versi classici (in latino e greco, lingua quest'ultima che il poeta padroneggiava assai bene) e agli scritti di critica letteraria ed erudizione, specie dopo il 1480 quando, rientrato a Firenze, ottenne la cattedra di Eloquenza greca e latina nello Studio cittadino e abbandonò quasi del tutto la composizione di opere originali di poesia. Negli anni giovanili compose alcuni epigrammi in greco antico e sempre nel primissimo periodo va ricordata la traduzione in esametri latini dell'Iliade (libri II-V), intrapresa a sedici anni di età e non portata a termine (il libro I era già stato tradotto da Carlo Marsuppini); scrisse inoltre epicedi, elegie amorose, odi e invettive, tutte variamente ispirate a diversi modelli latini classici e post-classici (in base alla sua personale concezione dell'imitazione, in polemica ad es. con Paolo Cortese; sul punto si veda sopra). In latino scrisse anche nel 1478 un Pactianae coniurationis commentarium ("Commentario sulla congiura dei Pazzi"), fedele resoconto della cospirazione avvenuta in quell'anno e in cui era stato ucciso Giuliano de' Medici, ispirato alla storiografia dell'età di Cesare (specie al De Catilinae coniuratione di Sallustio) e contenente una celebrazione encomiastica della figura di Lorenzo, di cui viene esaltato l'equilibrio e la fermezza di uomo di Stato.
Gli scritti critici si concentrano, come detto, soprattutto nel periodo 1480-1494 e quale professore dello Studio fiorentino Poliziano scrisse alcune prolusioni latine (lezioni di analisi e approfondimento) su diversi autori della latinità aurea e argentea, alcune in prosa (importanti quelle dedicate a Quintiliano e alle Sylvae di Stazio) e altre in poesia (le quattro Sylvae). Mise insieme anche una Miscellaneorum centuria prima, raccolta di cento discussioni su problemi di filologia classica (1489), mentre una seconda centuria non fu condotta a termine ed è stata pubblicata solo in tempi relativamente recenti. Poliziano affrontò anche una quantità di questioni di filologia nei 12 libri di Epistolae latine, in cui corrispondeva con altri umanisti del suo tempo e che vennero stampate postume nel 1498, non senza profondi rimaneggiamenti da parte dell'editore Aldo Manuzio (famose le lettere con scambi di opinioni e polemiche tra lui e l'umanista Paolo Cortese; ► TESTO: L'imitazione classica).
Gli scritti critici si concentrano, come detto, soprattutto nel periodo 1480-1494 e quale professore dello Studio fiorentino Poliziano scrisse alcune prolusioni latine (lezioni di analisi e approfondimento) su diversi autori della latinità aurea e argentea, alcune in prosa (importanti quelle dedicate a Quintiliano e alle Sylvae di Stazio) e altre in poesia (le quattro Sylvae). Mise insieme anche una Miscellaneorum centuria prima, raccolta di cento discussioni su problemi di filologia classica (1489), mentre una seconda centuria non fu condotta a termine ed è stata pubblicata solo in tempi relativamente recenti. Poliziano affrontò anche una quantità di questioni di filologia nei 12 libri di Epistolae latine, in cui corrispondeva con altri umanisti del suo tempo e che vennero stampate postume nel 1498, non senza profondi rimaneggiamenti da parte dell'editore Aldo Manuzio (famose le lettere con scambi di opinioni e polemiche tra lui e l'umanista Paolo Cortese; ► TESTO: L'imitazione classica).
La lingua di Poliziano
Nel Quattrocento non era ancora sorta propriamente una "questione della lingua" quale poi sarebbe stata affrontata nel Rinascimento, per cui le scelte linguistiche dei vari autori volgari sono frutto di posizioni personali e non sempre rispecchiano l'orientamento in senso "trecentesco" che in seguito verrà elaborato da P. Bembo: la cosa vale ovviamente anche per Poliziano, il quale compone le sue opere volgari usando il fiorentino contemporaneo sia pure depurato degli elementi più gergali e popolari, dunque con un atteggiamento non molto diverso da quello adottato da Lorenzo de' Medici e da Pulci (benché quest'ultimo, com'è noto, praticasse uno sperimentalismo più accentuato che aveva influenzato lo stesso Lorenzo nel primo periodo). In generale la lingua usata da Poliziano è varia e non di rado accanto a forme propriamente letterarie coesistono forme "concorrenti" che derivano dal fiorentino contemporaneo o popolare, come ad es. il plurale "le nave" o il sostantivo "grillanda" (in luogo del più letterario "ghirlanda") che a volte sono usate nello stesso testo, anche se spesso l'autore fa scelte di tipo "conservativo" e aulico nelle Stanze, sentite come un'opera più impegnata e di alto livello, mentre le forme più innovative e popolari abbondano nelle Rime e nell'Orfeo. Nelle Stanze, inoltre, il lessico è spesso impreziosito da termini classicheggianti o addirittura da latinismi (ad es. "teda" per "torcia", "lento" per "flessibile", ecc.), decisamente più rari nelle altre opere, mentre una maggiore libertà si registra nell'Orfeo, con termini più espressivi e gergali (es. "gavazzarsi", gioire) e addirittura alcuni versi che riproducono la parlata croata attribuita a un "pastore schiavone", che invoca l'arrivo sulla Terra di Mercurio ("State tenta, bragata! Bono argurio, / ché di cievol in terra vien Marcurio"). È ovvio che una lingua così composita e varia, anche se in minor misura rispetto ad altri autori del Quattrocento, non riscontrò l'approvazione di Bembo e degli altri intellettuali del Rinascimento ed è per questo che Poliziano finì per essere trascurato come possibile modello linguistico, mentre le Stanze (praticamente la sola sua opera volgare conosciuta e apprezzata nel XVI sec.) vennero stampate e circolarono in copie "ripulite" linguisticamente, destino che toccò del resto a molti altri autori nel periodo rinascimentale, primo fra tutti Boiardo.