Letteratura italiana
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Francesco Petrarca


La morte di Laura
(Triumphus mortis, I, 72-138)

Mentre torna in Provenza dopo aver sconfitto l'Amore, Laura incontra una donna vestita di nero (la Morte, qui rappresentata dalla peste) che le preannuncia la sua fine, al che la donna si dice pronta a sottomettersi alla volontà divina: la Morte le strappa dalla testa un capello biondo, causando così il trapasso della donna amata dal poeta che muore il giorno stesso (6 aprile) in cui era avvenuto il primo incontro fra i due. Il brano è anche una sconsolata riflessione sulla caducità della vita umana e sulla vanità dei beni terreni di fronte alla sciagura della peste, in cui è interessante la compresenza di elementi di derivazione classica e di riferimenti alla letteratura religiosa e devota del Due-Trecento.

► PERCORSO: La lirica amorosa
► AUTORE: Francesco Petrarca




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Così rispose: ed ecco da traverso
piena di morti tutta la campagna,
che comprender nol pò prosa né verso;

da India, dal Cataio, Marrocco e Spagna
el mezzo avea già pieno e le pendici
per molti tempi quella turba magna.

Ivi eran quei che fur detti felici,
pontefici, regnanti, imperadori;
or sono ignudi, miseri e mendici.

U’ sono or le ricchezze? u’ son gli onori
e le gemme e gli scettri e le corone
e le mitre e i purpurei colori?

Miser chi speme in cosa mortal pone
(ma chi non ve la pone?), e se si trova
a la fine ingannato è ben ragione.

O ciechi, el tanto affaticar che giova?
Tutti tornate a la gran madre antica,
e ’l vostro nome a pena si ritrova.

Pur de le mill’ è un’utile fatica,
che non sian tutte vanità palesi?
Chi intende a’ vostri studii sì mel dica.

Che vale a soggiogar gli altrui paesi
e tributarie far le genti strane
cogli animi al suo danno sempre accesi?

Dopo l’imprese perigliose e vane,
e col sangue acquistar terre e tesoro,
vie più dolce si trova l’acqua e ’l pane,

e ’l legno e ’l vetro che le gemme e l’oro.
Ma per non seguir più sì lungo tema,
tempo è ch’io torni al mio primo lavoro.

I’ dico che giunta era l’ora estrema
di quella breve vita glorïosa,
e ’l dubbio passo di che ’l mondo trema,

et a vederla un’altra valorosa
schiera di donne non dal corpo sciolta,
per saper s’esser pò Morte pietosa.

Quella bella compagna era ivi accolta
pure a vedere e contemplare il fine
che far convensi, e non più d’una volta:

tutte sue amiche e tutte eran vicine.
Allor di quella bionda testa svelse
Morte co la sua mano un aureo crine:

così del mondo il più bel fiore scelse,
non già per odio, ma per dimostrarsi
più chiaramente ne le cose eccelse.

Quanti lamenti lagrimosi sparsi
fur ivi, essendo que’ belli occhi asciutti
per ch’io lunga stagion cantai et arsi!

E fra tanti sospiri e tanti lutti
tacita e sola lieta si sedea,
del suo ben viver già cogliendo i frutti.

- Vattene in pace, o vera mortal dea! -
diceano; e tal fu ben, ma non le valse
contra la Morte in sua ragion sì rea.

Che fia de l’altre, se questa arse et alse
in poche notti e sì cangiò più volte?
O umane speranze cieche e false!

Se la terra bagnar lagrime molte
per la pietà di quella alma gentile,
chi ’l vide il sa; tu ’l pensa che l’ascolte.

L’ora prima era, il dì sesto d’aprile,
che già mi strinse, et or, lasso, mi sciolse:
come Fortuna va cangiando stile!

Nessun di servitù giammai si dolse,
né di morte, quant’io di libertate
e de la vita ch’altri non mi tolse.
Così Laura rispose [alla Morte]: ed ecco la campagna piena di morti da un capo all'altro, al punto che non si può descrivere né in prosa né in poesia;


quella folla enorme [di morti] venuta dall'India, dal Catai, dal Marocco, dalla Spagna aveva già riempito da ogni epoca la pianura e le pendici dei monti.
Qui c'erano quelli che furono detti felici, papi, re e imperatori; ora sono nudi, miseri e poveri.


Dove sono ora le ricchezze? dove sono gli onori, le gemme, gli scettri e le corone, le mitre e i mantelli rosso porpora?


È misero chi ripone speranza nelle cose mortali (ma chi non lo fa?), e se alla fine ne è ingannato ciò avviene giustamente.


O uomini ciechi, a che vi serve affaticarvi tanto? Tutti siete destinati a tornare alla vostra antica madre [alla terra], e il vostro nome si ricorderà a malapena.
Delle mille fatiche degli uomini ve n'è almeno una che sia utile, cosicché non appaiano tutte evidenti vanità? Chi si dedica alle vostre occupazioni me lo dica.

A che serve sottomettere altri paesi e rendere tributari i popoli stranieri, avendo l'animo sempre rivolto al proprio danno?


Dopo le imprese vane e pericolose, e aver acquistato a prezzo di sangue terre e ricchezze, ci sembrano assai più dolci l'acqua e il pane, e il legno e il vetro, piuttosto che le gemme e l'oro. Ma per non dilungarmi oltre in un tema così impegnativo, è tempo che torni al mio primo argomento [la morte di Laura].



Io dico che era giunta l'ultima ora di quella breve e gloriosa vita, e il passo dubbioso che il mondo teme, ed era giunta un'altra valorosa schiera di donne ancora vive, per sapere se la Morte potesse essere pietosa.




Quella bella compagnia era raccolta qui anche per vedere e contemplare la fine [della vita] che deve giungere, e solamente una volta:


erano tutte sue amiche e le stavano tutte vicine. Allora la Morte strappò con la sua mano un biondo capello da quella bionda testa:


così scelse il più bel fiore del mondo, non per odio, ma per farsi vedere in modo più evidente nelle cose più alte.

Quanti lamenti e lacrime furono sparse in quel momento, mentre quei begli occhi [di Laura] per cui io cantai e amai per lungo tempo restavano asciutti!

E tra tanti sospiri e tanto lutto lei sedeva silenziosa e sola, già cogliendo i frutti della sua vita virtuosa.


- Vattene in pace, o autentica dea mortale! - le dicevano; e fu una cosa giusta, ma non le servì a niente contro la Morte che era così ingiusta pur avendo ragione.

Che sarà delle altre donne, se questa bruciò e si ghiacciò [a causa della peste] e si trasformò più volte in poche notti? O speranze umane cieche e fasulle!

Se molte lacrime bagnarono la terra per pietà di quell'anima nobile, lo sa chi lo vide; tu, che lo ascolti, pensalo.

Era l'ora prima [l'alba] del 6 aprile, lo stesso momento che mi strinse a Laura e ora, ahimè, me ne separa: ecco come il destino cambia il suo atteggiamento!

Nessuno mai si lamentò della sua schiavitù né della morte, quanto mi lamentai della mia libertà e della vita che la Morte non mi tolse [essendo io sopravvissuto a Laura].


Interpretazione complessiva

  • Il brano descrive la morte di Laura a causa dell'epidemia di peste del 1348, avvenuta secondo la ricostruzione dell'autore all'alba del 6 aprile (quindi nello stesso giorno in cui c'era stato il loro primo incontro nel 1327, nella chiesa di S. Chiara ad Avignone): il dettaglio è probabilmente frutto di una rielaborazione letteraria, così come l'intera scena che è inserita in un impianto allegorico, con la Morte descritta come una donna nerovestita che si avvicina a Laura e le preannuncia il trapasso imminente, e con la donna che si sottomette umilmente alla volontà di Dio. Il passo contiene numerosi riferimenti alla letteratura classica, a cominciare dal particolare della Morte che strappa un capello biondo di Laura che rimanda a Virgilio (Eneide, IV, 693-705), quando la dea Iride fa la stessa cosa per porre fine all'agonia di Didone che si è trafitta con la spada dono di Enea; la morte di Laura è tuttavia assai più serena dell'eroina virgiliana, poiché essa mantiene gli "occhi asciutti" e non piange come le altre donne presenti, inoltre accetta la volontà di Dio preparandosi a cogliere il frutto della sua vita virtuosa, venendo in seguito descritta come beata.
  • I vv. che descrivono la morìa causata dall'epidemia di peste si rifanno alla tradizione della poesia religiosa del Duecento, sottolineando la vanità delle ambizioni umane e della vita dei potenti di fronte alla malattia e alla morte: in particolare, i vv. 82-84 riprendono il tema classico dell'ubi sunt? presente in molte liriche medievali come rimpianto del passato e meditazione sulla transitorietà della vita, di cui si hanno esempi anche in Dante (Purg., XIV, 97-99 dove Guido del Duca piange la scomparsa dell'antica cortesia) e nel poeta francese del Trecento François Villon, nella Ballade des dames du temps jadis. Il v. 103 invece ("I’ dico che giunta era l’ora estrema") sarà invece ripreso da Torquato Tasso nella descrizione della morte di Clorinda, nel canto XII della Gerusalemme liberata ("Ma ecco omai l’ora fatale è giunta / che ’l viver di Clorinda al suo fin deve"; ► TESTO: Il duello di Tancredi e Clorinda).


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