Letteratura italiana
  • Home
  • Percorsi
    • Le Origini >
      • Morte di Orlando
      • Lancillotto e Ginevra
      • Amore di terra lontana
      • Su quest'arietta leggiadra
    • La poesia religiosa >
      • I tormenti infernali
      • Cantico delle creature
      • Donna de Paradiso
      • O Signor, per cortesia
    • La poesia comica >
      • Rosa fresca aulentissima
      • In un boschetto trova' pasturella
      • Becchin'amor
      • S'i' fosse foco
      • Tre cose solamente
      • Oi dolce mio marito Aldobrandino
      • E di febbrai' vi dono bella caccia
    • La lirica amorosa >
      • Pir meu cori alligrari
      • Meravigliosamente
      • Amore è uno desio
      • Pero c'Amore non si po vedere
      • Voi, ch'avete mutata la mainera
      • Spietata donna e fera
      • Ahi lasso, or è stagion de doler tanto
      • Al cor gentil rempaira sempre amore
      • Io voglio del ver la mia donna laudare
      • Lo vostro bel saluto
      • Omo ch'è saggio non corre leggero
      • Chi è questa che ven
      • Voi che per li occhi mi passaste 'l core
      • Perch'i' no spero di tornar giammai
      • Io fu’ ’n su l’alto e ’n sul beato monte
    • La prosa del XIII-XIV sec. >
      • Le prepotenze dei guelfi neri
      • Tristano e Isotta
      • Dolcibene a Padova
    • L'Umanesimo >
      • I piaceri del corpo
      • L'uomo è padrone del suo destino
      • Le brache di san Griffone
      • Selvaggio e Ergasto
    • Il Rinascimento >
      • Le virtù del perfetto cortigiano
      • L'arte della conversazione
      • La lingua dei morti
      • Crin d'oro crespo
      • Quantunche ’l tempo
      • Mentre io vissi qui in voi
      • Il suicidio di Sofonisba
      • Il prologo della Calandria
      • L'inganno di Fessenio
      • Romeo e Giulietta
      • Chiome d'argento fino
      • L'educazione sentimentale di Pippa
      • Il proemio del Baldus
      • Il ritratto di Cingar
    • La Controriforma >
      • Difesa di Copernico
      • La Città del Sole
      • A' poeti
      • Lo Stato confessionale
      • I consigli del cardinal Soderini
      • Machiavelli in Parnaso
      • Gli occhiali di Tacito
    • Il Barocco
    • Il Romanticismo
  • Autori
    • Dante Alighieri >
      • Guido, i' vorrei
      • Chi udisse tossir la malfatata
      • Cosi nel mio parlar voglio esser aspro
      • Tre donne intorno al cor
      • La celebrazione del volgare
      • Amor che ne la mente mi ragiona
      • Definizione del volgare illustre
      • Papato e Impero
      • Dante ad Arrigo VII di Lussemburgo
      • Dante all'amico fiorentino
    • Francesco Petrarca >
      • L'ascensione del Monte Ventoso
      • L'amore per Laura
      • Elogio dell'uomo solitario
      • La morte di Laura
    • Giovanni Boccaccio >
      • L'amore di Florio e Biancifiore
      • L'amore di Fiammetta
      • Africo e Mensola
      • La bellezza artificiale delle donne
    • Lorenzo de Medici >
      • Nencia da Barberino
      • O chiara stella, che coi raggi tuoi
      • Il lamento di Corinto
      • Trionfo di Bacco e Arianna
    • Angelo Poliziano >
      • L'imitazione classica
      • I' mi trovai, fanciulle
      • Ben venga maggio
      • Iulio e Simonetta
      • Il regno di Venere
      • La celebrazione dei Medici
      • Orfeo scende agli Inferi
    • Luigi Pulci >
      • Beca da Dicomano
      • Costor, che fan sì gran disputazione
      • Confessione
      • Il proemio del Morgante
      • Incontro con Margutte
      • Morgante e Margutte all'osteria
      • Morte di Margutte
      • Le colonne d'Ercole
      • Il tegame di Roncisvalle
    • Matteo Maria Boiardo >
      • Amor, che me scaldava
      • Tra il Sonno e Amor
      • Ne la proterva età
      • Il proemio dell'Orlando innamorato
      • L'apparizione di Angelica
      • La morte di Argalia
      • Il duello di Orlando e Agricane
      • L'amore di Rugiero e Bradamante
    • Ludovico Ariosto >
      • O sicuro, secreto e fido porto
      • Se mai cortese fusti
      • La vita del cortigiano
      • La felicità delle piccole cose
      • Fazio, il vecchio avaro
      • Corbolo, il servo astuto
      • Lena, la prostituta orgogliosa
      • Lettera a Benedetto Fantino
      • Un rimedio miracoloso
    • Niccolò Machiavelli >
      • Lettera a Francesco Vettori
      • L'evoluzione degli Stati
      • Religione e politica
      • L'importanza delle artiglierie
      • I condottieri e la fortuna
      • L'appello finale di Fabrizio Colonna
      • L'amore di Callimaco
      • Fra Timoteo e Lucrezia
      • Il finale della Mandragola
      • Belfagor arcidiavolo
    • Francesco Guicciardini >
      • Contro l'astrologia
      • Il problema degli eserciti
      • Simulazione e dissimulazione
      • Contro la Chiesa
      • L'ambizione
      • Discrezione e fortuna
      • La tirannide
      • I consiglieri del principe
      • Il proemio della Storia d'Italia
      • La morte di Alessandro VI
      • Le scoperte geografiche
    • Torquato Tasso >
      • L'incendio, onde tai raggi
      • Qual rugiada o qual pianto
      • Canzone al Metauro
      • Silvia e Dafne
      • O bella età de l'oro
      • Il monologo del satiro
      • Il finale dell'Aminta
      • Il padre di famiglia
      • Lettera a Scipione Gonzaga
      • Il finale del Re Torrismondo
    • Giacomo Leopardi
  • Opere
    • Divina Commedia >
      • Paolo e Francesca
      • L'azione della fortuna
      • Dante e Farinata degli Uberti
      • Pier della Vigna
      • Il folle viaggio di Ulisse
      • Il canto di Casella
      • L'invettiva all'Italia
      • Dante e Bonagiunta
      • Dante e Guinizelli
      • Virgilio e Dante alle soglie dell'Eden
      • L'incontro con Matelda
      • La vita di S. Francesco
      • L'invettiva di S. Pietro
      • L'invocazione alla Vergine
    • Vita nuova >
      • Il Proemio della Vita nuova
      • Il primo incontro con Beatrice
      • A ciascun'alma presa
      • La donna-schermo
      • Donne ch'avete intelletto d'amore
      • Amore e 'l cor gentil
      • Ne li occhi porta la mia donna Amore
      • Tanto gentile e tanto onesta pare
      • Era venuta ne la mente mia
      • Videro li occhi miei quanta pietate
      • Oltre la spera
      • La conclusione della Vita nuova
    • Canzoniere >
      • Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono
      • Era il giorno ch'al sol si scoloraro
      • Movesi il vecchierel canuto et biancho
      • Solo et pensoso
      • L'oro et le perle
      • Ne la stagion che 'l ciel rapido inchina
      • Erano i capei d'oro a l'aura sparsi
      • Piangete, donne, et con voi pianga Amore
      • Chiare, fresche et dolci acque
      • Italia mia, benché 'l parlar sia indarno
      • Di pensier in pensier, di monte in monte
      • Fiamma dal ciel su le tue treccie piova
      • O cameretta che già fosti un porto
      • La vita fugge, et non s'arresta una hora
      • Tutta la mia fiorita et verde etade
      • I' vo piangendo i miei passati tempi
      • Vergine bella, che di sol vestita
    • Decameron >
      • La peste a Firenze
      • Ser Ciappelletto
      • Andreuccio da Perugia
      • Masetto da Lamporecchio
      • La novella delle papere
      • Tancredi e Ghismunda
      • Federigo degli Alberighi
      • Guido Cavalcanti
      • Frate Cipolla
      • Peronella
      • Calandrino e l'elitropia
      • La badessa e le brache
      • Griselda
    • Orlando furioso >
      • Il proemio dell'Orlando furioso
      • La fuga di Angelica/1
      • La fuga di Angelica/2
      • La fuga di Angelica/3
      • Orlando e l'archibugio
      • L'abbandono di Olimpia
      • L'orca di Ebuda
      • Il castello di Atlante
      • Mandricardo e Doralice
      • L'assedio di Parigi
      • Cloridano e Medoro
      • L'amore di Angelica e Medoro
      • La follia di Orlando
      • La morte di Isabella
      • Orlando e Angelica a Tarragona
      • Astolfo sulla Luna
      • Il duello di Ruggiero e Rodomonte
    • Il principe >
      • La lettera dedicatoria
      • L'incipit del Principe
      • I grandi esempi del passato
      • L'esempio di Cesare Borgia
      • Il conflitto sociale
      • Le milizie mercenarie
      • La verità effettuale
      • La volpe e il leone
      • L'immagine pubblica del potere
      • Il principe e gli adulatori
      • L'origine della crisi italiana
      • Il principe e la fortuna
      • L'esortazione finale ai Medici
    • Gerusalemme liberata >
      • Il proemio della Gerusalemme liberata
      • Olindo e Sofronia
      • Scontro fra Tancredi e Clorinda
      • Il concilio infernale
      • Armida al campo dei Crociati
      • Erminia tra i pastori
      • Il duello di Tancredi e Clorinda
      • Tancredi nella selva di Saron
      • Il giardino di Armida
      • L'amore di Rinaldo e Armida
      • L'abbandono di Armida
      • Rinaldo vince gli incanti della selva
      • Il duello di Tancredi e Argante
      • Erminia soccorre Tancredi
      • La conversione di Armida
    • Canti >
      • Canto notturno di un pastore errante dell'Asia
    • Operette morali >
      • Dialogo della Natura e di un Islandese
  • Testi
  • Schede
    • Amor cortese
    • Il diavolo
    • La tenzone
    • Stazio poeta cristiano
    • De vulgari eloquentia
    • La figura femminile
    • Armi da fuoco e cavalleria
    • Magia e astrologia
    • La scoperta del Nuovo Mondo
  • Video
    • Il nome della rosa
    • Francesco
    • Marco Polo
    • Gassman legge Dante (Par. XXXIII)
    • Decameron (film)
    • Orlando furioso (televisione)
    • Il mestiere delle armi
    • La mandragola
    • Il madrigale di Monteverdi

Giovanni Boccaccio


La peste a Firenze
(Decameron, I, Introduzione)

Nelle pagine introduttive alla prima Giornata del "Decameron" Boccaccio descrive l'epidemia di peste che sconvolse Firenze nel 1348, un "orrido cominciamento" che spiega il motivo per cui i dieci novellatori si incontrano nella chiesa di S. Maria Novella e decidono di lasciare la città, giustificando la ragion d'essere delle novelle. Il pezzo di apertura dell'opera è uno scenario grandioso della terribile pestilenza, in cui però prevale un senso di sbigottimento attonito per il flagello e permane il dubbio se ciò sia dovuto alla punizione divina o a qualche maligno influsso astrale, anticipando già la mentalità laica e moderna che dominerà in larga parte il libro.

► PERCORSO: La prosa del XIII-XIV sec.
► AUTORE: Giovanni Boccaccio
► OPERA: Decameron









5




10




15




20




25




30




35




40




45




50





55




60




65




70




75




80




85




90




95




100


Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto [1], quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de’ corpi superiori [2] o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’inumerabile quantità de’ viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata.
E in quella non valendo alcuno senno né umano provedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali [3] sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate, in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare. E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era manifesto segno di inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella [4] certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun’ altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli. [5] E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui [6] grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno.
A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che natura del malore nol patisse o che la ignoranza de’ medicanti (de’ quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che si movesse e per consequente debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra ’l terzo giorno dalla apparizione de’ sopra detti segni, chi più tosto e chi meno e i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano.
E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per lo comunicare insieme s’avventava a’ sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate. E più avanti ancora ebbe di male: ché non solamente il parlare e l’usare cogli infermi dava a’ sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator transportare.
Maravigliosa cosa è da udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da’ miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fededegna persona udito l’avessi. Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non solamente l’uomo all’uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi miei, sì come poco davanti è detto, presero tra l’altre volte un dì così fatta esperienza: che, essendo gli stracci d’un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via publica e avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il lor costume prima molto col grifo e poi co’ denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra.
Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure e immaginazioni in quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e così faccendo, si credeva ciascuno medesimo salute acquistare. [...]
E come che questi così variamente oppinanti [7] non morissero tutti, non per ciò tutti campavano: anzi, infermandone di ciascuna molti e in ogni luogo, avendo essi stessi, quando sani erano, essemplo dato a coloro che sani rimanevano, quasi abbandonati per tutto languieno. E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne
’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano.
Per la qual cosa a coloro, de’ quali era la moltitudine inestimabile, e maschi e femine, che infermavano, niuno altro sussidio rimase che o la carità degli amici (e di questi fur pochi) o l’avarizia de’ serventi, li quali da grossi salari e sconvenevoli tratti [8] servieno, quantunque per tutto ciò molti non fossero divenuti: e quelli cotanti erano uomini o femine di grosso ingegno [9], e i più di tali servigi non usati, li qual niuna altra cosa servieno che di porgere alcune cose dagl’infermi addomandate o di riguardare quando morieno; e, servendo in tal servigio, sé molte volte col guadagno perdeano.
E da questo essere abbandonati gli infermi da’ vicini, da’ parenti e dagli amici e avere scarsità di serventi, discorse uno uso quasi davanti mai non udito: che niuna, quantunque leggiadra o bella o gentil donna fosse, infermando, non curava d’avere a’ suoi servigi uomo, egli si fosse o giovane o altro, e a lui senza alcuna vergogna ogni parte del corpo aprire non altrimenti che a una femina avrebbe fatto, solo che la necessità della sua infermità il richiedesse; il che, in quelle che ne guerirono, fu forse di minore onestà, nel tempo che succedette, cagione. E oltre a questo ne seguio la morte di molti che per avventura, se stati fossero atati [10], campati sarieno; di che, tra per lo difetto degli opportuni servigi, li quali gl’infermi aver non poteano, e per la forza della pestilenza, era tanta nella città la moltitudine che di dì e di notte morieno, che uno stupore era a udir dire, non che a riguardarlo. Per che, quasi di necessità, cose contrarie a’ primi costumi de’ cittadini nacquero tra quali rimanean vivi. [...]
E acciò che dietro a ogni particularità le nostre passate miserie per la città avvenute più ricercando non vada, dico che, così inimico tempo correndo per quella, non per ciò meno d’ alcuna cosa risparmiò il circustante contado, nel quale, (lasciando star le castella, che simili erano nella loro piccolezza alla città) per le sparte ville e per li campi i lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie, senza alcuna fatica di medico o aiuto di servidore, per le vie e per li loro colti e per le case, di dì e di notte indifferentemente, non come uomini ma quasi come bestie morieno. Per la qual cosa essi, così nelli loro costumi come i cittadini divenuti lascivi, di niuna lor cosa o faccenda curavano; anzi tutti, quasi quel giorno nel quale si vedevano esser venuti la morte aspettassero, non d’aiutare i futuri frutti delle bestie e delle terre e delle loro passate fatiche, ma di consumare quegli che si trovavano presenti si sforzavano con ogni ingegno. Per che adivenne i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli e i cani medesimi fedelissimi agli uomini, fuori delle proprie case cacciati, per li campi (dove ancora le biade abbandonate erano, senza essere, non che raccolte ma pur segate [11]) come meglio piaceva loro se n’andavano. E molti, quasi come razionali, poi che pasciuti erano bene il giorno, la notte alle lor case senza alcuno correggimento di pastore si tornavano satolli.
Che più si può dire (lasciando stare il contado e alla città ritornando) se non che tanta e tal fu la crudeltà del cielo, e forse in parte quella degli uomini, che infra ’l marzo e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per l’esser molti infermi mal serviti o abbandonati ne
’ lor bisogni per la paura ch’aveono i sani, oltre a centomilia creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti, che forse, anzi l’accidente mortifero, non si saria estimato tanti avervene dentro avuti? O quanti gran palagi, quante belle case, quanti nobili abituri per adietro di famiglie pieni, di signori e di donne, infino al menomo fante rimaser voti! [12] O quante memorabili schiatte, quante ampissime eredità, quante famose ricchezze si videro senza successor debito rimanere! Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ipocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co’ lor parenti, compagni e amici, che poi la sera vegnente appresso nell’altro mondo cenaron con li lor passati!



[1]
Erano passati 1348 anni dalla nascita di Cristo
. [2] Per influssi astrali.



[3] Da funzionari.





[4] Le ascelle.

[5]
Si tratta dei bubboni, indizio della peste nera.


[6] A chi
.




























[7] E benché questi, che avevano queste varie opinioni.








[8] Attratti, sollecitati.
[9] Di natura grossolana.









[10] Se fossero stati aiutati, curati.














[11] Neppure mietute.










[12]
Rimasero vuoti sino all'ultimo servitore.


Interpretazione complessiva

  • Il brano è una delle prime e più importanti descrizioni dell'epidemia di peste a Firenze e testimonia l'atteggiamento laico e in fondo molto moderno di Boccaccio di fronte allo spettacolo terribile della morìa, poiché lo scrittore non sa se attribuire il flagello alla punizione divina per i peccati degli uomini o alla "operazion de’ corpi superiori", cioè a un maligno influsso astrale, dubbio che lo allontana dalla visione apocalittica che gli scrittori del secolo precedente avrebbero senz'altro abbracciato (per quanto la credenza nell'influenza delle stelle sia ancora di stampo decisamente medievale). Ciò che colpisce l'attenzione dell'autore non è solo il rapido propagarsi della malattia e la facilità con cui si diffonde a Firenze, ma soprattutto il fatto che la peste ha disgregato il tessuto sociale della città e ha sconvolto i normali rapporti persino nelle famiglie, poiché "li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano" e a dominare è la ricerca sfrenata del guadagno, specie da parte degli individui privi di scrupoli. Inaccettabile ai suoi occhi, poi, è il fatto che molte donne ammalate siano costrette a ricorrere all'assistenza di uomini estranei, senza timore di mostrar loro parti intime del proprio corpo e col rischio, se sopravvissute, di esporsi poi a una fama di "minore onestà", contraria al concetto di "cortesia" cui lo scrittore si mantiene sempre fedele.
  • In questo quadro di desolazione si comprende come la decisione dei dieci giovani di lasciare la città non sia dovuta alla volontà di scampare il contagio, che anzi infuria altrettanto virulento nelle campagne, ma al desiderio di ricostruire quella comunità sociale fondata su valori "cortesi" che la peste aveva spazzato via, sia pure solo per pochi giorni attraverso la fissazione di regole sociali di comportamento, al contrario della città dove le leggi ormai non valgono più né alcuno le fa rispettare. La risposta dei dieci novellatori al flagello mortale della peste è dunque di tipo "laico" e terreno, non religioso, e se il Decameron si apre con uno sconvolgimento simile alla "selva oscura" della Commedia, è chiaro che ciò origina non un percorso di redenzione morale come per Dante, ma una sorta di "fuga" dalla realtà con risvolti "carnevaleschi" espressi anche dall'elezione dei re e delle regine (ciò anticipa almeno in parte l'atteggiamento dell'Umanesimo di fronte alla vita, specie l'abbandono sereno ai piaceri per contrastare la sofferenza e il dolore).


Immagine
Immagine
Immagine
Immagine
Immagine
Immagine
Fornito da Crea il tuo sito web unico con modelli personalizzabili.