Giacomo Leopardi
Canto notturno di un pastore errante dell'Asia
(Canti, 23)
Composto tra il 22 ottobre 1829 e il 9 aprile 1830 a Recanati, secondo quanto riportato sull'autografo di Leopardi, il canto vede come protagonista un pastore nomade che nonostante la sua vita primitiva e la lontananza dagli stereotipi della civiltà occidentale condivide lo stesso destino di infelicità, esprimendo il "pessimismo cosmico" dell'autore che qui tocca forse i momenti di maggiore intensità lirica. Il testo presenta anche il concetto di "tedio" che tanta importanza assume nel pensiero leopardiano, con la sconsolata affermazione che il "dì natale" è una condanna per tutti gli esseri viventi, siano essi animali o esseri umani.
► PERCORSO: Il Romanticismo
► AUTORE: Giacomo Leopardi
► OPERA: Canti
► PERCORSO: Il Romanticismo
► AUTORE: Giacomo Leopardi
► OPERA: Canti
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Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga di mirar queste valli? Somiglia alla tua vita la vita del pastore. Sorge in sul primo albore move la greggia oltre pel campo, e vede greggi, fontane ed erbe; poi stanco si riposa in su la sera: altro mai non ispera. Dimmi, o luna: a che vale al pastor la sua vita, la vostra vita a voi? dimmi: ove tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale? Vecchierel bianco, infermo, mezzo vestito e scalzo, con gravissimo fascio in su le spalle, per montagna e per valle, per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, al vento, alla tempesta, e quando avvampa l’ora, e quando poi gela, corre via, corre, anela, varca torrenti e stagni, cade, risorge, e più e più s’affretta, senza posa o ristoro, lacero, sanguinoso; infin ch’arriva colà dove la via e dove il tanto affaticar fu vòlto: abisso orrido, immenso, ov’ei precipitando, il tutto obblia. Vergine luna, tale è la vita mortale. Nasce l’uomo a fatica, ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento per prima cosa; e in sul principio stesso la madre e il genitore il prende a consolar dell’esser nato. Poi che crescendo viene, l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre con atti e con parole studiasi fargli core, e consolarlo dell’umano stato: altro ufficio più grato non si fa da parenti alla lor prole. Ma perché dare al sole, perché reggere in vita chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura, perché da noi si dura? Intatta luna, tale è lo stato mortale. Ma tu mortal non sei, e forse del mio dir poco ti cale. Pur tu, solinga, eterna peregrina, che sì pensosa sei, tu forse intendi questo viver terreno, il patir nostro, il sospirar, che sia; che sia questo morir, questo supremo scolorar del sembiante, e perir della terra, e venir meno ad ogni usata, amante compagnia. E tu certo comprendi il perché delle cose, e vedi il frutto del mattin, della sera, del tacito, infinito andar del tempo. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore rida la primavera, a chi giovi l’ardore, e che procacci il verno co’ suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille discopri, che son celate al semplice pastore. Spesso quand’io ti miro star così muta in sul deserto piano, che, in suo giro lontano, al ciel confina; ovver con la mia greggia seguirmi viaggiando a mano a mano; e quando miro in cielo arder le stelle; dico fra me pensando: A che tante facelle? che fa l’aria infinita, e quel profondo infinito seren? che vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono? Così meco ragiono: e della stanza smisurata e superba, e dell’innumerabile famiglia; poi di tanto adoprar, di tanti moti d’ogni celeste, ogni terrena cosa, girando senza posa, per tornar sempre là donde son mosse; uso alcuno, alcun frutto indovinar non so. Ma tu per certo, giovinetta immortal, conosci il tutto. Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, che dell’esser mio frale, qualche bene o contento avrà fors’altri; a me la vita è male. O greggia mia che posi, oh te beata, che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perché d’affanno quasi libera vai; ch’ogni stento, ogni danno, ogni estremo timor subito scordi; ma più perché giammai tedio non provi. Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe, tu se’ queta e contenta; e gran parte dell’anno senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, e un fastidio m’ingombra la mente; ed uno spron quasi mi punge sì che, sedendo, più che mai son lunge da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo, e non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto, non so già dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco, o greggia mia, né di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei: Dimmi: perché giacendo a bell’agio, ozioso, s’appaga ogni animale; me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale? Forse s’avess’io l’ale da volar su le nubi, e noverar le stelle ad una ad una, o come il tuono errar di giogo in giogo, più felice sarei, dolce mia greggia, più felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero, mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: forse in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dì natale. |
Luna, cosa fai tu in cielo? dimmi, cosa fai, luna silenziosa? La sera sorgi e vai, contemplando i deserti; poi tramonti. Non sei ancora stanca di ripercorrere in eterno le stesse vie? Ancora non rifuggi, ancora sei desiderosa di ammirare queste valli?
La vita del pastore è simile alla tua. Si alza alle prime luci dell'alba, muove il gregge oltre i campi e vede altre greggi, fonti, erbe; poi alla sera, stanco, riposa; non spera mai nient'altro. Dimmi, luna: che senso ha la vita del pastore, quella di voi corpi celesti? dimmi: qual è il fine ultimo di questo mio breve vagare, del tuo corso eterno? Un vecchietto pallido, malato, seminudo e scalzo, con un pesantissimo fascio sulle spalle, corre tra i monti e le valli, tra le rocce aguzze e la sabbia alta, e i cespugli, nel vento, nella tempesta, quando fa molto caldo e quando c'è il gelo, corre via, ansimante, supera torrenti e stagni, cade, si rialza, e si affretta sempre di più, senza riposare o mangiare, lacero e sanguinante; finché arriva alla meta del cammino e di tutta la sua fatica: un orrido e immenso baratro, dove lui dimentica tutto precipitando di sotto. Vergine luna, la vita degli uomini è simile a questo. L'uomo nasce con fatica e il parto è di per sé rischio di morte. Per priva cosa prova pena e dolore; e fin dall'inizio la madre e il padre lo consolano per il fatto di esser nato. Poi, quando il bambino cresce, entrambi lo sostengono e cercano sempre di fargli coraggio con gesti e parole, e consolarlo della condizione umana: i genitori non possono svolgere un compito più gradito alla loro prole. Ma perché dare alla luce, perché tenere in vita chi poi è necessario consolare per il fatto di esser vivo? Se la vita è male, perché dobbiamo sopportarla? Intatta luna, la condizione umana è questa. Ma tu non sei mortale, e forse ti interessa poco quello che dico. Eppure tu, solitaria, eterna viaggiatrice, che sei così pensierosa, tu forse comprendi che cosa sia questa vita terrena, la nostra sofferenza, i nostri sospiri; che cosa sia questo estremo impallidire del volto e il morire, il venir meno ad ogni compagnia consueta e amorevole. E tu certo capisci l'origine delle cose, e vedi lo scopo del mattino, della sera, del silenzioso e infinito fluire del tempo. Tu certo sai a quale suo dolce amore sorrida la primavera, a chi giovi il caldo [dell'estate], e quale frutto dia l'inverno col suo ghiaccio. Tu sai e scopri mille cose che sono nascoste al semplice pastore. Spesso, quando io ti vedo stare così silenziosa sulla pianura deserta, che nel suo lontano orizzonte confina col cielo; oppure quando col mio gregge ti vedo che mi segui man mano che viaggio; e quando vedo le stelle che brillano in cielo; pensando fra me e me dico: Che scopo hanno tanti astri? che senso ha lo spazio infinito e quel profondo, infinito cielo? Che vuol dire questa immensa solitudine? e io che cosa sono? Così penso tra me e me: e non so indovinare alcun vantaggio, alcuno scopo dell'universo smisurato e superbo, delle innumerevoli specie viventi; e neppure di tanta attività, di tanti moti di ogni corpo celeste, di ogni creatura terrena, che girando senza posa tornano sempre là da dove sono partiti. Ma certo tu, giovinetta immortale, conosci tutto. Io conosco e sento solo questo, che altri forse avranno qualche beneficio o felicità dell'eterno moto celeste, della mia fragile vita; ma per me la vita è dolore. O mio gregge, che riposi (oh beato te!) e che credo non conosci la tua miseria! Quanto ti invidio! Non solo perché sei quasi privo di affanno; poiché subito dimentichi ogni sento, ogni danno, ogni estremo timore; ma soprattutto perché non provi mai tedio. Quando tu siedi all'ombra, sull'erba, sei quieto e appagato; e trascorri una gran parte dell'anno senza noia, in quella condizione. E io invece, anche se siedo sull'erba, all'ombra, ho la mente tormentata da un fastidio; ed è come se uno sprone mi pungolasse, cosicché, anche se sto seduto, sono lontanissimo dal trovare pace o quiete. Eppure non desidero nulla, e finora non ho motivi di sofferenza. Non so ben dire quanto tu goda e di che cosa; ma sei fortunato. E io, invece, godo poco, mio gregge, né mi lamento solo di questo. Se tu sapessi parlare, ti chiederei: dimmi, perché ogni animale, giacendo a suo agio e ozioso, si appaga e io, invece, se mi riposo sono assalito dal tedio? Forse se io avessi le ali e potessi volare sulle nuvole, e contare le stelle una per una, oppure potessi vagare come il tuono sulle cime dei monti, sarei più felice, dolce mio gregge, sarei più felice, candida luna. O forse il mio pensiero sbaglia, guardando alla condizione degli altri esseri: forse il giorno della nascita è funesto per chi viene al mondo, quale che sia la sua forma o il suo stato, dentro una tana o una culla. |
Interpretazione complessiva
- Metro: canzone libera, formata da sei stanze di versi endecasillabi e settenari liberamente rimati; l'ultimo verso di ogni stanza esce sempre in -ale e rima con un verso precedente, senza però uno schema fisso. L'alto numero di versi settenari conferisce al testo un ritmo veloce e particolarmente incalzante, specie nelle stanze 2-3 in cui i versi brevi si succedono consecutivi (riproducono il procedere affannoso del "vecchierel" e le domande angosciose sul senso della vita umana).
- L'autore trasse ispirazione per questa poesia da un articolo apparso sul Journal des Savants nel 1826, in cui si faceva la recensione di una cronaca di un viaggio svolto dal barone russo Meyendorff nelle steppe dell'Asia centrale, fra i pastori nomadi kirghisi che (si diceva) intonavano canti malinconici alla luna durante le loro peregrinazioni (Leopardi nello Zibaldone trascrive parte dell'articolo in data 3 ott. 1828: "Plusieurs d’entre eux (d’entre les Kirkis), dice M. de Meyendorff, ib., passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins"). Nella finzione del canto, il pastore dialoga con la luna alla quale rivolge domande profonde sul senso del dolore e della vita umana, senza ovviamente ricevere risposte dall'astro che diventa quasi immagine della natura stessa; il pastore, pur essendo un personaggio primitivo lontano dalla civiltà occidentale, mostra lo stesso pessimismo e la stessa consapevolezza che la vita è sofferenza, anche se non è stato "inquinato" dal progresso (siamo nella fase del "pessimismo cosmico" e dunque la vita è dolorosa per qualunque essere vivente, indipendentemente dalla condizione sociale o culturale). Il testo presenta ovvi riferimenti al Dialogo della Natura e di un Islandese, una delle più note tra le Operette morali in cui il protagonista è un abitante di una remota isola del Nord Europa e rappresenta una tipologia di personaggio analogo al pastore nomade di questo canto (neanche la Natura personificata fornisce risposte esaurienti all'Islandese, proprio come la luna che rimane muta; ► TESTO: Dialogo della Natura e di un Islandese).
- Il pastore si rivolge alla luna come se fosse una divinità pagana e le rivolge alcune domande sul senso profondo della vita umana, domande che restano ovviamente senza risposta: la canzone è divisa in 6 stanze ciascuna delle quali è dedicata a un momento di questo soliloquio, con un primo paragone tra la luna e il pastore (st. 1), la descrizione della vita umana come dolore (stt. 2-3), una serie di angosciose domande sul significato della vita e del mondo (st. 4), il tema del tedio (st. 5), la considerazione finale sul pessimismo cosmico (st. 6). È costante in tutta la poesia il parallelismo per contrasto tra la vita del pastore e quella della luna, in quanto il primo è piccolo e destinato a perire, mentre la seconda è un astro definito più volte "immortale", dunque con un'enorme sproporzione tra la dimensione terrena e quella celeste; l'analogia sta nel fatto che entrambi vivono un'esistenza "ciclica" che non sembra avere uno scopo ultimo, consapevolezza che dà al pastore un senso di angoscia e di "tedio" espresso soprattutto nella parte finale del testo.
- La stanza 2 presenta una similitudine tra la "vita mortale" e un vecchio che, alla fine di un faticoso percorso, cade in un precipizio e scompare: Leopardi rielabora l'immagine del "vecchierel canuto et biancho" del sonetto 16 del Canzoniere di Petrarca e anche la "stancha vecchiarella pellegrina" della canzone 50, con la differenza che i personaggi petrarcheschi trovavano alla fine il loro appagamento nella fede religiosa (erano entrambi pellegrini in viaggio verso una meta devota), mentre il "vecchierel" di cui parla il pastore è destinato a una morte priva di speranza e di qualsiasi consolazione. In particolare, il v. 30 riprende quasi alla lettera il v. 6 della canzone 50 del Canzoniere ("et più et più s'affretta"), mentre l'aggettivo "bianco" (pallido, o forse canuto) si rifà alla descrizione del pellegrino del sonetto 16 (► TESTI: Movesi il vecchierel; Ne la stagion che 'l ciel rapido inchina). L'intera stanza è lo sviluppo di un passo dello Zibaldone (17 genn. 1826, 4162-3) in cui si dava la stessa rappresentazione della vita umana: "Che cosa è la vita? Il viaggio di un zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso per montagne ertissime e luoghi sommamente aspri, faticosi e difficili, alla neve, al gelo, alla pioggia, al vento, all’ardore del sole, cammina senza mai riposarsi dì e notte uno spazio di molte giornate per arrivare a un cotal precipizio o un fosso, e quivi inevitabilmente cadere".
- La stanza 3 descrive la nascita dell'essere umano come momento doloroso e rischio per la vita stessa del nascituro, riprendendo un'immagine analoga del De rerum natura di Lucrezio (V, 222-227) in cui si dice che il bambino appena nato è come un naufrago gettato a riva dalle onde, bisognoso di tutto e intento a riempire i luoghi circostanti dei suoi lamenti. Anche questo passo ha due antecedenti nello Zibaldone, ad es. un pensiero del 1819 (68) dove si diceva che il "nascere istesso dell’uomo cioè il cominciamento della sua vita, è un pericolo della vita, come apparisce dal gran numero di coloro per cui la nascita è cagione di morte, non reggendo al travaglio e ai disagi che il bambino prova nel nascere"; cfr. anche questa annotazione del 13 ag. 1822 (2607): "...l’uno de’ principali uffizi de’ buoni genitori nella fanciullezza e nella prima gioventù de’ loro figliuoli, si è quello di consolarli, d’incoraggiarli alla vita". La stanza si conclude con la domanda sul perché l'uomo debba "durare", sopportare la vita se è fatta di dolore, con un possibile allusivo riferimento al tema del suicidio.
- La stanza 4, la più lunga e complessa del componimento, presenta le domande angosciose che il pastore rivolge alla luna sull'esistenza umana e, soprattutto, sulla ragione ultima della vita dell'universo, di fronte al quale il personaggio si sente piccolo e insignificante: il passo ha vari precedenti letterari, tra cui Virgilio che in Georg., II, 475-482 chiedeva agli astri di mostrargli i segreti dei loro movimenti e la spiegazione di vari fenomeni celesti, come l'alternarsi del giorno e della notte e delle stagioni (il poeta latino ovviamente voleva conoscere qualcosa di ignoto, mentre Leopardi lascia intendere che la spiegazione a tutto questo non fornisce risposte alle domande dell'uomo). Un possibile riferimento dei versi del canto è anche un passo dei Night thoughts del poeta inglese Edward Young, in cui egli si rivolge agli astri e domanda loro qual è lo scopo ultimo delle meraviglie del creato.
- Nella stanza 5 il pastore si rivolge al suo gregge (cambiando interlocutore per la prima volta nel canto) e introduce il tema del "tedio", ovvero il senso di frustrazione e smania interiore che rode l'uomo a causa della consapevolezza della sua infelicità, a differenza delle bestie che ne sembrano prive; anche qui c'è un'analogia con un passo dello Zibaldone (15 mag. 1828, 4306) in cui si dice che la noia è la condizione delle persone sensibili, diversamente da quelle torpide che sono paragonate alle bestie, cui la quiete non è minimamente fastidiosa. Cfr. anche un passo dei Night thoughts di Young, in cui il poeta inglese afferma che la pace delle bestie è negata ai loro padroni, divorati costantemente dal tedio e dalla scontentezza.
- L'ultima stanza conclude il pensiero pessimistico del poeta sulla condizione di infelicità comune a tutti gli esseri viventi ed è quella in cui il tono si fa più lirico, prima col desiderio da parte del pastore di trasformarsi in un essere alato e nel tuono, poi con l'auspicio di essere più felice attraverso l'anafora dei vv. 137-138, in cui si rivolge a entrambi gli interlocutori ("dolce mia greggia" / "candida luna"). Leopardi gioca anche sull'ambiguità del termine "errare", che al v. 136 significa "vagare" e al v. 139 ha il senso di "sbagliare", sia pure con la stessa etimologia: il poeta smentisce in parte quanto detto in precedenza e conclude dicendo che il "dì natale" (il giorno della nascita) è negativo per qualunque creatura, nata in "covile" o in "cuna" (culla), dunque esprimendo nel modo più elevato il concetto del pessimismo cosmico elaborato nei canti pisano-recanatesi di cui questo testo fa parte. Va osservato che i vv. finali riprendono in parte il concetto espresso nel Dialogo di un fisico e di un metafisico (Operette morali), in cui si ipotizza una forma di minore infelicità attraverso l'intensità delle sensazioni e delle azioni, anche se ovviamente una tale possibilità è preclusa al pastore che perciò è condannato a un'esistenza misera come la maggior parte degli altri uomini.
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