Niccolò Machiavelli
Religione e politica
(Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 12)
È uno dei capitoli più controversi dell'opera, in cui Machiavelli descrive la religione come "instrumentum regni" e mezzo per mantenere unito il popolo e conservare saldo il governo, sull'esempio del paganesimo dell'antica Roma in cui i riti avevano essenzialmente una funzione pubblica: l'autore elogia quindi il modello romano e critica pesantemente la Chiesa del XV-XVI sec., la cui corruzione ha spinto molti fedeli ad allontanarsi dalla religione e la cui pessima politica ha causato la divisione e la debolezza degli Stati italiani, fatto la cui riprova sono le guerre di inizio Cinquecento combattute su suolo italiano da potenze straniere. Tali considerazioni si collegano alla visione tutta laica che Machiavelli ha dello Stato e della legge, quest'ultima descritta anche altrove come mezzo per mantenere l'ordine sociale e non certo quale espressione della giustizia divina.
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Niccolò Machiavelli
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Niccolò Machiavelli
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DI QUANTA IMPORTANZA SIA TENERE CONTO DELLA RELIGIONE, E COME LA ITALIA, PER ESSERNE MANCATA MEDIANTE LA CHIESA ROMANA, È ROVINATA.
Quelli principi o quelle republiche, le quali si vogliono mantenere incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della loro religione, e tenerle sempre nella loro venerazione; perché nessuno maggiore indizio si puote avere della rovina d’una provincia, che vedere dispregiato il culto divino. Questo è facile a intendere, conosciuto che si è in su che sia fondata la religione dove l’uomo è nato; perché ogni religione ha il fondamento della vita sua in su qualche principale ordine suo. La vita della religione Gentile [1] era fondata sopra i responsi degli oracoli, e sopra la setta degli indovini e degli aruspici: tutte le altre loro cerimonie, sacrifìci e riti, dependevano da queste; perché loro facilmente credevono che quello Iddio che ti poteva predire il tuo futuro bene o il tuo futuro male, te lo potessi ancora concedere. Di qui nascevano i templi, di qui i sacrifici, di qui le supplicazioni, ed ogni altra cerimonia in venerarli: per che l’oracolo di Delo, il tempio di Giove Ammone, ed altri celebri oracoli, i quali riempivano il mondo di ammirazione e divozione. Come costoro cominciarono dipoi a parlare a modo de’ potenti, e che questa falsità si fu scoperta ne’ popoli, diventarono gli uomini increduli, ed atti a perturbare ogni ordine buono. Debbono, adunque, i principi d’una republica o d’uno regno, i fondamenti della religione che loro tengono, mantenergli; e fatto questo, sarà loro facil cosa mantenere la loro republica religiosa, e, per conseguente, buona e unita. E debbono, tutte le cose che nascano in favore di quella, come che le giudicassono false [2], favorirle e accrescerle; e tanto più lo debbono fare, quanto più prudenti [3] sono, e quanto più conoscitori delle cose naturali. E perché questo modo è stato osservato dagli uomini savi, ne è nato l’opinione dei miracoli, che si celebrano nelle religioni eziandio false; perché i prudenti gli augumentano [4], da qualunque principio e’ si nascano; e l’autorità loro dà poi a quelli fede appresso a qualunque. Di questi miracoli ne fu a Roma assai; intra i quali fu, che, saccheggiando i soldati romani la città de’ Veienti, alcuni di loro entrarono nel tempio di Giunone, ed accostandosi alla imagine di quella, e dicendole: «Vis venire Romam?» [5] parve a alcuno vedere che la accennasse, a alcuno altro che la dicesse di sì. Perché, sendo quegli uomini ripieni di religione [6] (il che dimostra Tito Livio, perché, nello entrare nel tempio, vi entrarono sanza tumulto, tutti devoti e pieni di riverenza), parve loro udire quella risposta che alla domanda loro per avventura si avevano presupposta: la quale opinione e credulità da Cammillo [7] a dagli altri principi della città fu al tutto favorita ed accresciuta. La quale religione se ne’ principi della republica cristiana si fusse mantenuta, secondo che dal datore d’essa ne fu ordinato, sarebbero gli stati e le republiche cristiane più unite, più felici assai, che le non sono. Né si può fare altra maggiore coniettura della declinazione d’essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra, hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi, e vedesse l’uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe essere propinquo, sanza dubbio, o la rovina o il fragello. E perché molti sono d’opinione, che il bene essere delle città d’Italia nasca dalla Chiesa romana, voglio, contro a essa [8], discorrere quelle ragioni che mi occorrono: e ne allegherò due potentissime ragioni le quali, secondo me, non hanno repugnanzia. [9] La prima è, che, per gli esempli rei di quella corte, questa provincia ha perduto ogni divozione e ogni religione: il che si tira dietro infiniti inconvenienti e infiniti disordini; perché, così come dove è religione si presuppone ogni bene, così, dove quella manca, si presuppone il contrario. Abbiamo, adunque, con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obligo [10], di essere diventati sanza religione e cattivi: ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra. Questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa. E veramente, alcuna provincia non fu mai unita o felice, se la non viene tutta alla ubbidienza d’una republica o d’uno principe, come è avvenuto alla Francia ed alla Spagna. E la cagione che la Italia non sia in quel medesimo termine, né abbia anch’ella o una republica o uno principe che la governi, è solamente la Chiesa: perché, avendovi quella abitato e tenuto imperio temporale, non è stata sì potente né di tanta virtù che l’abbia potuto occupare la tirannide d’Italia e farsene principe; e non è stata, dall’altra parte, sì debole, che, per paura di non perdere il dominio delle sue cose temporali, la non abbia potuto convocare uno potente che la difenda contro a quello che in Italia fusse diventato troppo potente: come si è veduto anticamente per assai esperienze, quando, mediante Carlo Magno, la ne cacciò i Longobardi, ch’erano già quasi re di tutta Italia; e quando ne’ tempi nostri ella tolse la potenza a’ Viniziani con l’aiuto di Francia [11]; di poi ne cacciò i Franciosi [12] con l’aiuto de’ Svizzeri. Non essendo, adunque, stata la Chiesa potente da potere occupare la Italia, né avendo permesso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuta venire sotto uno capo; ma è stata sotto più principi e signori, da’ quali è nata tanta disunione e tanta debolezza, che la si è condotta a essere stata preda, non solamente de’ barbari potenti, ma di qualunque l’assalta. Di che noi altri Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, e non con altri. E chi ne volesse per esperienza certa vedere più pronta la verità, bisognerebbe che fusse di tanta potenza che mandasse ad abitare la corte romana, con l’autorità che l’ha in Italia, in le terre de’ Svizzeri [13]; i quali oggi sono, solo, popoli che vivono, e quanto alla religione e quanto agli ordini militari, secondo gli antichi: e vedrebbe che in poco tempo farebbero più disordine in quella provincia i rei costumi di quella corte, che qualunque altro accidente che in qualunque tempo vi potesse surgere. [14] |
[1] La religione pagana. [2] Anche se le giudicano false. [3] Saggi, sapienti. [4] Li aumentano, li rendono validi. [5] Vuoi venire a Roma? [6] Di scrupoli religiosi. [7] Furio Camillo, il dittatore romano che espugnò la città di Veio nel IV sec. a.C. [8] Per controbattere tale opinione. [9] Non possono essere confutate. [10] Siamo debitori di questo fatto. [11] Allude alla Lega di Cambrai, messa assieme da papa Giulio II secondo contro Venezia. [12] I Francesi. [13] Dovrebbe trasferire la Curia romana in Svizzera. [14] E vedrebbe che in poco tempo i costumi corrotti della Curia creerebbero più disordine fra gli Svizzeri di qualunque altro accidente. |
Interpretazione complessiva
- Il passo è strettamente collegato al cap. 11, in cui l'autore descriveva la religione pagana dell'antica Roma come un complesso di norme e rituali dal significato politico e utilissimo per mantenere unito il popolo romano e saldo il suo governo, attribuendo perciò alla religione un valore civile e di instrumentum regni che prescinde totalmente da qualunque considerazione metafisica: nel cap. in esame Machiavelli riprende la sua concezione e afferma che la religione deve avere la stessa funzione anche negli Stati moderni, che si mantengono saldi fino a quando nel popolo è viva la devozione e iniziano a declinare quando si diffonde un sentimento irreligioso, scettico verso il culto divino. Lo scrittore afferma chiaramente che gli uomini saggi giudicano inconsistenti sul piano razionale molti insegnamenti della fede, come ad es. i miracoli (egli fa riferimento a quelli attribuiti agli dei pagani, anche se è evidente l'allusione al racconto biblico), tuttavia essi devono convalidarli e rafforzarli di fronte al popolo, con tanta maggior convinzione quanto maggiore è la consapevolezza che si tratta di fole, proprio perché il timor dei è un potente fattore di coesione sociale e di sottomissione delle masse al potere dei governi. Ne emerge una riflessione di carattere laico e moderno che rompe i ponti con la tradizione letteraria medievale e che concepisce la religione come un mezzo per mantenere il potere e l'ordine politico non diversamente dalla legge, anch'essa del resto descritta come espressione della giustizia terrena e non divina (► TESTO: L'evoluzione degli Stati).
- Machiavelli polemizza pesantemente contro la Chiesa di Roma, accusata di aver provocato la rovina politica d'Italia anzitutto col cattivo esempio della corruzione della Curia che avrebbe, a suo dire, allontanato dalla devozione molti cittadini e causato "infiniti inconvenienti e infiniti disordini": la condanna della corruzione ecclesiastica è un tema ricorrente nella nostra letteratura, tuttavia la novità sta nel fatto che Machiavelli individua in essa un fattore di disgregazione sociale e di disordine in quanto la religione è un mezzo per tenere unite le masse e disciplinarle al governo di uno o di pochi, mentre tale effetto è venuto meno in quanto il cattivo esempio delle gerarchie della Chiesa ha allontanato dalla fede molti italiani (né va scordato che in quegli anni si stava diffondendo la Riforma luterana nel Nord Europa, prendendo le mosse da considerazioni molto simili). La seconda accusa alla Chiesa è di aver contribuito alla frammentazione politica degli Stati italiani e qui la novità consiste nel trattare la Curia come una delle tanti corti della Penisola, impegnata in un'attività politica e di governo al pari di città come Firenze o Milano e inserita nel gioco mobile delle alleanze, per cui essa è stata un fattore di instabilità dell'Italia. L'autore afferma che la Chiesa non ha avuto la forza né di sottomettere l'Italia all'autorità di un solo re, come era in parte accaduto nel Medioevo con Carlo Magno, né di agire essa stessa come fattore di coesione, citando come esempio la Lega di Cambrai promossa da papa Giulio II contro Venezia che si appoggiò alle armi francesi di Luigi XII, salvo poi chiamare in soccorso gli Svizzeri contro la stessa Francia nel 1512-13 (da qui, secondo Machiavelli, l'inizio delle invasioni di "barbari" che sottomisero parti importanti del territorio italiano). L'autore afferma in modo provocatorio che se la Curia romana si trasferisse nella Repubblica Elvetica, esempio positivo ai suoi occhi di stabilità e buon governo in quanto simile all'antico Stato romano, quella formazione politica non tarderebbe a degenerare per il cattivo esempio offerto dai prelati corrotti.
- L'esempio di religiosità romana citato dall'autore, secondo cui i soldati di Furio Camillo chiesero alla statua di Giunone del tempio di Veio se volesse venire a Roma e quella sembrò rispondere di sì, è tratto da Livio (Ab Urbe condita libri, V.22) il cui testo è reso in modo libero poiché il soldato romano aveva chiesto alla statua Visne Romam ire, Iuno? ("Vuoi andare a Roma, o Giunone?"). L'aneddoto liviano non è forse citato a caso, dal momento che il libro V dell'opera storiografica latina descrive l'epopea della guerra contro la città di Veio e poi l'occupazione di Roma ad opera dei Galli di Brenno, in entrambi i casi con numerosi esempi di intervento delle divinità nelle vicende umane e di devozione religiosa da parte dei Romani (non ultimo, l'episodio celebre delle "oche del Campidoglio" che avvisarono i Romani dell'arrivo dei Galli).