Letteratura italiana
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Niccolò Machiavelli


L'appello finale di Fabrizio Colonna
(Dell'arte della guerra, VII)

Nella pagina conclusiva del dialogo Fabrizio Colonna, l'interlocutore principale nonché portavoce delle tesi dell'autore, stila un bilancio del tutto negativo della storia italiana del primo XVI sec. (segnata dalle invasioni degli eserciti stranieri e dalla perdita di indipendenza politica) e ne incolpa i principi regnanti, rei ai suoi occhi di trascurare l'arte militare e di affidarsi ad eserciti mercenari poco affidabili e inferiori alle armate dei re stranieri. Le parole di Fabrizio riflettono ovviamente il pensiero dello stesso Machiavelli ed esprimono il suo rimpianto per non essere riuscito a mettere in pratica i fondamenti teorici dell'arte bellica, mentre alla fine il personaggio rivolge un accorato appello ai giovani affinché portino a compimento il riscatto militare e politico dell'Italia, in maniera non molto diversa dal cap. XXVI del "Principe".

► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Niccolò Machiavelli







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FABRIZIO:  [...] Ma torniamo agli Italiani, i quali, per non avere avuti i principi savi [1], non hanno preso alcuno ordine buono, e, per non avere avuto quella necessità che hanno avuta gli Spagnuoli, non gli hanno per loro medesimi presi; tale che rimangono il vituperio del mondo. Ma i popoli non ne hanno colpa, ma sì bene i principi loro; i quali ne sono stati gastigati, e della ignoranza loro ne hanno portate giuste pene perdendo ignominiosamente lo stato, e sanza alcuno esemplo virtuoso. Volete voi vedere se questo che io dico è vero? Considerate quante guerre sono state in Italia dalla passata del re Carlo ad oggi [2]; e solendo le guerre fare uomini bellicosi e riputati, queste quanto più sono state grandi e fiere, tanto più hanno fatto perdere di riputazione alle membra e a' capi suoi. [3] Questo conviene che nasca che gli ordini consueti [4] non erano e non sono buoni; e degli ordini nuovi non ci è alcuno che abbia saputo pigliarne. Né crediate mai che si renda riputazione alle armi italiane, se non per quella via che io ho dimostra [5] e mediante coloro che tengono stati grossi in Italia; perché questa forma si può imprimere negli uomini semplici, rozzi e proprii, non ne' maligni, male custoditi e forestieri. [6] Né si troverrà mai alcuno buono scultore che creda fare una bella statua d'un pezzo di marmo male abbozzato, ma sì bene d'uno rozzo. Credevano i nostri principi italiani, prima ch'egli assaggiassero i colpi delle oltramontane guerre [7], che a uno principe bastasse sapere negli scrittoi pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne' detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude, ornarsi di gemme e d'oro, dormire e mangiare con maggiore splendore che gli altri, tenere assai lascivie intorno [8], governarsi co' sudditi avaramente e superbamente, marcirsi nello ozio, dare i gradi della milizia per grazia [9], disprezzare se alcuno avesse loro dimostro alcuna lodevole via, volere che le parole loro fussero responsi di oraculi; ne si accorgevano i meschini che si preparavano ad essere preda di qualunque gli assaltava. Di qui nacquero poi nel mille quattrocento novantaquattro i grandi spaventi, le sùbite fughe e le miracolose perdite [10]; e così tre potentissimi stati che erano in Italia [11], sono stati più volte saccheggiati e guasti. Ma quello che è peggio, è che quegli che ci restano stanno nel medesimo errore e vivono nel medesimo disordine, e non considerano che quegli che anticamente volevano tenere lo stato, facevano e facevano fare tutte quelle cose che da me si sono ragionate, e che il loro studio era preparare il corpo a' disagi e lo animo a non temere i pericoli. Onde nasceva che Cesare, Alessandro e tutti quegli uomini e principi eccellenti, erano i primi tra' combattitori, andavano armati a piè, e se pure perdevano lo stato, e' volevano perdere la vita; talmente che vivevano e morivano virtuosamente. E se in loro, o in parte di loro, si poteva dannare [12] troppa ambizione di regnare, mai non si troverrà che in loro si danni alcuna mollizie o alcuna cosa che faccia gli uomini delicati e imbelli. Le quali cose, se da questi principi fussero lette e credute, sarebbe impossibile che loro non mutassero forma di vivere e le provincie loro non mutassero fortuna. E perché voi, nel principio di questo nostro ragionamento, vi dolesti della vostra ordinanza [13], io vi dico che, se voi la avete ordinata come io ho di sopra ragionato ed ella abbia dato di sé non buona esperienza, voi ragionevolmente ve ne potete dolere; ma s'ella non è così ordinata ed esercitata come ho detto, ella può dolersi di voi che avete fatto uno abortivo, non una figura perfetta. I Viniziani ancora e il duca di Ferrara la cominciarono e non la seguirono; il che è stato per difetto loro, non degli uomini loro. E io vi affermo che qualunque di quelli che tengono oggi stati in Italia prima entrerrà per questa via, fia, prima che alcuno altro, signore di questa provincia, e interverrà allo stato suo come al regno de' Macedoni, il quale, venendo sotto a Filippo che aveva imparato il modo dello ordinare gli eserciti da Epaminonda tebano, diventò, con questo ordine e con questi esercizi, mentre che l'altra Grecia [14] stava in ozio e attendeva a recitare commedie, tanto potente che potette in pochi anni tutta occuparla, e al figliuolo lasciare tale fondamento, che poté farsi principe di tutto il mondo. Colui adunque che dispregia questi pensieri, s'egli è principe, dispregia il principato suo; s'egli è cittadino, la sua città. E io mi dolgo della natura, la quale o ella non mi dovea fare conoscitore di questo, o ella mi doveva dare facultà a poterlo eseguire. Né penso oggimai, essendo vecchio, poterne avere alcuna occasione, e per questo io ne sono stato con voi liberale [15] che, essendo giovani e qualificati, potrete, quando le cose dette da me vi piacciano, ai debiti tempi, in favore de' vostri principi, aiutarle e consigliarle. Di che non voglio vi sbigottiate o diffidiate, perché questa pronvincia pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura. Ma quanto a me si aspetta, per essere in là con gli anni, me ne diffido. [16] E veramente, se la fortuna mi avesse conceduto per lo addietro tanto stato quanto basta a una simile impresa, io crederei, in brevissimo tempo, avere dimostro al mondo quanto gli antichi ordini vagliono; e sanza dubbio o io l'arei accresciuto con gloria o perduto senza vergogna.
[1] Dei regnanti saggi e capaci.




[2] Dalla discesa di Carlo VIII di Francia (nel 1494).
[3]
Ai suoi soldati e ai suoi condottieri. [4] La consueta organizzazione (politica e militare). [5] Che io ho mostrato.
[6] Allusione alle soldatesche mercenarie e straniere.

[7] Delle guerre degli Stati stranieri (specie della Francia).

[8]
Circondarsi di ogni comodità.
[9]
Assegnare i comandi militari in base al favore personale
.
[10] Allusione alla calata dei Francesi nel 1494.
[11] Il ducato di Milano, il regno di Napoli e la Repubblica di Venezia.



[12] Condannare, biasimare.



[13] All'inizio del dialogo Cosimo Rucellai aveva lamentato lo scarso successo dell'Ordinanza fiorentina, l'esercito di contadini arruolato da Machiavelli.




[14] Il resto delle poleis greche.




[15] Generoso.



[16] Non ho più fiducia.


Interpretazione complessiva

  • Protagonista della pagina finale del dialogo è Fabrizio Colonna (1455-1520), celebre capitano di ventura del XVI sec. la cui fama indusse Machiavelli a farne l'interlocutore principale dell'opera, nonché fautore delle sue tesi: in questo passo il condottiero stila un bilancio impietoso della crisi militare degli Stati italiani del primo Cinquecento e ne attribuisce la causa (secondo un ragionamento già sviluppato nei libri precedenti) alla disorganizzazione degli eserciti, inferiori a quelli "oltramontani" di Francia e Svizzera in quanto composti perlopiù di soldatesche mercenarie e inadatti perciò a difendere efficacemente i territori dagli assalti delle potenze straniere. La responsabilità di questa situazione è in primo luogo dei principi regnanti, i quali hanno creduto di saper governare scrivendo lettere e usando le schermaglie politiche, mentre avrebbero dovuto arruolare i soldati fra il popolo e addestrarli alla guerra contro gli invasori venuti dai Paesi transalpini, a cominciare dalle truppe francesi di Carlo VIII che nel 1494 conquistarono l'Italia "col gesso". Un tentativo in tal senso era stato promosso dallo stesso Machiavelli a Firenze nei primi anni del secolo, con l'arruolamento della "Ordinanza" (un esercito formato da soldati contadini) che non andò a buon fine come lo stesso autore qui riconosce con amarezza, per cui è evidente che Machiavelli parla in prima persona per bocca del personaggio di Fabrizio. L'appello finale del protagonista del dialogo, che si rivolge agli interlocutori Cosimo Rucellai e Luigi Alamanni auspicando che essi consiglino i principi a curare meglio l'organizzazione delle loro armate, ha un tono solenne e profetico e ricorda in parte la conclusione del Principe quando, nel cap. XXVI, Machiavelli esorta i Medici a riscattare l'Italia dal dominio dello straniero (► TESTO: L'esortazione finale ai Medici).
  • Fabrizio contrappone polemicamente i sovrani italiani del XVI sec., ai suoi occhi effeminati e abituati a vivere nel lusso e nelle comodità, ai grandi condottieri dell'antichità classica, avvezzi al contrario a sopportare fatiche e pericoli nonché pronti a rischiare la morte piuttosto che perdere il proprio Stato: l'autore cita gli esempi illustri di G. Giulio Cesare e soprattutto di Alessandro Magno, in grado di costruire in pochissimi anni un enorme impero, e in particolare elogia la figura di suo padre Filippo II, capace di diventare re dei Macedoni e di riformare l'esercito apprendendo le tecniche militari del tebano Epaminonda, che gli permisero di sottomettere l'intera Grecia che si crogiolava nell'ozio e nella composizione di commedie. Fabrizio non dubita che anche in Italia un principe che agisse nello stesso modo sortirebbe gli stessi successi di Filippo e Alessandro e tale convinzione ribadisce l'investitura ai Medici contenuta nel cap. finale del Principe, in cui non a caso gli esempi fatti erano quelli di Mosè, Ciro il grande, Teseo.


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