Jacopone da Todi
«O Signor, per cortesia»
(Laude, 81)
In questa "lauda" Jacopone invoca Dio affinché gli mandi i malanni più terribili e ripugnanti, la sofferenza dei quali lo aiuterà a espiare il peccato originale e a mortificare la propria umanità di fronte alla grandezza del Signore. Il testo è un eccellente esempio del misticismo esasperato dell'autore, nonché della mentalità medievale per cui la fisicità del corpo viene disprezzata in quanto sporca e fonte di peccato e la sofferenza invocata o auto-inflitta serve a liberarsi del senso di colpa e a purificarsi (bisognerà attendere l'Umanesimo perché il corpo dell'uomo sia pienamente rivalutato come "macchina meravigliosa", creata a immagine e somiglianza di Dio).
► PERCORSO: La poesia religiosa
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O Signor, per cortesia,
manname la malsanìa! A mme la freve quartana, la contina e la terzana, la doppla cotidïana co la granne ydropesia. A mme venga mal de dente, mal de capo e mal de ventre; a lo stomaco dolur’ pognenti e ’n canna la squinanzia. Mal dell’occhi e doglia de flanco e la postema al canto manco; tiseco me ionga enn alto e d’onne tempo fernosìa. Aia ’l fecato rescaldato, la melza grossa e ’l ventr’enflato e llo polmone sia ’mplagato cun gran tòssa e parlasia. A mme venga le fistelle con migliaia de carvuncilli, e li granci se sian quelli che tutto replen ne sia. A mme venga la podraga (mal de cóglia sì me agrava), la bisinteria sia plaga e le morroite a mme sse dìa. A mme venga ’l mal de l’asmo, iongasecce quel del pasmo; como a can me venga el rasmo, entro ’n vocca la grancia. A mme lo morbo caduco de cadere enn acqua e ’n foco e ià mai non trovi loco, che eo afflitto non ce sia. A mme venga cechetate, mutezza e sordetate, la miseria e povertate e d’onne tempo entrapparìa. Tanto sia ’l fetor fetente che non sia null’om vivente, che non fuga da me dolente, posto en tanta enfermaria. En terrebele fossato, che Riguerci è nomenato, loco sia abandonato da onne bona compagnia. Gelo, grando e tempestate, fulgure, troni e oscuritate; e non sia nulla aversitate, che me non aia en sua bailìa. Le demonia enfernali sì mme sian dati a menestrali, che m’essèrcino en li mali, ch’e’ ho guadagnati a mea follia. Enfin del mondo a la finita sì mme duri questa vita e poi, a la scivirita, dura morte me sse dìa. Allegom’en sseppultura un ventr’i lupo en voratura e l’arliquie en cacatura en espineta e rogarìa. Li miracul’ po’ la morte, chi cce vene aia le scorte e le deversazioni forte con terrebel fantasia. Onn’om che m’ode mentovare sì sse deia stupefare e co la croce sé segnare, che reo escuntro no i sia en via. Signor meo, non n’è vendetta tutta la pena ch’e’ aio ditta, ché me creasti en tua diletta et eo t’ho morto a villania. |
O Signore, per favore, mandami la malattia [la lebbra]!
A me la febbre quartana, la febbre continua e quella terzana, e quella che viene due volte in un giorno, insieme alla grave idropisia. Mi venga il mal di denti, il mal di testa e di ventre, mi vengano dolori pungenti allo stomaco e l'angina alla gola. [Mi venga] male agli occhi e dolore al fianco [mal di reni], l'ascesso al lato sinistro [al cuore]; mi venga anche la tisi e la frenesia [il delirio] in ogni momento. Che io abbia il fegato infiammato, la milza ingrossata, il ventre gonfio; che il polmone sia piagato da grande tosse e paralisi. Mi vengano le fistole con migliaia di pustole, e i cancri siano tali che io ne sia tutto ripieno. Mi venga la podagra, il male ai testicoli aggravi il mio stato; mi sia piaga la dissenteria e mi vengano le emorroidi. Mi venga l'asma, e vi si aggiunga lo spasimo; mi venga la rabbia del cane e una cancrena in bocca. Mi venga il mal caduco [l'epilessia] e mi faccia finire nell'acqua e nel fuoco, e possa non trovare alcun luogo in cui non sia afflitto. Mi venga la cecità, possa io diventare muto e sordo; possa io essere misero e povero e subire un continuo rattrappimento. Possa io emanare un tale fetore che nessun uomo vivente non fugga schifato da me, colpito da una tale malattia. Che io sia abbandonato da ogni buona compagnia in quel terribile fossato che è chiamato Riguerci [un affluente del Tevere, un tempo luogo noto per la sua desolazione]. [Mi colpiscano] gelo, grandine, tempeste, folgori, tuoni, oscurità, e non ci sia alcun tempo avverso che non mi abbia in suo potere. Che i demoni dell'inferno mi siano dati come infermieri, e che mi infliggano quei tormenti che con i miei peccati mi sono meritato. Sino alla fine del mondo duri per me questa vita, e poi, quando il corpo si separa dal corpo, mi venga data una morte crudele. Scelgo come mia sepoltura il ventre di un lupo che mi abbia divorato, e possano essere i miei resti defecati da quello tra spineti e roveti. [Questi] i miei miracoli dopo la morte: chi viene dove sono i miei resti possa avere una scorta [di spiriti maligni] e dure persecuzioni con terribili pensieri. Ogni uomo che mi sente menzionare deve restare inorridito e farsi il segno della croce, per evitare un brutto incontro per la strada. O mio Signore, tutti i tormenti che ho elencato non sono una vendetta eccessiva: tu mi creasti per il tuo amore, io ti ho villanamente ucciso [con la crocifissione]. |
Interpretazione complessiva
- Il testo ha la forma metrica di una ballata di versi ottonari, con una ripresa di due versi (rima XX) e diciotto strofe di quattro versi ciascuna (rima AAAX). Molti versi sono ipermetri (v. 9, dieci sillabe; vv. 11-12, nove sillabe; v. 15 nove sillabe, ecc.) e diverse rime sono imperfette (vv. 7-9 -ente/-entre/-enti; vv. 11-13, -anco/-alto; vv. 19-21, -elle/-illi, ecc.). Il metro è quello tradizionale della "lauda" nella letteratura religiosa di fine Duecento, nell'Italia centrale.
- L'autore si produce in un "crescendo" verbale che arriva al paradosso, con un bizzarro elenco di malattie che vengono citate con la terminologia medica del tempo: molti termini sono tecnicismi, ad es. "malsanìa" (prob. "lebbra", come nella Lauda 26, v. 30: "co’ se fa a la malsanìa che da sani è separato"), la febbre terzana e quartana (che viene tre o quattro volte al giorno), quella "doppla cotidïana" (due volte al giorno), la "ydropesia" (idropisia, malattia citata anche da Dante in Inf., XXX), la "squinanzia" (angina), ecc. Le malattie invocate sono tra le più ripugnanti e colpiscono anche le parti meno nobili del corpo (come il male ai testicoli, la dissenteria e le emorroidi), in quanto devono allontanare dal povero Jacopone la compagnia degli altri esseri umani e togliergli qualunque conforto morale. L'autore si augura addirittura di essere gettato in un orrendo fosso e di avere come infermieri i demoni dell'inferno, che anziché curarlo dovranno infliggergli ulteriori sofferenze a espiazione dei suoi peccati.
- Il delirio autodistruttivo di Jacopone si spinge oltre la morte, poiché egli si augura che i suoi resti (detti ironicamente "arliquie", reliquie) siano divorati da un lupo e defecati tra spine e roveti, mentre tutti coloro che capiteranno da quelle parti saranno tormentati da visioni e spettri e dovranno segnarsi al solo sentir pronunciare il suo nome. L'autore precisa che tutto ciò non è comunque una punizione sufficiente per il peccato originale, in quanto Dio lo ha creato per amore e lui, come ogni uomo, lo ha ucciso a tradimento sulla croce (significativamente, il componimento si chiude col termine "villania" che è l'esatto contrario di "cortesia" con cui si apre, in quanto i due attributi si riferiscono a lui in quanto uomo e a Dio).