Matteo Maria Boiardo
Il duello di Orlando e Agricane
(Orlando innamorato, I, XVIII, 38-55; XIX, 1-17)
Angelica è tornata in Oriente, ma qui viene assediata nella città asiatica di Albraca da Agricane, il re dei Tartari suo pretendente che vuole a tutti i costi farla sua e che si è impadronito del prodigioso cavallo di Ranaldo, Baiardo. In aiuto degli assediati giunge inaspettato Orlando, anch'egli innamorato di Angelica, che dà prove di straordinario valore: Agricane decide di attirarlo in un bosco lontano dal campo di battaglia, fingendo di fuggire, per affrontarlo in un duello singolare e ucciderlo. Lo scontro vedrà la vittoria di Orlando, il quale tuttavia avrà modo di battezzare il suo nemico morente e di convertirlo alla fede cristiana, episodio che verrà ripreso da Tasso nella "Gerusalemme liberata" narrando il duello notturno di Tancredi e Clorinda.
► PERCORSO: L'Umanesimo
► AUTORE: Matteo Maria Boiardo
► PERCORSO: L'Umanesimo
► AUTORE: Matteo Maria Boiardo
XVIII, 38
Né più parole: ma trasse Tranchera, E verso Orlando con ardir se affronta. Or se comincia la battaglia fiera, Con aspri colpi di taglio e di ponta; Ciascuno è di prodezza una lumera, E sterno insieme, come il libro conta, Da mezo giorno insino a notte scura, Sempre più franchi alla battaglia dura. 39 Ma poi che il sole avea passato il monte, E cominciosse a fare il cel stellato, Prima verso il re parlava il conte: - Che farem, - disse - che il giorno ne è andato? - Disse Agricane con parole pronte: - Ambo se poseremo in questo prato; E domatina, come il giorno pare, Ritornaremo insieme a battagliare. - 40 Così de acordo il partito se prese. Lega il destrier ciascun come li piace, Poi sopra a l'erba verde se distese; Come fosse tra loro antica pace, L'uno a l'altro vicino era e palese. Orlando presso al fonte isteso giace, Ed Agricane al bosco più vicino Stassi colcato, a l'ombra de un gran pino. 41 E ragionando insieme tuttavia Di cose degne e condecente a loro, Guardava il conte il celo e poi dicia: - Questo che or vediamo, è un bel lavoro, Che fece la divina monarchia; E la luna de argento, e stelle d'oro, E la luce del giorno, e il sol lucente, Dio tutto ha fatto per la umana gente. - 42 Disse Agricane: - Io comprendo per certo Che tu vôi de la fede ragionare; Io de nulla scienzia sono esperto, Né mai, sendo fanciul, volsi imparare, E roppi il capo al mastro mio per merto; Poi non si puoté un altro ritrovare Che mi mostrasse libro né scrittura, Tanto ciascun avea di me paura. 43 E così spesi la mia fanciulezza In caccie, in giochi de arme e in cavalcare; Né mi par che convenga a gentilezza Star tutto il giorno ne' libri a pensare; Ma la forza del corpo e la destrezza Conviense al cavalliero esercitare. Dottrina al prete ed al dottor sta bene: Io tanto saccio quanto mi conviene. - 44 Rispose Orlando: - Io tiro teco a un segno, Che l'arme son de l'omo il primo onore; Ma non già che il saper faccia men degno, Anci lo adorna come un prato il fiore; Ed è simile a un bove, a un sasso, a un legno, Chi non pensa allo eterno Creatore; Né ben se può pensar senza dottrina La summa maiestate alta e divina. - 45 Disse Agricane: - Egli è gran scortesia A voler contrastar con avantaggio. Io te ho scoperto la natura mia, E te cognosco che sei dotto e saggio. Se più parlassi, io non risponderia; Piacendoti dormir, dòrmite ad aggio, E se meco parlare hai pur diletto, De arme, o de amore a ragionar t'aspetto. 46 Ora te prego che a quel ch'io dimando Rispondi il vero, a fé de omo pregiato: Se tu sei veramente quello Orlando Che vien tanto nel mondo nominato; E perché qua sei gionto, e come, e quando, E se mai fosti ancora inamorato; Perché ogni cavallier che è senza amore, Se in vista è vivo, vivo è senza core. - 47 Rispose il conte: - Quello Orlando sono Che occise Almonte e il suo fratel Troiano; Amor m'ha posto tutto in abandono, E venir fammi in questo loco strano. E perché teco più largo ragiono, Voglio che sappi che 'l mio core è in mano De la figliola del re Galafrone Che ad Albraca dimora nel girone. 48 Tu fai col patre guerra a gran furore Per prender suo paese e sua castella, Ed io qua son condotto per amore E per piacere a quella damisella. Molte fiate son stato per onore E per la fede mia sopra alla sella; Or sol per acquistar la bella dama Faccio battaglia, ed altro non ho brama. - 49 Quando Agricane ha nel parlare accolto Che questo è Orlando, ed Angelica amava, Fuor di misura se turbò nel volto, Ma per la notte non lo dimostrava; Piangeva sospirando come un stolto, L'anima, il petto e il spirto li avampava; E tanta zelosia gli batte il core, Che non è vivo, e di doglia non muore. 50 Poi disse a Orlando: - Tu debbi pensare Che, come il giorno serà dimostrato, Debbiamo insieme la battaglia fare, E l'uno o l'altro rimarrà sul prato. Or de una cosa te voglio pregare, Che, prima che veniamo a cotal piato, Quella donzella che il tuo cor disia, Tu la abandoni, e lascila per mia. 51 Io non puotria patire, essendo vivo, Che altri con meco amasse il viso adorno; O l'uno o l'altro al tutto serà privo Del spirto e della dama al novo giorno. Altri mai non saprà, che questo rivo E questo bosco che è quivi d'intorno, Che l'abbi riffiutata in cotal loco E in cotal tempo, che serà sì poco. - 52 Diceva Orlando al re: - Le mie promesse Tutte ho servate, quante mai ne fei; Ma se quel che or me chiedi io promettesse, E se io il giurassi, io non lo attenderei; Così potria spiccar mie membra istesse, E levarmi di fronte gli occhi miei, E viver senza spirto e senza core, Come lasciar de Angelica lo amore. - 53 Il re Agrican, che ardea oltra misura, Non puote tal risposta comportare; Benché sia al mezo della notte scura, Prese Baiardo, e su vi ebbe a montare; Ed orgoglioso, con vista sicura, Iscrida al conte ed ebbelo a sfidare, Dicendo: - Cavallier, la dama gaglia Lasciar convienti, o far meco battaglia. - 54 Era già il conte in su l'arcion salito, Perché, come se mosse il re possente, Temendo dal pagano esser tradito, Saltò sopra al destrier subitamente; Unde rispose con l'animo ardito: - Lasciar colei non posso per niente, E, se io potessi ancora, io non vorria; Avertila convien per altra via. - 55 Sì come il mar tempesta a gran fortuna, Cominciarno lo assalto i cavallieri; Nel verde prato, per la notte bruna, Con sproni urtarno adosso e buon destrieri; E se scorgiano a lume della luna Dandosi colpi dispietati e fieri, Ch'era ciascun di lor forte ed ardito. Ma più non dico: il canto è qui finito. XIX, 1 Segnori e cavallieri inamorati, Cortese damiselle e graziose, Venitene davanti ed ascoltati L'alte venture e le guerre amorose Che fer' li antiqui cavallier pregiati, E fôrno al mondo degne e gloriose; Ma sopra tutti Orlando ed Agricane Fier'opre, per amore, alte e soprane. 2 Sì come io dissi nel canto di sopra, Con fiero assalto dispietato e duro Per una dama ciascadun se adopra; E benché sia la notte e il celo oscuro, Già non vi fa mestier che alcun si scopra, Ma conviensi guardare e star sicuro, E ben diffeso di sopra e de intorno, Come il sol fosse in celo al mezo giorno. 3 Agrican combattea con più furore, Il conte con più senno si servava; Già contrastato avean più de cinque ore, E l'alba in oriente se schiarava: Or se incomincia la zuffa maggiore. Il superbo Agrican se disperava Che tanto contra esso Orlando dura, E mena un colpo fiero oltra a misura. 4 Giunse a traverso il colpo disperato, E il scudo come un latte al mezzo taglia; Piagar non puote Orlando, che è affatato, Ma fraccassa ad un ponto e piastre e maglia. Non puotea il franco conte avere il fiato, Benché Tranchera sua carne non taglia; Fu con tanta ruina la percossa, Che avea fiaccati i nervi e peste l'ossa. 5 Ma non fo già per questo sbigotito, Anci colpisce con maggior fierezza. Gionse nel scudo, e tutto l'ha partito, Ogni piastra del sbergo e maglia spezza, E nel sinistro fianco l'ha ferito; E fo quel colpo di cotanta asprezza, Che il scudo mezo al prato andò di netto, E ben tre coste li tagliò nel petto. 6 Come rugge il leon per la foresta, Allor che l'ha ferito il cacciatore, Così il fiero Agrican con più tempesta Rimena un colpo di troppo furore. Gionse ne l'elmo, al mezo della testa; Non ebbe il conte mai botta maggiore, E tanto uscito è fuor di cognoscenza Che non sa se egli ha il capo, o se egli è senza. 7 Non vedea lume per gli occhi niente, E l'una e l'altra orecchia tintinava; Sì spaventato è il suo destrier corrente, Che intorno al prato fuggendo il portava; E serebbe caduto veramente, Se in quella stordigion ponto durava; Ma, sendo nel cader, per tal cagione Tornolli il spirto, e tennese allo arcione. 8 E venne di se stesso vergognoso, Poi che cotanto se vede avanzato. "Come andarai - diceva doloroso - Ad Angelica mai vituperato? Non te ricordi quel viso amoroso, Che a far questa battaglia t'ha mandato? Ma chi è richiesto, e indugia il suo servire, Servendo poi, fa il guidardon perire. 9 Presso a duo giorni ho già fatto dimora Per il conquisto de un sol cavalliero, E seco a fronte me ritrovo ancora, Né gli ho vantaggio più che il dì primiero. Ma se più indugio la battaglia un'ora, L'arme abandono ed entro al monastero: Frate mi faccio, e chiamomi dannato, Se mai più brando mi fia visto al lato." 10 Il fin del suo parlar già non è inteso, Ché batte e denti e le parole incocca; Foco rasembra di furore acceso Il fiato che esce fuor di naso e bocca. Verso Agricane se ne va disteso, Con Durindana ad ambe mano il tocca Sopra alla spalla destra de riverso; Tutto la taglia quel colpo diverso. 11 Il crudel brando nel petto dichina, E rompe il sbergo e taglia il pancirone; Benché sia grosso e de una maglia fina, Tutto lo fende in fin sotto il gallone: Non fo veduta mai tanta roina. Scende la spada e gionse nello arcione: De osso era questo ed intorno ferrato, Ma Durindana lo mandò su il prato. 12 Da il destro lato a l'anguinaglia stanca Era tagliato il re cotanto forte; Perse la vista ed ha la faccia bianca, Come colui ch'è già gionto alla morte; E benché il spirto e l'anima li manca, Chiamava Orlando, e con parole scorte Sospirando diceva in bassa voce: - Io credo nel tuo Dio, che morì in croce. 13 Batteggiame, barone, alla fontana Prima ch'io perda in tutto la favella; E se mia vita è stata iniqua e strana, Non sia la morte almen de Dio ribella. Lui, che venne a salvar la gente umana, L'anima mia ricoglia tapinella! Ben me confesso che molto peccai, Ma sua misericordia è grande assai. - 14 Piangea quel re, che fo cotanto fiero, E tenia il viso al cel sempre voltato; Poi ad Orlando disse: - Cavalliero, In questo giorno de oggi hai guadagnato, Al mio parere, il più franco destriero Che mai fosse nel mondo cavalcato; Questo fo tolto ad un forte barone, Che del mio campo dimora pregione. 15 Io non me posso ormai più sostenire: Levame tu de arcion, baron accorto. Deh non lasciar questa anima perire! Batteggiami oramai, ché già son morto. Se tu me lasci a tal guisa morire, Ancor n'avrai gran pena e disconforto. - Questo diceva e molte altre parole: Oh quanto al conte ne rincresce e dole! 16 Egli avea pien de lacrime la faccia, E fo smontato in su la terra piana; Ricolse il re ferito nelle braccia, E sopra al marmo il pose alla fontana; E de pianger con seco non si saccia, Chiedendoli perdon con voce umana. Poi battizollo a l'acqua della fonte, Pregando Dio per lui con le man gionte. 17 Poco poi stette che l'ebbe trovato Freddo nel viso e tutta la persona, Onde se avide che egli era passato. Sopra al marmo alla fonte lo abandona, Così come era tutto quanto armato, Col brando in mano e con la sua corona; E poi verso il destrier fece riguardo, E pargli di veder che sia Baiardo. |
Agricane non parlò più, ma sfoderò la spada Tranchera e andò verso Orlando per affrontarlo con ardimento. Ora inizia una feroce battaglia, con aspri colpi di taglio e punta; ciascuno dei due è un esempio di prodezza, e si scontrarono, come racconta il libro [la cronaca di Turpino] da mezzogiorno sino a notte, sempre più decisi a darsi battaglia. Ma dopo che il sole era tramontato e in cielo iniziarono a comparire le stelle, il primo a parlare fu il conte [Orlando] rivolto al re: - Che cosa faremo, - disse - ora che il giorno se ne è andato? - Agricane rispose prontamente: - Entrambi ci riposeremo su questo prato; e domattina, al primo spuntare del giorno, riprenderemo il duello. - Così si accordarono insieme. Ognuno lega il suo cavallo a proprio piacimento, poi si stesero sull'erba; stavano l'uno accanto all'alto, come se tra loro ci fosse un'antica pace. Orlando giaceva steso vicino alla fontana, Agrigane era coricato vicino al bosco, all'ombra di un gran pino. E intanto parlavano insieme di argomenti degni e adatti a loro, Orlando guardava il cielo e poi diceva: - Questo che ora vediamo è un prodotto straordinario della potenza di Dio; Dio ha fatto tutto questo per gli uomini, la luna d'argento, le stelle d'oro, la luce del giorno e il sole luminoso. - Agricane disse: - Io capisco che tu vuoi parlarmi della fede; io non ho alcuna conoscenza e quando ero fanciullo non volli imparare, e anzi ruppi la testa al mio maestro come ricompensa; poi non se ne poté trovare un altro che mi insegnasse la scrittura o mi mostrasse un libro, perché tutti erano spaventati da me. E così passai la mia fanciullezza tra cacce, tornei e cavalcate; e non credo che sia degno di un nobile stare tutto il giorno a studiare sui libri; ma il cavaliere deve esercitare la forza e la destrezza. Al prete e al dottore si addice la dottrina: io so tutto quello che mi serve. - Orlando rispose: - Io sono d'accordo con te, che le armi sono il primo onore di un guerriero; ma il sapere non lo fa meno degno, anzi lo adorna come un fiore abbellisce un prato; e chi non pensa al Creatore è simile a un bue, a un sasso, a un pezzo di legno; e non si può pensare alla somma e alta maestà di Dio senza dottrina. - Agricane disse: - È molto scortese voler disputare con vantaggio. Io ti ho svelato la mia natura e riconosco che sei dotto e saggio. Se parlerai ancora, non ti risponderò; se vuoi dormire fallo pure, e se invece vuoi parlare con me parlami di armi o di amore. Ora ti prego di rispondere sinceramente alla mia domanda, con la fede di un uomo nobile: dimmi se tu sei davvero quell'Orlando che ha tanta fama nel mondo; e perché sei arrivato qui [ad Albraca], e come e quando, e se sei mai stato innamorato; perché se un cavaliere è senza amore, in apparenza è vivo ma lo è senza cuore. - Il conte rispose: - Io sono quell'Orlando che uccise Almonte e suo fratello Troiano; l'amore mi ha spinto ad abbandonare ogni cosa, e mi induce a venire in questo luogo strano. E per spiegarti meglio, voglio che tu sappia che il mio cuore appartiene alla figlia del re Galifrone [Angelica], che ora è tra le mura di Albraca. Tu fai guerra a suo padre con gran furore, per conquistare il suo regno e i suoi castelli, e io invece son condotto qua dall'amore e per piacere a questa fanciulla. Molte volte sono stato in sella per l'onore e la mia fede; ora invece combatto solo per conquistare quella bella dama, e non ho altre ambizioni. - Quando Agricane capì che questo era Orlando e che amava Angelica, si turbò in viso in modo incredibile, ma non lo mostrava a causa del buio; piangeva tra i sospiri come uno sciocco, l'anima, il petto e lo spirito gli bruciavano; e una tale gelosia gli fa battere il cuore che non è vivo, e non muore di dolore. Poi disse a Orlando: - Tu devi pensare che non appena farà giorno, riprenderemo il duello e uno di noi rimarrà morto sul prato. Ora ti prego di una cosa: prima che veniamo a battaglia, abbandona questa fanciulla che il tuo cuore desidera e lasciala a me. Io non potrei sopportare, essendo in vita, che un altro amasse come me quel bel viso; uno di noi domani sarà privo della vita e della dama. Nessuno saprà mai, all'infuori di questa fontana e di questo bosco che ci attornia, che tu l'hai rifiutata in questo luogo e in questo tempo, che sarà così breve. - Orlando diceva al re: - Io ho mantenuto tutte le promesse che ho fatto; ma se ora io promettessi quello che mi chiedi e lo giurassi, non lo manterrei; piuttosto che lasciare l'amore di Angelica, preferirei strapparmi le membra e gli occhi dalla testa, e vivere senza spirito e senza cuore. - Il re Agricane, che ardeva in modo incredibile, non può sopportare questa risposta; anche se è il cuore della notte, prese Baiardo e vi montò in groppa; e orgoglioso, con sguardo torvo, grida verso Orlando e lo sfida, dicendo: - Cavaliere, ti conviene lasciare questa bella dama, o batterti con me. - Il conte era già montato in sella, perché non appena il possente re si era mosso, temendo un tradimento del pagano, saltò subito sul suo cavallo; quindi rispose in modo ardito: - Non posso assolutamente lasciare Angelica, e se anche potessi non lo vorrei; dovrai conquistarla in altro modo. - I cavalieri iniziarono l'assalto come il mare quando è scosso dalla tempesta, soffiando il fortunale; sul verde prato, nella notte oscura, spronano i loro destrieri e si urtano; e si vedevano alla luce della luna dandosi colpi spietati e feroci, poiché ciascuno di loro era forte e coraggioso. Ma non dico altro: il canto finisce qui. Signori e cavalieri innamorati, cortesi e graziose damigelle, venite qui ad ascoltare le grandi avventure e le guerre amorose che fecero gli antichi e nobili cavalieri, e furono degne e gloriose nel mondo; ma soprattutto Orlando e Agricane compirono imprese grandi e nobili per amore. Come dissi nel canto precedente, ciascuno di loro combatte con un assalto duro e spietato per una donna; e benché sia notte e il cielo sia buio, ognuno dei due bada a non scoprirsi e, anzi, stanno in guardia e si difendono da ogni lato, come se fosse pieno giorno. Agricane combatteva con maggior furore, il conte agiva in modo più prudente; avevano lottato da più di cinque ore, e ormai spuntava l'alba a oriente: ora inizia lo scontro più duro. Il superbo Agricane si disperava che il duello contro Orlando durasse tanto e sferrò un colpo incredibilmente violento. Il colpo disperato giunse di taglio e spezzò lo scudo in mezzo, come se fosse di latte; non può ferire Orlando, che è fatato, ma gli fracassa insieme le piastre e la maglia [dell'armatura]. Il conte franco non poteva respirare, anche se Tranchera [la spada di Agricane] non tagliava la sua carne; la percossa fu così dura che gli aveva fiaccato i nervi e ammaccato le ossa. Ma non per questo rimase sbigottito, anzi colpì con maggior durezza. Colpì lo scudo e lo spezzò, distruggendo ogni piastra e maglia della corazza, e ferì Agricane nel fianco sinistro; e quel colpo fu talmente aspro, che lo scudo finì sul prato troncato di netto, e ben tre costole di Agricane furono tagliate. Come il leone ruggisce nella foresta, dopo essere stato ferito dal cacciatore, così il fiero Agricane sferra un altro colpo con incredibile forza. Colpì l'elmo di Orlando, al centro della testa; il conte non ricevette mai una botta maggiore, ed ha perso conoscenza al punto che non sa se ha ancora la testa attaccata al collo. Non vedeva alcuna luce con gli occhi, e entrambe le orecchie gli ronzavano; il suo veloce cavallo si spaventò e lo portava fuggendo intorno al prato; e sarebbe certo caduto, se quello stordimento fosse durato ancora; ma poiché stava per cadere, per questo gli tornò lo spirito e si tenne all'arcione. E si vergognò di se stesso, vedendosi sopraffatto in tal modo. "Come ti presenterai - diceva tra sé con dolore - ad Angelica così disonorato? Non ricordi quel viso amoroso, che ti ha spinto a questa battaglia? Ma chi riceve una richiesta e indugia a fare il suo dovere, e lo fa troppo tardi, perde la sua ricompensa. Da due giorni sono impegnato nel duello con un solo cavaliere e me lo ritrovo ancora di fronte, e non ho più vantaggio di ieri. Ma se non finisco questo scontro in un'ora, lascio le armi ed entro in monastero: mi faccio frate e mi chiamo dannato, e non mi si vedrà mai più una spada al fianco". Non si sente la fine di queste parole, poiché batte i denti e smozzica le parole; il fiato che gli esce da naso e bocca sembra fuoco acceso di furore. Va dritto verso Agricane, impugnando Durindana con entrambe le mani lo colpisce sopra la spalla destra; quel terribile colpo la taglia tutta. La spada crudele scende verso il petto e spezza la corazza, taglia la cotta; anche se questa è spessa e di una maglia fitta, la taglia tutta fin sotto il fianco: non si vide mai una tale rovina. La spada scese fino all'arcione: questo era d'osso e con ferro attorno, ma Durindana lo mandò sul prato. Il re tanto forte era tagliato al fianco destro, nell'inguine piagato; perse la vista ed aveva la faccia pallida, come colui che è giunto alla morte; e benché gli mancassero spirito e anima, chiamava Orlando e con parole accorte sospirando gli diceva a bassa voce: - Io credo nel tuo Dio, che morì sulla croce. Battezzami, guerriero, nella fontana prima che io perda del tutto la parola; e se la mia vita è stata ingiusta e strana, almeno non sia la mia morte ribelle a Dio. Lui, che venne a salvare l'umanità, accolga la mia povera anima! Confesso di aver molto peccato, ma la sua misericordia è molto grande. - Quel re, che fu tanto fiero, piangeva e teneva il viso sempre rivolto al cielo; poi disse a Orlando: - Cavaliere, oggi hai conquistato il più valido cavallo che sia mai stato montato al mondo, secondo me; fu tolto a un forte guerriero [Astolfo], che è prigioniero nel mio campo. Ormai non posso più stare in vita: levami tu dall'arcione, accorto guerriero. Orsù, non lasciare morire quest'anima! Battezzami, poiché ormai sono morto. Se tu mi lasci morire in questo modo, ne avrai grande sconforto e pena. - Questo diceva e molte altre parole: oh, quanto il conte se ne dispiace! Egli aveva la faccia piena di lacrime, e smontò da cavallo; raccolse il re ferito tra le sue braccia, e lo pose sopra il marmo della fontana; e non si saziava di piangere, chiedendogli perdono con voce cortese. Poi lo battezzò nell'acqua della fonte, pregando Dio per lui a mani giunte. Passò poco tempo prima che lo vedesse freddo nel viso e in tutto il corpo, per cui capì che era morto. Lo lasciò sul marmo della fontana, con indosso l'armatura, con la spada in mano e con la sua corona; e poi iniziò a guardare il suo cavallo, e gli sembrò che fosse proprio Baiardo. |
Interpretazione complessiva
- L'episodio, che si colloca al centro del I libro, è uno dei più celebri del poema e oppone Orlando, il campione dei cristiani in cerca di Angelica, ad Agricane, il bellicoso re di Tartaria anch'egli innamorato della fanciulla e intento ad assediare la città di Albraca nella quale lei si è nascosta: il duello "singolare" si svolge lontano dalla città, in una sorta di locus amoenus in cui Agricane ha attirato il paladino franco e dove lo scontro si svolge senza alcun testimone. Il duello è feroce e senza esclusione di colpi, tuttavia al sopraggiungere della notte i due contendenti sospendono le ostilità e decidono di riposare sino al mattino dopo, dormendo accanto in perfetta armonia in virtù di una tregua (poco verosimile, ma simile a quella della Pentecoste con cui si apre il poema; ► TESTO: L'apparizione di Angelica). Orlando approfitta della pausa notturna per cercare di convertire Agricane al Cristianesimo, cosa che inizialmente suscita la piccata reazione del re tartaro, che però alla fine del duello chiederà al suo avversario di dargli il battesimo. L'intera scena rientra ovviamente in quella celebrazione della cortesia che è uno dei temi portanti dell'opera e che ha tanti altri esempi nella narrazione, spesso in occasione dei duelli.
- Durante il dialogo notturno avviene una sorta di agnitio (riconoscimento), in quanto Orlando non solo conferma ad Agricane la sua identità, ma rivela anche di essere innamorato come lui di Angelica e di essere giunto fin lì solo per amore, che dunque è il solo movente della sua azione guerresca (cfr. XVIII.48.3-4: "Ed io qua son condotto per amore / E per piacere a quella damisella"), mentre poco oltre dichiara che l'amore e non la fede è la ragione per cui combatte. Tutto ciò rientra nella novità tematica dell'innamoramento di Orlando e le affermazioni del paladino suscitano la rabbia e la gelosia di Agricane, che vuol riprendere subito lo scontro senza attendere lo spuntare del giorno. L'amore si conferma come la molla dell'azione epica del poema e ciò è sottolineato dalle parole dello stesso Agricane, che nel chiedere a Orlando se sia mai stato innamorato ricorda che un cavaliere che non ama "Se in vista è vivo, vivo è senza core" (XVII.46.8, che riprende Amorum libri, I, 1, 14; ► TESTO: Amor, che me scaldava al suo bel sole).
- Alla fine dello scontro Agricane, colpito mortalmente, dichiara di essersi convertito alla fede cristiana e chiede ad Orlando di battezzarlo, cosa che il paladino fa con l'acqua della vicina fontana e non senza spargere molte lacrime per il re tartaro che ha ucciso: la conclusione dell'episodio verrà ripresa in gran parte da Torquato Tasso nel canto XII della Gerusalemme liberata, quando Clorinda (anche lei morente dopo il duello con Tancredi) rivolge la stessa richiesta al suo nemico e ottiene così la grazia, con la differenza che Tancredi era innamorato di lei e solo alla fine scopre di aver ucciso la donna amata (► TESTO: Il duello di Tancredi e Clorinda). Altre analogie tra i due episodi sono la pausa del combattimento, durante la quale avviene una agnitio che eccita uno dei due contendenti a riprendere lo scontro (nella Liberata Clorinda rivela di essere uno dei due guerrieri che hanno incendiato la torre), nonché il fatto che il duello avviene di notte, in un luogo remoto senza altri testimoni, inoltre la fase finale del combattimento si svolge alle prime luci dell'alba.
- Agricane prima della conversione viene presentato come un re pagano feroce e sprezzante, rozzo e privo di cultura (dichiara di essere un illetterato e di avere spaccato la testa da ragazzo a un suo maestro), dedito unicamente alla guerra e ai tornei cavallereschi, benché anch'egli sia in qualche modo ingentilito dall'amore; la sua figura ricorda quelle di altri guerrieri saraceni del Furioso e nel poema di Ariosto comparirà suo figlio Mandricardo, non meno animoso di lui e autore di alcune imprese guerresche tra cui il rapimento di Doralice e l'uccisione di Zerbino.
- Agricane è in possesso di Baiardo, il prodigioso cavallo di Ranaldo, poiché a lui l'aveva sottratto Astolfo, il quale era poi giunto fortunosamente ad Albraca e si era unito alle forze che difendevano la città contro il re dei Tartari; sconfitto sul campo, era stato fatto prigioniero (I.X.34) e il cavallo era finito ad Agricane, che in punto di morte lo dona al vincitore Orlando. Questi non potrà tuttavia tenerlo, poiché il cavallo da lui montato rifiuterà di combattere contro Ranaldo nel duello che avverrà sotto le mura di Albraca (I.XXVI.27).