Letteratura italiana
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Giovanni Boccaccio


L'amore di Fiammetta
(Elegia di Madonna Fiammetta, I)

Il passo descrive il primo incontro tra la protagonista del romanzo, la nobildonna napoletana Fiammetta, e il giovane fiorentino Panfilo, mentre i due si trovano fortuitamente in chiesa: le circostanze dell'innamoramento riprendono quelle di Dante e Beatrice nella "Vita nuova", come anche l'immediatezza del sentimento che si impadronisce della donna al solo vedere l'uomo, che ricorda casi analoghi della letteratura cortese e dello Stilnovo. La novità è il fatto che la voce narrante è femminile, con un punto di vista ribaltato rispetto alla tradizione stilnovista, e soprattutto che l'adulterio non è affatto condannato dall'autore ma, anzi, Fiammetta è presentata come eroina tragica "tradita" dal suo amante infedele.

► PERCORSO: La prosa del XIII-XIV sec.
► AUTORE: Giovanni Boccaccio






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Mentre che io in cotal guisa, poco altrui rimirando, e molto da molti rimirata, dimoro, credendo che la mia bellezza altrui pigliasse, avvenne che l’altrui me miseramente prese. [1] E già essendo vicina al doloroso punto [2], il quale o di certissima morte o di vita più che altra angosciosa dovea essere cagione, non so da che spirito mossa, gli occhi con debita gravità elevati, intra la multitudine de’ circustanti giovini con acuto riguardamento distesi [3]; e oltre a tutti, solo e appoggiato ad una colonna marmorea, a me dirittissimamente uno giovine opposto vidi [4]; e, quello che ancora fatto non avea d’alcuno altro, da incessabile fato mossa, meco lui e li suoi modi cominciai ad estimare. [5] Dico che, secondo il mio giudicio, il quale ancora non era da amore occupato, egli era di forma bellissimo, negli atti piacevolissimo e onestissimo nell’abito suo, e della sua giovinezza dava manifesto segnale crespa lanugine, che pur mo’ occupava le guance sue [6]; e me non meno pietoso che cauto rimirava tra uomo e uomo. [7] Certo io ebbi forza di ritrarre gli occhi da riguardarlo alquanto, ma il pensiero, dell’altre cose già dette estimante, niuno altro accidente, né io medesima sforzandomi, mi poté tòrre. [8] E già nella mia mente essendo l’effigie della sua figura rimasa, non so con che tacito diletto meco la riguardava, e quasi con più argomenti affermate vere le cose che di lui mi pareano, contenta d’essere da lui riguardata, talvolta cautamente se esso mi riguardasse mirava.
Ma intra l’altre volte che io, non guardandomi dagli amorosi lacciuoli
[9], il mirai, tenendo alquanto più fermi che l’usato ne’ suoi gli occhi miei, a me parve in essi parole conoscere dicenti: "O donna, tu sola se’ la beatitudine nostra". Certo, se io dicessi che esse non mi fossero piaciute, io mentirei; anzi sì mi piacquero, che esse del petto mio trassero un soave sospiro, il quale veniva con queste parole: "E voi la mia". Se non che io, di me ricordandomi, gli le tolsi.
[10] Ma che valse? Quello che non si esprimea, il cuore lo ’ntendeva con seco, in sé ritenendo ciò che, se di fuori fosse andato, forse libera ancora sarei. Adunque, da questa ora innanzi concedendo maggiore arbitrio agli occhi miei folli, di quello che essi erano già vaghi divenuti li contentava
[11]; e certo, se gl’iddii, li quali tirano a conosciuto fine tutte le cose, non m’avessero il conoscimento levato, io poteva ancora essere mia, ma ogni considerazione all’ultimo posposta, seguitai l’appetito, e subitamente atta divenni a potere essere presa; per che, non altramente il fuoco se stesso d’una parte in un’altra balestra, che una luce, per un raggio sottilissimo trascorrendo, da’ suoi partendosi, percosse negli occhi miei, né in quelli contenta rimase, anzi, non so per quali occulte vie, subitamente al cuore penetrando, se ne gìo.
[12] Il quale, nel sùbito avvenimento di quella temendo, rivocate a sé le forze esteriori, me palida e quasi freddissima tutta lasciò. Ma non fu lunga la dimoranza, che il contrario sopravvenne, e lui non solamente fatto fervente sentii, anzi le forze tornate ne’ luoghi loro, seco uno calore arrecarono, il quale, cacciata la palidezza, me rossissima e calda rendé come fuoco, e quello mirando onde ciò procedeva, sospirai. Né da quell’ora innanzi niuno pensiero in me poteo, se non di piacergli.
[13]

[1] Credendo che la mia bellezza affascinasse qualcun altro, avvenne che quella di un altro affascinò me. [2] Al momento doloroso dell'innamoramento.
[3] Protesi gli occhi, alzati con la dovuta lentezza, con sguardo penetrante tra la folla dei giovani circostanti. [4] Vidi un giovane posto di fronte a me. [5] Iniziai a pensare tra me e me di lui e dei suoi modi. [6] Era molto giovane, come dimostrava la barba che da poco era spuntata sulle sue guance.
[7] Anche lui mi guardava tra la gente, non meno implorante che timoroso. [8] Ma nessuna cosa, neppure sforzandomi, poté distogliere il mio pensiero da lui. [9] Non badando alle insidie amorose. [10] Se non che io, tornando in me stessa, tolsi tali parole al mio sospiro. [11] Concedevo loro quello di cui erano divenuti desiderosi [guardare Panfilo]. [12] Come il fuoco si appicca da una parte all'altra, così dai suoi occhi uscì una luce che colpì i miei occhi e da lì arrivò al mio cuore. [13] Nessun altro pensiero ebbe in luogo in me, se non di cercare di piacergli.


Interpretazione complessiva

  • Il passo descrive l'inizio dell'amore di Fiammetta per Panfilo, in seguito a un incontro fortuito che avviene in chiesa durante una funzione religiosa: la situazione riprende volutamente altre simili della tradizione cortese e stilnovista, a cominciare dalla relazione tra Dante e Beatrice nella Vita nuova (l'equivoco della donna-schermo avveniva infatti proprio in chiesa; ► TESTO: La donna-schermo), inoltre Fiammetta è presa da amore per Panfilo al primo sguardo, senza neppure sapere il suo nome e venendo colpita dalla bellezza esteriore del giovane, con un altro riferimento esplicito all'episodio di Inf., V (► TESTO: Paolo e Francesca). La ripresa dei modelli stilnovisti è evidente in tutto il brano, a cominciare dall'aggettivo "onestissimo" riferito ai comportamenti di Panfilo (anche Beatrice era detta "onesta" in quanto dignitosa nei suoi gesti, ► TESTO: Tanto gentile), inoltre la donna continua a vedere nella sua mente l'immagine del giovane dai cui occhi è uscita la "luce" che ha colpito i suoi ed è arrivata al suo cuore, circostanza che rimanda a Cavalcanti (► TESTO: Voi che per li occhi). Riconduce alla tradizione cortese anche l'effetto che l'amore provoca in Fiammetta, che si ritrova "palida e quasi freddissima" (anche la lettura del libro "scolorava" il viso di Paolo e Francesca nell'episodio dell'Inferno) e  la sua incapacità di pensare ad altri se non a Panfilo, al quale desidera piacere.
  • Nonostante la ripresa di moduli e situazioni tradizionali, la novità del passo sta anzitutto nell'attribuire l'intera descrizione a Fiammetta, che narra in prima persona e spiega ciò che è accaduto dal suo punto di vista, quindi in una prospettiva femminile (come del resto faceva Francesca in Inf., V), inoltre ciò non porta alcuna condanna morale dell'adulterio da parte dell'autore ma, al contrario, Fiammetta è presentata in seguito come donna tradita e abbandonata dal suo amante, nelle vesti di "eroina tragica" che ha tutta la simpatia di Boccaccio. Ciò è segno della modernità dell'opera e rimanda a modelli della letteratura latina, anzitutto le Heroides di Ovidio e specialmente la vicenda della Didone virgiliana (Eneide, IV), in cui la vicenda amorosa con Enea è narrata dal punto di vista della regina e porta al medesimo risultato, ovvero all'abbandono della donna e al suo suicidio (qui invece Fiammetta sopravvivrà alla perdita). Ancora decisamente "medievale" è invece la presentazione di Fiammetta come soggetto non dotato di volontà propria e costretta a subire le decisioni altrui, conformemente alla concezione della donna sottomessa all'uomo che si ritrova anche nel Decameron, come si vede nel passo in cui la protagonista dice di essere diventata "atta... a potere essere presa" e attribuisce così a Panfilo l'iniziativa dell'approccio amoroso.
  • La figura di Fiammetta come "eroina tragica" anticipa altri personaggi femminili del Decameron, specie Ghismunda che presenta con lei più di un'analogia essendo una nobildonna e avendo intrecciato una relazione adultera, con la differenza che essa finirà con la morte del suo amante e col suicidio di lei (► TESTO: Tancredi e Ghismunda). L'intera vicenda di Fiammetta e Panfilo ricorda quella del giovane Boccaccio e della donna da lui amata a Napoli, anche se i termini sono curiosamente rovesciati e qui è la donna, non l'uomo, a venire abbandonata (Fiammetta era del resto il senhal attribuito dall'autore alla sua amata, indicata come una figlia di re Roberto d'Angiò).


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