Angelo Poliziano
Orfeo scende agli Inferi
(Fabula di Orfeo, 181-292)
Composto
nel 1479 durante il soggiorno a Mantova presso la corte dei Gonzaga, il
testo teatrale mette in scena il dramma di Orfeo, il poeta tracio che
per riavere la moglie Euridice (morta per il morso di un serpente mentre
tentava di sfuggire al pastore Aristeo) scende agli Inferi e ottiene da
Plutone il permesso di riportare la sposa alla luce, salvo poi perderla
nuovamente per non aver rispettato la regola di non voltarsi a
guardarla durante il ritorno in terra. Il passo che segue è la parte
centrale dell'opera, quando Orfeo ha appreso della morte di Euridice e
ha deciso di andare alle "tartaree porte" per cercare di riportarla
indietro.
► PERCORSO: L'Umanesimo
► AUTORE: Angelo Poliziano
► PERCORSO: L'Umanesimo
► AUTORE: Angelo Poliziano
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PLUTO
Chi è costui che con suo dolce nota muove l'abisso, e con l'ornata cetra? I' veggo fissa d'Issïon la rota, Sisifo assiso sopra la sua petra e le Belide star con l'urna vota, né più l'acqua di Tantalo s'arretra; e veggo Cerber con tre bocche intento e le Furie aquietate al pio lamento. ORFEO O regnator di tutte quelle genti ch'hanno perduto la superna luce, al qual discende ciò che gli elementi, ciò che natura sotto 'l ciel produce, udite la cagion de' mie' lamenti. Pietoso amor de' nostri passi è duce: non per Cerber legar fei questa via, ma solamente per la donna mia. Una serpe tra' fior nascosa e l'erba mi tolse la mia donna, anzi il mio core: ond'io meno la vita in pena acerba, né posso più resistere al dolore. Ma se memoria alcuna in voi si serba del vostro celebrato antico amore, se la vecchia rapina a mente avete, Euridice mie bella mi rendete. Ogni cosa nel fine a voi ritorna, ogni cosa mortale a voi ricade: quanto cerchia la luna con suo corna convien ch'arrivi alle vostre contrade. Chi più chi men tra' superi soggiorna, ognun convien ch'arrivi a queste strade; quest'è de' nostri passi estremo segno: poi tenete di noi più longo regno. Così la ninfa mia per voi si serba quando suo morte gli darà natura. Or la tenera vite e l'uva acerba tagliata avete colla falce dura. Chi è che mieta la sementa in erba e non aspetti che la sia matura? Dunque rendete a me la mia speranza: i' non vel cheggio in don, quest'è prestanza. Io ve ne priego pelle turbide acque della palude Stigia e d'Acheronte; pel Caos onde tutto el mondo nacque e pel sonante ardor di Flegetonte; pel pomo ch'a te già, regina, piacque quando lasciasti pria nostro orizonte. E se pur me la nieghi iniqua sorte, io non vo' su tornar, ma chieggio morte. PROSERPINA Io non credetti, o dolce mie consorte, che Pietà mai venisse in questo regno: or la veggio regnare in nostra corte et io sento di lei tutto 'l cor pregno; né solo i tormentati, ma la Morte veggio che piange del suo caso indegno: dunque tua dura legge a lui si pieghi, pel canto, pell'amor, pe' giusti prieghi. PLUTO Io te la rendo, ma con queste leggi: che la ti segua per la ceca via, ma che tu mai la suo faccia non veggi finché tra' vivi pervenuta sia; dunque el tuo gran disire, Orfeo, correggi, se non, che tolta subito ti fia. I' son contento che a sì dolce plettro s'inchini la potenza del mio scettro. Orfeo vien cantando alcuni versi lieti e volgesi. EURIDICE parla: Oimè, che 'l troppo amore n'ha disfatti ambendua. Ecco ch'i' ti son tolta a gran furore, né sono ormai più tua. Ben tendo a te le braccia, ma non vale, ché 'ndrieto son tirata. Orfeo mie, vale! ORFEO Oimè, se' mi tu tolta, Euridice mie bella? O mie furore, o duro fato, o ciel nimico, o Morte! O troppo sventurato el nostro amore! Ma pur un'altra volta convien ch'i' torni alla plutonia corte. UNA FURIA Più non venire avanti, anzi 'l piè ferma e di te stesso omai teco ti dole: vane son tuo parole, vano el pianto e 'l dolor. Tuo legge è ferma. ORFEO Qual sarà mai sì miserabil canto che pareggi il dolor del mie gran danno? O come potrò mai lacrimar tanto ch'i' sempre pianga el mio mortale affanno? Starommi mesto e sconsolato in pianto per fin ch'e' cieli in vita mi terranno: e poi che sì crudele è mia fortuna, già mai non voglio amar più donna alcuna. Da qui innanzi vo' côr e fior novelli, la primavera del sesso migliore, quando son tutti leggiadretti e snelli: quest'è più dolce e più soave amore. Non sie chi mai di donna mi favelli, po' che mort'è colei ch'ebbe 'l mio core; chi vuol commerzio aver co' mie' sermoni di feminile amor non mi ragioni. Quant'è misero l'huom che cangia voglia per donna o mai per lei s'allegra o dole, o qual per lei di libertà si spoglia o crede a suo' sembianti, a suo parole! Ché sempre è più leggier ch'al vento foglia e mille volte el dì vuole e disvole; segue chi fugge, a chi la vuol s'asconde, e vanne e vien come alla riva l'onde. Fanne di questo Giove intera fede, che dal dolce amoroso nodo avinto si gode in cielo il suo bel Ganimede; e Febo in terra si godea Iacinto; a questo santo amore Ercole cede che vinse il mondo e dal bello Ila è vinto: conforto e' maritati a far divorzio, e ciascun fugga el feminil consorzio. |
PLUTONE
Chi è costui, che con le sue dolci note e con l'elegante cetra commuove l'abisso? Io vedo la ruota di Issione ferma, Sisifo seduto sopra la sua pietra e le Danaidi che stanno con la botte vuota, né l'acqua si allontana più da Tantalo; e vedo Cerbero attento con le sue tre fauci e le Furie acquietate dal pio lamento [di Orfeo]. ORFEO O sovrani di tutti coloro che hanno perduto la luce del mondo, al quale scende tutto ciò che gli elementi e la natura producono sotto il cielo, ascoltate la ragione dei miei lamenti. Un amore pietoso è la guida dei miei passi: non percorsi questa strada per legare Cerbero, ma solamente per la mia donna. Una serpe nascosta tra i fiori e l'erba mi tolse la mia donna, anzi il mio cuore: per questo conduco la vita in una pena aspra, né posso più resistere al dolore. Ma se in voi c'è ancora una qualche memoria del vostro antico amore [di Plutone e Proserpina], se vi ricordate dell'antico rapimento, restituitemi la mia bella Euridice Ogni cosa alla fine ritorna a voi, ogni cosa mortale ricade su di noi: tutto ciò che la luna con le sue corna racchiude, deve arrivare a questi luoghi. Chi soggiorna più o meno tra gli uomini in terra, deve arrivare a queste strade; questa è l'ultima meta dei nostri passi: poi conservate su di noi un più lungo dominio. Così la mia ninfa si serba per voi quando la natura le darà la morte. Ora avete tagliato con la dura falce una tenera vite e l'uva ancora acerba. Chi potrebbe mietere l'erba quando deve crescere, senza aspettare che maturi? Dunque restituitemi la mia speranza: io non ve lo chiedo in dono, questo è un prestito [Euridice tornerà presto a voi]. Io ve lo chiedo sulle torbide acque della palude dello Stige e dell'Acheronte, per il Caos da cui nacque tutto il mondo e per il ribollente ardore del Flegetonte; per il frutto [melograno] che a te, regina, piacque quando lasciasti il nostro orizzonte. E se una sorte iniqua mi nega Euridice, io non voglio tornare al mondo, io chiedo la morte. PROSERPINA Io non avrei creduto, mio dolce sposo, che la pietà potesse entrare in questo regno: ora la vedo entrare alla nostra corte ed io sento tutto il mio cuore pieno di lei; e vedo che non solo i dannati, ma anche la Morte piange del suo terribile caso: dunque la tua dura legge si pieghi a lui, per il canto, per l'amore, per le giuste preghiere. PLUTONE Io te la restituisco, ma con queste regole: che lei ti segua lungo il buio cammino, ma tu non dovrai mai vedere il suo volto, finché non sarà tornata tra i vivi; dunque, Orfeo, tieni a freno il tuo grande desiderio, o lei ti verrà subito tolta. Io sono contento che la potenza del mio scettro si inchini a un plettro [a una melodia] così dolce. Orfeo avanza cantando alcuni versi lieti e si volta. EURIDICE parla: Ahimè, ecco che l'eccessivo amore ci ha perduti entrambi. Ecco che io ti vengo sottratta a forza e non sono ormai più tua. Tendo a te le braccia, ma non serve, poiché vengo tirata indietro. Addio, mio Orfeo! ORFEO Ahimè, tu mi sei sottratta, mia bella Euridice? O mio furore, o crudele destino, o cielo nemico, o Morte! O nostro amore, troppo sventurato! Ma è necessario che io torni un'altra volta alla corte di Plutone. UNA FURIA Non venire più avanti, anzi ferma il passo e ormai prenditela solo con te stesso: le tue parole sono vane, come lo è il pianto e il dolore. Le regole sono ben chiare. ORFEO Quale canto sarà mai tanto miserevole da eguagliare il dolore della mia grande sventura? E come potrò mai piangere tanto che io pianga sempre il mio affanno mortale? Me ne starò triste e sconsolato in pianto fino a che i cieli mi terranno in vita: e poiché il mio destino è tanto crudele, non voglio mai più amare nessuna donna. D'ora in avanti voglio raccogliere i fiori appena sbocciati, la verginità maschile, quando sono tutti leggiadri e snelli: questo è un amore più dolce e soave. Nessuno mi parli più di donne, dopo che è morta colei che possedette il mio cuore; chi vuole conversare con me, non mi parli di amore femminile. Quant'è infelice l'uomo che cambia i suoi desideri per una donna o si rallegra o rattrista per lei, o per lei si priva della sua libertà e crede al suo aspetto, alle sue parole! Infatti la donna è sempre più leggera di una foglia al vento e mille volte al giorno vuole e cambia idea: segue chi la fugge e si nasconde a chi la vuole, e va e viene come le onde alla riva. Giove testimonia ciò che dico, poiché avvinto dal dolce vincolo amoroso si gode in cielo il suo bel Ganimede; Apollo in terra si godeva Giacinto; Ercole, che vinse il mondo, cede a questo santo amore ed è vinto dal bello Ila: invito gli uomini sposati a divorziare, ciascuno fugga la compagnia delle donne. |
Interpretazione complessiva
- Metro: ottave di endecasillabi secondo lo schema epico, con rima ABABABCC, tranne i vv. 245-260 che alternano endecasillabi e settenari, secondo lo schema abAbCC - aBCBaC - ABbA (le tre strofette corrispondono alla battuta di Euridice, al lamento di Orfeo e alla risposta della Furia). Lo stile e il linguaggio sono piuttosto semplici, con assenza quasi totale di enjambents (molti versi corrispondono a una frase di senso compiuto) e forme proprie del volgare quattrocentesco, come "suo dolce nota" (v. 181), "Euridice mie bella" (v. 204), "sie" (v. 273). Non mancano latinismi come "vale", addio (v. 245, in rima equivoca con "vale" da "valere"), "huom (v. 277), "Iacinto" (v. 288).
- La fonte cui Poliziano si ispira sono i poeti classici Virgilio e Ovidio, che narrano la vicenda di Orfeo ed Euridice rispettivamente nelle Georgiche (IV, 485-527) e nelle Metamorfosi (X, 1-77), anche se nel testo vi sono poche tracce del dramma originario e tutto è trasfigurato come un'elegante rappresentazione di corte, con una serie di quadri lirici giustapposti (del resto la Fabula fu concepita proprio per essere recitata alla corte dei Gonzaga, cui forse allude la descrizione del regno di Plutone e Proserpina). Numerosi sono poi i riferimenti al mito classico, come Issione legato alla ruota, il supplizio di Sisifo e Tantalo, le Danaidi, Cerbero legato da Ercole (Orfeo nega di essere sceso agli Inferi con questo intento), mentre nell'ultima parte sono rievocati gli amori di alcuni dei dell'Olimpo (Giove e Ganimede, Apollo e Giacinto, Ercole e Ila), in gran parte tratti ancora da Ovidio e aventi in comune la matrice omosessuale che caratterizza l'ultima parte del discorso di Orfeo (sul punto si veda oltre).
- Orfeo commuove i sovrani dell'Ade non tanto col suono della cetra, quanto con un elaborato discorso retorico (una vera suasoria) con cui persuade Plutone e Proserpina a restituirgli temporaneamente Euridice, morta anzitempo nel fiore degli anni a causa della violenza di Aristeo e comunque destinata a tornare agli Inferi, per cui la concessione del dio sarà "prestanza" e non "dono". La decisione di Plutone è fortemente influenzata dal parere della sposa che è favorevole ad Orfeo, nel che si vede una chiara allusione alla clemenza e alla generosità dei sovrani terreni, forse proprio ai Gonzaga la cui corte di Mantova è adombrata in questa rappresentazione dell'Ade. Orfeo è abile a far leva, retoricamente, sull'antico amore di Plutone e della sua consorte, qui presentati come un'affiatata coppia di sposi in grado di comprendere il dramma del poeta tracio e disposti a restituirgli Euridice, a patto che lui non la guardi prima di essere ritornato in terra.
- Dopo aver perso definitivamente la moglie, Orfeo si abbandona a un pianto disperato che qui, a differenza che nei poemi classici, si colora di una sfumatura misogina e arriva a vagheggiare un amore omosessuale: il protagonista dichiara di volere cogliere "la primavera del sesso migliore", ovvero la verginità maschile, adducendo come motivo la volubilità delle donne che cambiano spesso idea e fanno stare sulla corda i loro spasimanti (argomento forse autobiografico e ben poco attinente alla vicenda del poeta tracio, il cui matrimonio non era certo infelice). La celebrazione dell'amore per i giovinetti non era rara nella poesia greca e latina, mentre suona scandalosa e moderna nella poesia del Quattrocento e dimostra l'enorme distanza di Poliziano dalla tradizione del Medioevo, cui si ricollega solo in parte per la tematica misogina. Nel finale del testo Orfeo verrà ucciso dalle Baccanti, irritate dal suo disprezzo per l'amore femminile.