Letteratura italiana
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Dino Compagni


Le prepotenze dei guelfi neri
(Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi, II, 19)

In questa celebre pagina della "Cronica" lo storico Dino Compagni, guelfo bianco impegnato nel governo politico del Comune di Firenze, descrive le soperchierie e gli abusi commessi dai guelfi neri dopo il colpo di mano che permise loro di assumere il potere in città, in seguito all'intervento del finto paciere Carlo di Valois spalleggiato da papa Bonifacio VIII (episodio che causò numerose condanne all'esilio per molti esponenti di parte bianca, incluso Dante Alighieri). Il tono del cronista è risentito e vibrante di sdegno per le ingiustizie commesse dai capi-fazione ormai padroni di Firenze e lo stesso sentimento si avverte, sia pure su un più elevato piano artistico, in molte pagine della "Commedia" dantesca.

► PERCORSO: La prosa del XIII-XIV sec.










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La Signoria, dopo chiamati inutilmente i cittadini alla difesa, incominciandosi la distruzione della città, esce d’ufficio. Riforma dello Stato con una nuova Signoria di Priori Neri. Elezione di nuovo Potestà (6 - 9 novembre 1301).

Ritenuti [1] così i capi di Parte bianca, la gente sbigottita si cominciò a dolere. I priori comandorono che la campana grossa fusse sonata, la quale era su il loro palazo: benché niente giovò, perché la gente, sbigottita, non trasse. [2] Di casa i Cerchi [3] non uscì uomo a cavallo né a piè, armato. Solo messer Goccia e messer Bindo Adimari, e loro fratelli e figliuoli, vennono al palagio; e non venendo altra gente, ritornorono alle loro case, rimanendo la piaza abandonata.
La sera apparì in cielo un segno maraviglioso; il qual fu una croce vermiglia, sopra il palagio de’ priori. Fu la sua lista ampia più che palmi uno e mezo; e l’una linea era di lungheza braccia XX in apparenza, quella attraverso un poco minore; la qual durò per tanto spazio, quanto penasse un cavallo a correre due aringhi. [4] Onde la gente che la vide, e io che chiaramente la vidi, potemo comprendere che Iddio era fortemente contro alla nostra città crucciato.
Gli uomini che temeano i loro adversari, si nascondeano per le case de’ loro amici; l’uno nimico offendea l’altro: le case si cominciavano ad ardere: le ruberie si faceano; e fuggivansi gli arnesi alle case degli impotenti [5]: i Neri potenti domandavano danari a’ Bianchi: maritavansi fanciulle a forza: uccideansi uomini. E quando una casa ardea forte, messer Carlo [6] domandava: "Che fuoco è quello?". Erali risposto che era una capanna, quando era un ricco palazzo. E questo malfare [7] durò giorni sei; ché così era ordinato. Il contado ardea da ogni parte.
I priori per piatà della città, vedendo multiplicare il malfare, chiamorono merzè a molti popolani potenti, pregandoli per Dio avessono pietà della loro città; i quali niente ne vollono fare. E però lasciorono il priorato.
Entrorono i nuovi priori a dì VIII di novembre 1301: e furono Baldo Ridolfi, Duccio di Gherardino Magalotti, Neri di messer Iacopo Ardinghelli, Ammannato di Rota Beccannugi, messer Andrea da Cerreto, Ricco di ser Compagno degli Albizi, Tedice Manovelli gonfaloniere di giustizia; pessimi popolani, e potenti nella loro parte. Li quali feciono leggi, che i priori vecchi in niuno luogo si potessono raunare, a pena della testa. [8] E compiuti i sei dì utili stabiliti a rubare, elessono per podestà messer Cante Gabrielli d’Agobbio; il quale riparò a molti mali e a molte accuse fatte, e molte ne consentì.




[1] Trattenuti in carcere.
[2] Perché non fece uscire di casa la gente terrorizzata.
[3] Dalle case dei Cerchi, la potente famiglia di parte bianca.
[4] Durò tanto tempo quanto impiega un cavallo a percorrere due giri di campo in una corsa.
[5] Si nascondevano le ricchezze nelle case degli uomini non in vista, nel tentativo di salvarle dalle ruberie.
[6] Carlo di Valois.
[7] Questo malaffare, queste prepotenze
.






[8] A pena di essere messi a morte.


Interpretazione complessiva

  • Il breve capitolo descrive il precipitare degli eventi a Firenze nel 1301, quando Carlo di Valois (il finto "paciaro" venuto in città per stabilire negoziati tra le due parti in contesa, ma in realtà inviato da papa Bonifacio VIII e segretamente d'accordo coi capi di parte nera) favorisce con un colpo di mano la presa di potere dei guelfi neri e tollera la scia di prepotenze, uccisioni, ruberie e saccheggi che essi scatenano a danni dei loro avversari politici. Il brano, nella sua relativa brevità, racconta i fatti con uno stile essenziale e frasi concise, che mettono l'accento soprattutto sull'irresolutezza dei guelfi bianchi, raggirati dalle false promesse di Carlo e incapaci di organizzare una resistenza, e sul segnale sinistro che appare in cielo la sera, ovvero la croce rossa fiammeggiante che sembra presagire terribili sciagure per la città di Firenze (l'autore assicura di avere visto lui stesso lo strano fenomeno, secondo il procedimento tipico della storiografia antica dell'autopsìa).
  • Il brano è preceduto e seguito nell'opera da sdegnate apostrofi nei confronti dei fiorentini e soprattutto dei guelfi neri colpevoli di aver calpestato la giustizia, soprattutto quel Corso Donati che era uno dei più violenti capi-fazione di parte nera (nel cap. 20 si dice di lui che era "più crudele" del romano Catilina e "con l’animo sempre intento a malfare") e che fu attaccato pesantemente anche da Dante nella Commedia, in cui profetizza la sua morte violenta nel canto XXIV del Purgatorio. La narrazione di Compagni, benché di parte e animata dallo sdegno verso i suoi avversari politici, rende bene l'atmosfera di odî civili e lotte sanguinarie che caratterizzarono la vita politica di Firenze all'inizio del XIV sec., che è lo stesso clima in cui vennero esiliati, tra gli altri, Dante Alighieri (all'epoca dei fatti in missione diplomatica a Roma) e ser Petracco, il padre di Francesco Petrarca.


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