Dante Alighieri
Dante all'amico fiorentino
(Epistole, XII)
È il testo completo della lettera (scritta sicuramente dopo il 19 maggio 1315) in cui Dante, rivolgendosi a un non meglio identificato amico di Firenze, respinge con sdegno la possibilità offerta a lui e ad altri esuli di parte bianca di approfittare dell'amnistia concessa dai Guelfi Neri, che imponeva il pagamento di un'ammenda e di sottoporsi a una cerimonia di pubblica penitenza. Il poeta rifiuta di tornare nella sua città al prezzo di riconoscere colpe che non ha commesso, quindi afferma con fierezza che preferisce restare in esilio, dove (nonostante le molte ristrettezze) il pane non gli mancherà.
► PERCORSO: La prosa del XIII-XIV sec.
► AUTORE: Dante Alighieri
► PERCORSO: La prosa del XIII-XIV sec.
► AUTORE: Dante Alighieri
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Dalla vostra lettera, che ho accolto con la dovuta riverenza e con affetto, ho appreso con grato animo e per diligente considerazione quanto vi stia a cuore ed in mente il mio rimpatrio: per la qual cosa di tanto cresce la mia riconoscenza verso di voi, quanto più di rado incontra [1] agli esuli di ritrovare amici. Ché se poi la risposta al vostro scritto non sarà quale forse la vorrebbe la viltà di certe persone, affettuosamente vi prego che, prima di giudicarla, l’esaminiate col vostro ponderato consiglio. Ecco, pertanto, quello che, con lettere di voi e di mio nipote [2] e di non pochi altri amici, mi vien fatto sapere a proposito dell’ordinanza testé fatta in Firenze sopra l’assoluzione dei banditi [3]: che se io volessi piegarmi a pagare una certa quantità di danaro e a sopportare la vergogna dell’offerta, potrei esser assolto e rientrar in patria senz’altro. Nella quale assoluzione per certo, o Padre, due cose vi sono ridicole e mal consigliate: mal consigliate, dico, per quelli che apertamente le dichiararono, dappoiché la vostra lettera, formulata con maggior discrezione e più alto senno, nulla di simile conteneva. Cotesta dunque è la revoca graziosa, con la quale Dante Alighieri è richiamato in patria, dopo le sofferenze d’un esilio quasi trilustre? [4] Cotesto gli ha meritato un’innocenza a tutti palese? Cotesto il sudore e l’indefessa fatica negli studi? Lungi, da un uomo vissuto nella Filosofia, una così dissennata viltà di cuore, che a mo’ d’un Ciolo qualsiasi [5] e di altri infami, tolleri, quasi uomo in ceppi, d’essere offerto. Lungi da un uomo, apostolo di giustizia, che egli, dopo aver patito ingiuria, paghi del suo denaro a quelli stessi che furono ingiusti con lui, quasi a suoi benefattori. Non è questa, o Padre mio [6], la via di ritornare in patria. Ma se un’altra, da Voi prima o poi da altri, se ne troverà, la quale non deroghi alla fama e all’onore di Dante, io mi metterò per essa a passi non lenti. Che, se per nessun’altra di tali vie in Firenze si può entrare, io in Firenze non entrerò giammai. E che per questo? Le spere del sole e degli astri, non potrò forse contemplarle dovunque? Non potrò in ogni luogo sotto la volta del cielo meditare i dolcissimi veri, se io prima non mi renda spregevole, anzi abietto al popolo e alla città tutta di Firenze? E neppure un pane mi mancherà. [Traduzione di N. Sapegno, Vallecchi, Firenze 1949] |
[1] Accade. [2] Probabilmente Niccolò Donati, figlio di un fratello di Gemma Donati (moglie del poeta) e curatore degli interessi degli Alighieri a Firenze. [3] Circa l'amnistia a favore degli esuli. [4] Di quindici anni, dal 1302. [5] Forse un comune delinquente, la cui identità non ci è nota. [6] Se l'appellativo padre mio non è solo di deferenza, potrebbe indicare che l'interlocutore di Dante è un religioso. |
Interpretazione complessiva
- Il 19 maggio 1315 il governo dei Neri di Firenze aveva emesso un provvedimento di amnistia rivolto a tutti gli esuli di parte bianca, che prevedeva la possibilità di rientrare in città a patto di versare una multa e di sottoporsi a una cerimonia di penitenza pubblica in San Giovanni, durante la quale non è escluso che i beneficiari del provvedimento dovessero indossare abiti umilianti: Dante, che apprende la notizia per lettera dal destinatario di questa Epistola e da altri, rifiuta sdegnosamente in quanto egli si proclama innocente e non intende in alcun modo ammettere colpe non sue, tanto più pagando del denaro a chi lo ha fatto oggetto di un'ingiustizia. La lettera, che pur avendo un destinatario privato divenne presto pubblica, contribuì in modo decisivo a diffondere l'immagine del Dante sdegnoso e irato contro i suoi concittadini, tanto da rifiutare in modo pressoché definitivo la possibilità di rientrare a Firenze a condizioni giudicate non accettabili.
- Dal testo emerge un forte anelito di giustizia (che del resto anima tutte le opere scritte da Dante durante l'esilio) e un'insofferenza verso coloro che, come i Guelfi Neri, hanno calpestato le leggi colpendo i loro avversari politici con false accuse e illegittime condanne all'esilio: Dante presenta se stesso come "apostolo di giustizia", affermando di aver patito l'esilio per quasi quindici anni durante i quali ha palesato a tutti la propria innocenza e ha speso fatica e sudore nello studio della filosofia, per cui rifiuta con sdegno di essere messo "in ceppi" ed esibito al pubblico ludibrio come un delinquente qualsiasi, dando soddisfazione ai suoi nemici e rivali in patria e fuori. È certo che Dante nel 1315 non nutrisse più concrete speranze di poter rientrare a Firenze per altre strade, essendo ormai fallito il tentativo operato da Arrigo VII durante la sua discesa in Italia, dunque il suo sdegnoso rifiuto assume un valore morale ancor più alto e testimonia l'estrema coerenza del poeta ai suoi principi, a costo di morire in esilio (cosa che in effetti avvenne).