Torquato Tasso
La conversione di Armida
(Gerusalemme Liberata, XX, 61-68; 117-136)
Mentre infuria la terribile battaglia finale tra i Crociati e l'esercito egiziano, casualmente Rinaldo si imbatte nella maga Armida, seduta sul suo carro da guerra e circondata dai guerrieri che le hanno promesso la testa dell'uomo che l'ha abbandonata: l'incantatrice tenta più volte di colpirlo con le sue frecce, poi si rende conto di essere ancora innamorata di lui e si allontana, decisa a darsi la morte. Rinaldo, che l'ha vista mentre sbaraglia i campioni pagani della fanciulla, la segue e non solo le impedisce di suicidarsi, ma la consola con parole cortesi, alle quali la maga si dice pronta a convertirsi alla fede cristiana e a diventare la sua fedele serva, pur di restargli accanto.
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
► OPERA: Gerusalemme liberata
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
► OPERA: Gerusalemme liberata
61
Giunse Rinaldo ove su 'l carro aurato stavasi Armida in militar sembianti, e nobil guardia avea da ciascun lato de' baroni seguaci e de gli amanti. Noto a piú segni, egli è da lei mirato con occhi d'ira e di desio tremanti: ei si tramuta in volto un cotal poco, ella si fa di gel, divien poi foco. 62 Declina il carro il cavaliero e passa, e fa sembiante d'uom cui d'altro cale; ma senza pugna già passar non lassa il drapel congiurato il suo rivale. Chi il ferro stringe in lui, chi l'asta abbassa; ella stessa in su l'arco ha già lo strale: spingea le mani, e incrudelia lo sdegno, ma le placava e n'era amor ritegno. 63 Sorse amor contra l'ira, e fe' palese che vive il foco suo ch'ascoso tenne. La man tre volte a saettar distese, tre volte essa inchinolla, e si ritenne. Pur vinse al fin lo sdegno, e l'arco tese e fe' volar del suo quadrel le penne. Lo stral volò, ma con lo strale un voto súbito uscí, che vada il colpo a vòto. 64 Torria ben ella che il quadrel pungente tornasse indietro, e le tornasse al core; tanto poteva in lei, benché perdente (or che potria vittorioso?), Amore. Ma di tal suo pensier poi si ripente, e nel discorde sen cresce il furore. Cosí or paventa ed or desia che tocchi a pieno il colpo, e 'l segue pur con gli occhi. 65 Ma non fu la percossa in van diretta ch'al cavalier su 'l duro usbergo è giunta, duro ben troppo a feminil saetta, che di pungere in vece ivi si spunta. Egli le volge il fianco; ella, negletta esser credendo, e d'ira arsa e compunta, scocca l'arco piú volte e non fa piaga: e mentre ella saetta, Amor lei piaga. 66 "Sí dunque impenetrabile è costui," fra sé dicea "che forza ostil non cura? Vestirebbe mai forse i membri sui di quel diaspro ond'ei l'alma ha sí dura? Colpo d'occhio o di man non pote in lui, di tai tempre è il rigor che lo assecura; e inerme io vinta sono, e vinta armata: nemica, amante, egualmente sprezzata. 67 Or qual arte novella e qual m'avanza nova forma in cui possa anco mutarmi? Misera! e nulla aver degg'io speranza ne' cavalieri miei, ché veder parmi, anzi pur veggio, a la costui possanza tutte le forze frali e tutte l'armi." E ben vedea de' suoi campioni estinti altri giacerne, altri abbattuti e vinti. 68 Soletta a sua difesa ella non basta, e già le pare esser prigiona e serva; né s'assecura (e presso l'arco ha l'asta) ne l'arme di Diana o di Minerva. Qual è il timido cigno a cui sovrasta co 'l fero artiglio l'aquila proterva, ch'a terra si rannicchia e china l'ali, i suoi timidi moti eran cotali. [...] 117 Già di tanti guerrier cinta e munita, or rimasa nel carro era soletta: teme di servitute, odia la vita, dispera la vittoria e la vendetta. Mezza tra furiosa e sbigottita scende, ed ascende un suo destriero in fretta; vassene e fugge, e van seco pur anco Sdegno ed Amor quasi due veltri al fianco. 118 Tal Cleopatra al secolo vetusto sola fuggia da la tenzon crudele lasciando incontra al fortunato Augusto ne' maritimi rischi il suo fedele, che per amor fatto a se stesso ingiusto tosto seguí le solitarie vele. E ben la fuga di costei secreta Tisaferno seguia, ma l'altro il vieta. 119 Al pagan, poi che sparve il suo conforto, sembra ch'insieme il giorno e 'l sol tramonte ed a lui che 'l ritiene a sí gran torto disperato si volge e 'l fiede in fronte. A fabricar il fulmine ritorto via piú leggier cade il martel di Bronte, e co 'l grave fendente in modo il carca che 'l percosso la testa al petto inarca. 120 Tosto Rinaldo si dirizza ed erge e vibra il ferro e, rotto il grosso usbergo, gli apre le coste e l'aspra punta immerge in mezzo 'l cor dove ha la vita albergo. Tanto oltra va che piaga doppia asperge quinci al pagano il petto e quindi il tergo, e largamente a l'anima fugace piú d'una via nel suo partir si face. 121 Allor si ferma a rimirar Rinaldo ove drizzi gli assalti, ove gli aiuti, e de' pagan non vede ordine saldo, ma gli stendardi lor tutti caduti. Qui pon fine a le morti, e in lui quel caldo disdegno marzial par che s'attuti. Placido è fatto, e gli si reca a mente la donna che fuggia sola e dolente. 122 Ben rimirò la fuga; or da lui chiede pietà che n'abbia cura e cortesia, e gli sovien che si promise in fede suo cavalier quando da lei partia. Si drizza ov'ella fugge, ov'egli vede il piè del palafren segnar la via. Giunge ella intanto in chiusa opaca chiostra ch'a solitaria morte atta si mostra. 123 Piacquele assai che 'n quelle valli ombrose l'orme sue erranti il caso abbia condutte. Qui scese dal destriero e qui depose e l'arco e la faretra e l'armi tutte. "Armi infelici" disse "e vergognose, ch'usciste fuor de la battaglia asciutte, qui vi depongo; e qui sepolte state poiché l'ingiurie mie mal vendicate. 124 Ah! ma non fia che fra tant'armi e tante una di sangue oggi si bagni almeno? S'ogn'altro petto a voi par di diamante, osarete piagar feminil seno? In questo mio, che vi sta nudo avante, i pregi vostri e le vittorie sieno. Tenero a i colpi è questo mio: ben sallo Amor che mai non vi saetta in fallo. 125 Dimostratevi in me (ch'io vi perdono la passata viltà) forti ed acute. Misera Armida, in qual fortuna or sono, se sol da voi posso sperar salute? Poi ch'ogn'altro rimedio è in me non buono se non sol di ferute a le ferute, sani piaga di stral piaga d'amore, e sia la morte medicina al core. 126 Felice me, se nel morir non reco questa mia peste ad infettar l'inferno! Restine Amor; venga sol Sdegno or meco e sia de l'ombra mia compagno eterno, o ritorni con lui dal regno cieco a colui che di me fe' l'empio scherno, e se gli mostri tal che 'n fere notti abbia riposi orribili e 'nterrotti." 127 Qui tacque e, stabilito il suo pensiero, strale sceglieva il piú pungente e forte, quando giunse e mirolla il cavaliero tanto vicina a l'estrema sua sorte, già compostasi in atto atroce e fero, già tinta in viso di pallor di morte. Da tergo ei se le aventa e 'l braccio prende che già la fera punta al petto stende. 128 Si volse Armida e 'l rimirò improviso, ché no 'l sentí quando da prima ei venne: alzò le strida, e da l'amato viso torse le luci disdegnosa e svenne. Ella cadea, quasi fior mezzo inciso, piegando il lento collo; ei la sostenne, le fe' d'un braccio al bel fianco colonna e' ntanto al sen le rallentò la gonna, 129 e 'l bel volto e 'l bel seno a la meschina bagnò d'alcuna lagrima pietosa. Qual a pioggia d'argento e matutina si rabbellisce scolorita rosa, tal ella rivenendo alzò la china faccia, del non suo pianto or lagrimosa. Tre volte alzò le luci e tre chinolle dal caro oggetto, e rimirar no 'l volle. 130 E con man languidetta il forte braccio, ch'era sostegno suo, schiva respinse; tentò piú volte e non uscí d'impaccio, ché via piú stretta ei rilegolla e cinse. Al fin raccolta entro quel caro laccio, che le fu caro forse e se n'infinse, parlando incominciò di spander fiumi, senza mai dirizzargli al volto i lumi. 131 "O sempre, e quando parti e quando torni egualmente crudele, or chi ti guida? Gran meraviglia che 'l morir distorni e di vita cagion sia l'omicida. Tu di salvarmi cerchi? a quali scorni, a quali pene è riservata Armida? Conosco l'arti del fellone ignote, ma ben può nulla chi morir non pote. 132 Certo è scorno al tuo onor, se non s'addita incatenata al tuo trionfo inanti femina or presa a forza e pria tradita: quest'è 'l maggior de' titoli e de' vanti. Tempo fu ch'io ti chiesi e pace e vita, dolce or saria con morte uscir de' pianti; ma non la chiedo a te, ché non è cosa ch'essendo dono tuo non mi sia odiosa. 133 Per me stessa, crudel, spero sottrarmi a la tua feritade in alcun modo. E, s'a l'incatenata il tòsco e l'armi pur mancheranno e i precipizi e 'l nodo, veggio secure vie che tu vietarmi il morir non potresti, e 'l ciel ne lodo. Cessa omai da' tuoi vezzi. Ah! par ch'ei finga: deh, come le speranze egre lusinga!" 134 Cosí doleasi, e con le flebil onde, ch'amor e sdegno da' begli occhi stilla, l'affettuoso pianto egli confonde in cui pudica la pietà sfavilla; e con modi dolcissimi risponde: "Armida, il cor turbato omai tranquilla: non a gli scherni, al regno io ti riservo; nemico no, ma tuo campione e servo. 135 Mira ne gli occhi miei, s'al dir non vuoi fede prestar, de la mia fede il zelo. Nel soglio, ove regnàr gli avoli tuoi, riporti giuro; ed oh piacesse al Cielo ch'a la tua mente alcun de' raggi suoi del paganesmo dissolvesse il velo, com'io farei che 'n Oriente alcuna non t'agguagliasse di regal fortuna." 136 Sí parla e prega, e i preghi bagna e scalda or di lagrime rare, or di sospiri; onde sí come suol nevosa falda dov'arda il sole o tepid'aura spiri, cosí l'ira che 'n lei parea sí salda solvesi e restan sol gli altri desiri. "Ecco l'ancilla tua; d'essa a tuo senno dispon," gli disse "e le fia legge il cenno." |
Rinaldo arrivò dove Armida stava sul suo carro dorato, con aspetto militare, e da ogni lato aveva la nobile guardia dei guerrieri e degli amanti che la seguivano. Riconosciuto da più segni, egli è guardato da lei con occhi tremanti d'ira e desiderio: egli cambia un poco espressione, lei raggela e poi si infiamma. Il cavaliere evita il carro e passa oltre, e sembra un uomo a cui importa tutt'altro; ma il drappello degli amanti di Armida non lascia passare il suo rivale senza combattere. Alcuni impugnano contro di lui la spada, altri la lancia: Armida stessa ha incoccato la freccia al suo arco: stava per scoccare e lo sdegno la rendeva crudele, ma l'amore la placava e la tratteneva. L'amore riarse contro l'ira e fece capire che è ancora vivo il fuoco che lei tenne nascosto. Tese tre volte la mano per scagliare la freccia e per tre volte la riabbassò, e si trattenne. Alla fine prevalse lo sdegno, e tese l'arco e scagliò la freccia che volò via con le penne [della cocca]. La freccia volò, ma insieme ad essa Armida fece subito una preghiera affinché il colpo andasse a vuoto. Lei avrebbe voluto che la freccia acuminata tornasse indietro, al suo cuore; l'amore poteva tanto in lei, anche se sconfitto (e che avrebbe potuto se vittorioso?). Ma poi si ripente del suo pensiero e nel suo cuore dubbioso cresce il furore. Così ora teme, ora desidera che il colpo vada a segno e lo segue con lo sguardo. Ma il colpo non andò in fallo, poiché esso raggiunge la dura corazza del cavaliere, troppo duro per una freccia lanciata da una donna, che lì invece di trafiggere si spezza. Egli le volge il fianco; lei, credendo di essere disprezzata, e infiammata e trafitta dall'ira, scocca più frecce con l'arco che non vanno a segno: e mentre lei scaglia le frecce, l'amore la ferisce. Diceva tra sé: «Dunque costui è talmente impenetrabile da non curarsi dei colpi nemici? Forse riveste le sue membra di quel diaspro [pietra durissima] di cui ha l'anima così dura? Né uno sguardo amoroso né un colpo di mano può far breccia in lui, talmente duro è il rigore che lo protegge; e io, inerme, sono sconfitta, e lo sono anche armata: ugualmente disprezzata, sia come amante sia come nemica. Ora quale nuova arte mi resta, quale nuova forma in cui possa trasformarmi? Povera me! e non posso nutrire alcuna speranza nei miei cavalieri, poiché mi sembra di vedere, anzi lo vedo, che tutte le forze e tutte le armi sono inefficaci contro la potenza di costui». E vedeva bene che dei suoi campioni alcuni giacevano morti, altri erano abbattuti e sconfitti. Lei non è sufficiente a difendersi da sola, e le sembra già di essere fatta prigioniera e schiava; non si sente protetta né dall'arma di Diana né da quella di Minerva, avendo la lancia accanto all'arco. Come il cigno timoroso che è sovrastato dall'aquila aggressiva, e si rannicchia a terra e abbassa le ali, tali erano gli atteggiamenti di Armida. [...] Se prima era circondata e protetta da tanti guerrieri, ora è rimasta sola nel carro: teme di diventare schiava, odia la vita, non spera più nella vittoria e nella vendetta. Scende dal carro, a metà tra furiosa e sbigottita, e sale in fretta su un suo cavallo; fugge via e la seguono Sdegno e Amore, come due cani da caccia al suo fianco. Così Cleopatra nell'antichità fuggiva sola dalla crudele battaglia [di Azio], lasciando tra i rischi del mare contro il fortunato Augusto il suo fedele amante [Antonio], che, diventato per amore ingiusto contro se stesso, presto seguì le vele solitarie. Anche Tisaferno voleva seguire la fuga segreta di Armida, ma Rinaldo glielo impedì. Al pagano, dopo che il suo conforto [Armida] era scomparso, sembrò che il giorno tramontasse insieme al sole e si volge disperato a colui [Rinaldo] che lo trattiene senza alcun diritto e lo colpisce in faccia. Il martello di Bronte [uno dei ciclopi di Vulcano] cade assai più leggero a fabbricare il fulmine serpeggiante, e Tisaferno colpisce con il fendente in modo così duro che piega la testa sul petto a Rinaldo. Rinaldo si rialza e si drizza subito, e alza e vibra la spada e, spezzata la spessa corazza, gli apre le costole e immerge l'aspra punta in mezzo al cuore, dove la vita risiede. La spinge tanto a fondo che al pagano si apre una doppia ferita nel petto e nella schiena, e la sua anima fuggevole trova più di una via spaziosa per andar via. Allora Rinaldo si ferma a guardare dove può dirigere i suoi assalti e gli aiuti, ma non vede più alcuna schiera dei pagani ancor salda, tutti i loro vessilli sono ormai caduti. Allora mette fine alle uccisioni e sembra che quel feroce disdegno militare si attenui in lui. Si calma e gli torna in mente la donna [Armida] che era fuggita sola e addolorata. Aveva visto la fuga; ora la pietà gli impone di prendersi cura di lei e di essere cortese, e si ricorda che le aveva promesso di essere suo cavaliere quando l'aveva lasciata. Si dirige dove lei fugge, dove vede che gli zoccoli del suo cavallo hanno lasciato tracce. Lei intanto arriva in una solitaria e ombrosa valletta, che sembra adatta a un solitario suicidio. Le piacque molto che il caso avesse portato i suoi passi erranti in quelle valli ombrose. Qui smontò da cavallo e depose l'arco, la faretra, tutte le armi. Disse: «Armi infelici e vergognose, che siete uscite dalla battaglia non macchiate di sangue, vi depongo qui; e resterete sepolte qui, poiché avete vendicato male le mie offese. Ah, ma non accadrà che tra tante armi almeno una, oggi, non si bagni di sangue? Se ogni altro petto vi sembra duro come il diamante, oserete almeno ferire il petto di una donna? In questo mio petto, che vi sta di fronte nudo, siano riposti i vostri pregi e le vittorie. Questo mio petto è tenero ai colpi: lo sa bene Amore, che non scaglia mai in fallo le sue frecce contro di esso. Dimostrate di essere forti e aguzze contro di me (io vi perdono la passata viltà). Povera Armida, in quale destino mi trovo, se solo da voi posso sperare salvezza? Poiché ogni altro rimedio per me è inefficace, se non quello che opponga ferite a ferite, la piaga di una freccia guarisca la piaga d'amore, e la morte sia la medicina del mio cuore. Felice me, se morendo non porto questa mia passione funesta a infettare l'inferno! Amore resti qui, venga solo con me lo Sdegno e sia compagno eterno della mia ombra, oppure ritorni con Amore dal regno degli inferi a colui [Rinaldo] che mi schernì in modo scellerato, e gli si mostri in modo tale che abbia riposi orribili e pieni di incubi nelle notti spaventose». Qui tacque, e presa la decisione [di uccidersi], sceglieva la freccia più acuminata e più dura, quando il cavaliere arrivò e guardò lei, che era tanto vicina alla sua morte, con atteggiamento già atroce e feroce, già col viso tinto di pallore e morte. Le si avventa alle spalle e le afferra il braccio che già tendeva la feroce punta al petto. Armida si voltò e lo guardò inaspettato, infatti non lo aveva sentito quando si era avvicinato: si mise a gridare e distolse con disdegno gli occhi dal viso amato, e svenne. Cadeva come fiore reciso per metà, piegando il morbido collo; lui la sostenne, le fece da colonna al bel fianco col suo braccio e intanto le allentò la veste sul petto, e bagnò con alcune lacrime pietose il bel volto e il bel seno alla poveretta. Come una rosa appassita ritorna bella alla pioggia argentea del mattino [la rugiada], così lei rinvenendo alzò la faccia chinata, che ora era bagnata di lacrime non sue. Tre volte alzò lo sguardo e per tre volte le abbassò dal caro volto di Rinaldo, e non lo volle guardare. E con la mano debole tentò di allontanare il forte braccio, che le faceva da sostegno; tentò più volte di divincolarsi senza riuscirci, poiché lui la trattenne e la strinse ancor più forte. Alla fine, stretta in quel caro laccio, che forse le fu caro e finse il contrario, parlando incominciò a versare tante lacrime, senza mai guardarlo al volto con gli occhi. «Tu che sei sempre crudele, quando parti e quando ritorni, chi ti guida? È ben strano che l'omicida sia colui che allontana la morte e riporta la vita. Tu cerchi di salvarmi? a quali umiliazioni, a quali pene è destinata Armida? Conosco le astuzie ignote del traditore, ma nulla può contro di esse chi non può morire. Certo è un'infamia al tuo onore, se non viene indicata una donna incatenata di fronte al tuo trionfo, ora catturata con la forza e prima tradita: questo è il maggiore dei tuoi titoli e delle tue vittorie. Ci fu un tempo in cui ti chiesi la pace e la vita, ora sarebbe dolce uscire dalla pena con la morte; ma non la chiedo a te, poiché non c'è alcuna cosa che, essendo tuo dono, non mi sia odiosa. Spero, o crudele, di sottrarmi da me stessa in qualche modo alla tua ferocia. E se mancheranno il veleno o le armi a me incatenata, né potrò gettarmi in un precipizio o impiccarmi, vedo vie sicure per morire che tu non potresti vietarmi, e ne ringrazio il cielo. Smetti ormai di blandirmi. Ah! sembra che finga: come lusinga le mie deboli speranze!» Così si lamentava e lui, in cui scintilla una pudica pietà, confonde il suo pianto affannato con le lacrime [di Armida], che amore e sdegno le fanno uscire dai begli occhi; e risponde in modo dolcissimo: «Armida, tranquillizza il tuo cuore turbato: io ti riservo al regno, non alle umiliazioni; non tuo nemico, ma tuo campione e tuo servo. Guarda nei miei occhi, se non vuoi prestare fede alle parole, lo zelo della mia fedeltà. Giuro di riportarti sul trono dove hanno regnato i tuoi avi; e se piacesse al Cielo che qualche suo raggio sciogliesse il velo del paganesimo dalla tua mente, oh, come farei in modo che nessuna donna in Oriente fosse uguale a te in fortuna!» Parla e prega in tal modo, e bagna e riscalda le preghiere di lacrime sempre meno frequenti, di sospiri; perciò, come fa di solito una falda di neve dove brilla il sole o spiri un vento caldo, così l'ira che in Armida sembra così salda si scioglie e restano solo i grandi desideri. Gli disse: «Ecco la tua ancella; disponi di me come vuoi, e obbedirò a ogni tuo cenno». |
Interpretazione complessiva
- L'episodio rappresenta l'ultimo atto del "romanzo" d'amore tra Armida e Rinaldo, nonché la tappa finale della complessa evoluzione del personaggio della maga pagana che si è dapprima tramutata in donna innamorata del cavaliere cristiano, che ha irretito con un incantesimo e rapito nel giardino sulle Isole Fortunate, poi, dopo il suo abbandono, è diventata una spietata guerriera unendosi all'esercito egiziano, smaniosa di vendicarsi del Crociato: ora lo incontra sul campo di battaglia dove lui fa strage di nemici ed elimina uno ad uno anche i saraceni che Armida ha sedotto e ai quali ha chiesto di uccidere Rinaldo in nome suo, l'ultimo dei quali a cadere è il possente Tisaferno. Armida tenta più volte di colpire il suo ex-amante con una freccia, arma quanto mai simbolica in quanto rimanda all'immagine del dio Amore (spesso evocato del resto in questo passo), poi si rende conto di amarlo ancora e si allontana disperata, decisa a darsi la morte con le proprie mani credendosi ormai disprezzata dal cavaliere che, invece, la vede e la segue per adempiere alla promessa di cortesia fattale al momento della sua partenza dalle Isole Fortunate. Tutto lascerebbe intendere che la maga si uccida secondo il celebre modello delle eroine epiche, specie Didone con la quale il personaggio ha più di una analogia, invece Tancredi la raggiunge e le impedisce di trafiggersi con una freccia, con un ribaltamento inatteso della situazione che, oltretutto, lascia "aperto" il finale con una possibilità che Rinaldo ricambi i sentimenti della donna, pronta addirittura a convertirsi pur di stargli accanto (si veda oltre). L'amore non viene dunque totalmente condannato da Tasso se non in quanto elemento "sviante" che allontana i cristiani dal loro dovere, mentre conserva un potere salvifico che si è già mostrato anche nel caso di Erminia e Tancredi, con la principessa pagana che cura le ferite dell'amato e non dispera che lui possa, in futuro, ricambiare l'affetto che lei prova da tempo (► TESTO: Erminia soccorre Tancredi).
- Il passo è fitto di citazioni ed echi letterari, a cominciare dall'immagine del "diaspro" (una pietra durissima come il diamante, che i lapidari medievali mettevano in relazione con la castità) che secondo Armida cinge il corpo e il cuore di Rinaldo (66.4) e che rimanda alla canzone dantesca che fa parte delle "Petrose" in cui è detta la stessa cosa della donna Petra (► TESTO: Così nel mio parlar voglio esser aspro). La similitudine tra Armida e Cleopatra contiene un altra citazione dantesca (118.5) che imita il famoso verso con cui Pier della Vigna diceva "ingiusto fece me contra me giusto", per di più in un'immagine che attinge alla tradizione classica della regina d'Egitto come donna ammaliatrice e scellerata (► TESTO: Pier della Vigna). L'invocazione di Armida che, sul punto di uccidersi, augura a Rinaldo notti insonni sconvolte da incubi (126.7-8) riecheggia l'Eneide, IV.384-87, quando Didone promette ad Enea in procinto di lasciarla che il suo spettro lo inseguirà con fiaccole ardenti e sarà ombra ovunque; la regina di Cartagine viene ricordata anche nei vv. 129.7-8, quando si dice che Armida alza e riabbassa per tre volte gli occhi, frase che ricorda Aen., IV.690-92 quando Didone, ormai trafittasi con la spada, tenta anche lei di alzarsi dal letto e vi ricade, cercando la luce del giorno con gli occhi (la differenza è che qui Armida non è riuscita a suicidarsi e vivrà grazie all'affetto di Rinaldo). Petrarchesca è invece l'immagine di 128.7, che ovviamente ricorda Canz., 126.6 ("al bel fiancho colonna"), mentre la similitudine con il fiore reciso per metà che reclina il capo è ancora di derivazione virgiliana (Aen., IX.435-37, la descrizione della drammatica morte di Eurialo).
- La conversione di Armida che chiude l'episodio è il vero "colpo di teatro" dell'intera vicenda e rappresenta l'estrema celebrazione dell'amore come forza capace di salvare l'anima, dal momento che Tancredi auspica che Armida possa ravvedersi e abbracciare la fede cristiana nel futuro, e la donna accetta subito la proposta pur di restare accanto all'uomo che ama: le circostanze sono ben diverse rispetto alla conversione di Clorinda avvenuta in punto di morte e dopo un duello sanguinoso, e il caso di Armida è tanto più significativo in quanto tutto ciò avviene in un contesto di guerra (siamo sul campo di battaglia, a poca distanza dalle cataste di cadaveri e dalla città di Gerusalemme espugnata) e dopo che la maga ha tentato più volte di uccidere l'uomo che l'aveva abbandonata, sia pure con poca convinzione. Le ultime parole di Armida rasentano addirittura la blasfemia, dal momento che dice a Tancredi "Ecco l'ancilla tua" parafrasando le formula con cui Maria si rivolse all'arcangelo Gabriele che le annunciava la nascita di Gesù, con un accostamento tra la Vergine e la maga pagana che suona quanto meno irriverente (cfr. Luca, I.38: "Ecce ancilla Domini"). Il finale della vicenda amorosa dei due personaggi rimane "sospeso" e Tasso lascia volutamente il lettore in dubbio sul futuro di Armida, che forse vorrà davvero convertirsi e riceverà l'amore di Rinaldo, con una situazione opposta rispetto al dramma di Tancredi e Clorinda il cui destino è stato irrevocabilmente segnato. Non stupisce che l'autore abbia totalmente eliminato questo sviluppo narrativo nella Conquistata, in cui Armida viene incatenata vicino al suo palazzo dopo la liberazione di Riccardo-Rinaldo e sparisce dalle vicende del poema.