Letteratura italiana
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Torquato Tasso


«Canzone al Metauro»
(Rime d'occasione o d'encomio, II, 573)

Scritta nel 1578 mentre era in fuga da Ferrara, la canzone rimasta incompiuta vuol essere un omaggio al duca Francesco Maria II della Rovere (suo ex-compagno di studi) da cui si aspettava protezione e nel testo l'autore si rivolge idealmente al fiume Metauro, che scorre non lontano da Urbino nel territorio soggetto alla signoria dei della Rovere: Tasso rievoca con nostalgia e amarezza gli anni dell'infanzia, segnati dalla morte della madre e dall'esilio del padre, presentando se stesso come "eroe" dolente e perseguitato dalla sorte. La lirica è tra i componimenti più celebri del poeta ed è un alto esempio di stile elevato e tragico, da lui stesso indicato come tale nei "Discorsi del poema eroico".

► PERCORSO: La Controriforma 
► AUTORE: Torquato Tasso






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O del grand’Apennino
figlio picciolo sì ma glorioso,
e di nome più chiaro assai che d’onde;
fugace peregrino
a queste tue cortesi amiche sponde
per sicurezza vengo e per riposo.
L'alta Quercia che tu bagni e feconde
con dolcissimi umori, ond’ella spiega
i rami sì ch’i monti e i mari ingombra,
mi ricopra con l’ombra.
L’ombra sacra, ospital, ch’altrui non niega
al suo fresco gentil riposo e sede,
entro al piú denso mi raccoglia e chiuda,
sì ch’io celato sia da quella cruda
e cieca dèa, ch’è cieca e pur mi vede,
ben ch’io da lei m’appiatti in monte o ‘n valle
e per solingo calle
notturno io mova e sconosciuto il piede;
e mi saetta sì che ne’ miei mali
mostra tanti occhi aver quanti ella ha strali.

Ohimè! dal dì che pria
trassi l’aure vitali e i lumi apersi
in questa luce a me non mai serena,
fui de l’ingiusta e ria
trastullo e segno, e di sua man soffersi
piaghe che lunga età risalda a pena.
Sàssel la gloriosa alma sirena,
appresso il cui sepolcro ebbi la cuna:
così avuto v’avessi o tomba o fossa
a la prima percossa!
Me dal sen de la madre empia fortuna
pargoletto divelse. Ah! di quei baci,
ch’ella bagnò di lagrime dolenti,
con sospir mi rimembra e degli ardenti
preghi che se ‘n portár l’aure fugaci:
ch’io non dovea giunger più volto a volto
fra quelle braccia accolto
con nodi così stretti e sì tenaci.
Lasso! e seguii con mal sicure piante,
qual Ascanio o Camilla, il padre errante.

In aspro essiglio e ‘n dura
povertà crebbi in quei sì mesti errori;
intempestivo senso ebbi a gli affanni:
ch’anzi stagion, matura
l’acerbità de’ casi e de’ dolori
in me rendé l’acerbità de gli anni.
L’egra spogliata sua vecchiezza e i danni
narrerò tutti. Or che non sono io tanto
ricco de’ propri guai che basti solo
per materia di duolo?
Dunque altri ch’io da me dev’esser pianto?
Già scarsi al mio voler sono i sospiri,
e queste due d’umor sì larghe vene
non agguaglian le lagrime a le pene.
Padre, o buon padre, che dal ciel rimiri,
egro e morto ti piansi, e ben tu il sai,
e gemendo scaldai
la tomba e il letto: or che ne gli alti giri
tu godi, a te si deve onor, non lutto:
a me versato il mio dolor sia tutto.
O piccolo figlio del grande Appennino, e pure glorioso e illustre per fama assai più che per l'abbondanza delle acque; io, errante e fuggitivo, vengo presso queste tue cortesi e amichevoli sponde per cercare sicurezza e riposo. L'alta quercia [simbolo araldico dei della Rovere] che tu bagni e fecondi con dolcissime acque, per cui essa dispiega i rami fino a ricoprire monti e mari, possa ricoprirmi con la sua ombra.



L'ombra sacra, ospitale, che non nega agli altri riposo e sosta alla sua nobile frescura, mi accolga e mi chiuda nel suo fogliame più fitto, così che io sia nascosto da quella crudele e cieca dea [la Fortuna], che è cieca eppure mi vede, anche se io mi nascondo da lei nei monti e nelle valli e cammini di notte per un sentiero solitario e ignoto; e mi prende di mira, così che nelle mie sventure dimostra di avere tanti occhi quante sono le sue frecce.




Ahimè! Dal giorno in cui iniziai a respirare e aprii gli occhi in questa luce mai serena per me, fui il divertimento e il bersaglio dell'ingiusta e malvagia dea, e dalla sua mano ricevetti ferite che il lungo tempo a malapena fa rimarginare. Lo sa bene la gloriosa e nobile sirena [Partenope] presso la cui tomba io ebbi la culla: potessi avervi avuto la mia tomba onorata o una fossa, al primo colpo della Fortuna!



L'empia Fortuna strappò me, ancora piccolo, dall'abbraccio di mia madre. Ah, mi ricordo tra i sospiri di quei baci che lei bagnò di dolorose lacrime e delle ardenti preghiere che i fuggevoli venti si portarono via: infatti io ero destinato a non accostare più il mio volto al suo, accolto tra quelle braccia con legami così stretti e tenaci. Povero me! e dovetti seguire con passi incerti mio padre nel suo vagabondare, come se fossi Ascanio o Camilla.



Crebbi in un doloroso esilio e in una dura povertà, durante quelle tristi peregrinazioni; acquisii una precoce sensibilità agli affanni: infatti l'asprezza dei casi e delle pene fece maturare anzi tempo in me la giovinezza. Racconterò tutto sulla vecchiaia inferma e misera [di mio padre] e sui suoi danni. Non sono forse così pieno dei miei propri guai che ciò basti a fare di me solo esempio di dolore?




Dunque chi altri, oltre a me stesso, deve essere oggetto di pianto da parte mia? Ormai i sospiri sono scarsi alla mia volontà e queste due fonti così copiose di acqua [i miei occhi] non rendono le lacrime pari alle pene che provo. Padre, o buon padre, che mi guardi dal cielo, io ti piansi malato e morto, e tu lo sai bene, e tra i lamenti scaldai [con le mie lacrime] la tua tomba e [prima] il tuo letto: ora che tu sei beato nei cori celesti a te è dovuto l'onore, non il lutto: il mio dolore sia riversato tutto su di me.


Interpretazione complessiva

  • Metro: canzone formata da tre stanze di 20 versi ciascuna, alternante endecasillabi e settenari, con schema della rima aBC; aBC; CDE; eDFGGFHhFII. La lingua è il fiorentino letterario della tradizione (al v. 27 "Sàssel" significa "lo sa", secondo la forma delle Origini); presenza di latinismi al v. 28 ("cuna", culla) e ai vv. 47, 56 ("L'egra", "egro", malato).
  • Nel 1578 Tasso, dopo essere fuggito dal convento di S. Francesco e aver lasciato Ferrara, si trovava presso Urbino intenzionato a chiedere ospitalità e protezione al duca Francesco Maria della Rovere, suo vecchio amico nonché signore di quelle terre: la lirica è un omaggio celebrativo a lui e alla sua famiglia, prendendo a pretesto il dialogo col fiume Metauro che nasce sull'Appennino ed è un piccolo corso d'acqua, di grande fama perché vide nel 207 a.C. un'importante battaglia tra Romani e Cartaginesi nella seconda guerra punica. Il poeta si augura che la quercia, simbolo araldico dei della Rovere, possa proteggerlo col suo fogliame e nasconderlo dai colpi della Fortuna, che pur essendo cieca sembra avere mille occhi per colpirlo continuamente con le sue frecce (Tasso si presenta come un esule e un perseguitato, volendo dare di sé un'immagine dolente e dignitosa a causa delle sue vicissitudini personali). In effetti l'idea dell'esilio è quella dominante nella poesia, dal v. 4 in cui l'autore si definisce "fugace peregrino" e spera di trovare riposo all'ombra della quercia, alla rievocazione dell' "aspro essiglio" cui fu costretto il padre Bernardo che lo portò con sé, "errante", in "mesti errori", separandolo inoltre dalla madre che non avrebbe mai più rivisto. Tasso si descrive come un uomo sradicato e senza patria, costretto dalla sorte a vagare di terra in terra senza trovare un posto dove accasarsi, condizione che in effetti non lo avrebbe abbandonato sino alla morte (che avvenne a Roma dopo anni di inquieti viaggi e spostamenti). La lirica vuole anche essere un omaggio postumo al padre, morto nel 1569 in difficili condizioni economiche e amaramente pianto dal figlio, che ha quindi perso precocemente gli affetti della famiglia.
  • Il testo è ricco di rimandi letterari e di riferimenti storici e mitologici, a cominciare dalla rievocazione della battaglia del 207 a.C. al fiume Metauro e dalla figura della Fortuna, dea cieca che perseguita il poeta: il luogo natale di quest'ultimo, Sorrento, è indicato come vicino al sepolcro della sirena Partenope, collegata alla fondazione di Napoli, mentre il piccolo Torquato che segue il padre in esilio è paragonato a Iulo Ascanio che segue il padre Enea fuggendo da Troia e a Camilla che viene portata via dal padre Mètabo re dei Volsci (il racconto è contenuto nel libro XI dell'Eneide). L'inizio della canzone, con il poeta che idealmente si rivolge alle acque del Metauro, ricorda quello di Chiare, fresche et dolci acque di Petrarca, da cui è anche tratta l'espressione "con sospir mi rimembra" del v. 34 (Canzoniere, 126.5; ► TESTO: Chiare, fresche et dolci acque). Il testo si interrompe nel momento in cui Tasso sta per raccontare la triste vicenda del padre, non si sa se per un nuovo viaggio a Torino (dove sperava di trovare la protezione del duca di Savoia) o perché l'ispirazione della lirica era nel frattempo venuta meno.

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