Letteratura italiana
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Niccolò Machiavelli


I grandi esempi del passato
(Il principe, VI)

Il cap. è dedicato ai condottieri che sono giunti al potere con virtù e armi proprie, tra cui sono citati "grandissimi esempli" tratti dalla storia antica (Mosè, Ciro il Grande, Romolo, Teseo), contrapposti a coloro che sono diventati principi con fortuna e armi altrui, oggetto di trattazione nel cap. VII con cui questo passo forma una sorta di dittico. Tutti i personaggi citati ebbero in comune la volontà di riscattare il proprio popolo da una schiavitù straniera e furono abili a cogliere la favorevole opportunità presentata loro dalla sorte, inoltre seppero introdurre nuove leggi nelle terre conquistate e dotarsi di eserciti a loro fedeli, dal momento che i "profeti disarmati" (come Savonarola, citato alla fine del brano) sono destinati a fallire.

► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Niccolò Machiavelli

► OPERA: Il principe










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CAPITOLO VI
De principatibus novis qui armis propriis et virtute acquiruntur. [1]

Non si maravigli alcuno se, nel parlare che io farò de’ principati al tutto nuovi, e di principe e di stato, io addurrò grandissimi esempli; perché, camminando gli uomini quasi sempre per le vie battute da altri, e procedendo nelle azioni loro con le imitazioni, né si potendo le vie di altri al tutto tenere [2], né alla virtù di quelli che tu imiti aggiugnere [3], debbe uno uomo prudente intrare sempre per vie battute da uomini grandi, e quelli che sono stati eccellentissimi imitare, acciò che, se la sua virtù non vi arriva, almeno ne renda qualche odore [4]; e fare come gli arcieri prudenti, a’ quali parendo el loco dove disegnano ferire [5] troppo lontano, e conoscendo fino a quanto va la virtù del loro arco, pongono la mira assai più alta che il loco destinato, non per aggiugnere con la loro freccia a tanta altezza, ma per potere, con lo aiuto di sì alta mira, pervenire al disegno loro.
Dico, adunque, che ne’ principati tutti nuovi, dove sia uno nuovo principe, si trova a mantenerli più o meno difficultà, secondo che più o meno è virtuoso colui che gli acquista. E perché questo evento di diventare, di privato, principe [6], presuppone o virtù o fortuna, pare che l’una o l’altra di queste dua cose mitighi, in parte, di molte difficultà; nondimanco, colui che è stato meno in sulla fortuna, si è mantenuto più. [7] Genera ancora facilità essere il principe costretto, per non avere altri stati, venire personalmente ad abitarvi. Ma per venire a quelli che, per propria virtù e non per fortuna, sono diventati principi, dico che li più eccellenti sono Moisè, Ciro, Romulo, Teseo e simili. E benché di Moisè non si debba ragionare, sendo suto [8] uno mero esecutore delle cose che gli erano ordinate da Dio, tamen [9] debbe essere ammirato solum per quella grazia che lo faceva degno di parlare con Dio. Ma consideriamo Ciro e gli altri che hanno acquistato o fondato regni: li troverrete tutti mirabili; e se si considerranno le azioni e ordini loro particulari, parranno non discrepanti da quelli di Moisè, che ebbe sì gran precettore. Ed esaminando le azioni e vita loro, non si vede che quelli avessino altro dalla fortuna che la occasione; la quale dette loro materia a potere introdurvi dentro quella forma parse loro [10]; e sanza quella occasione la virtù dello animo loro si sarebbe spenta, e sanza quella virtù la occasione sarebbe venuta invano.
Era dunque necessario a Moisè trovare il populo d’Isdrael, in Egitto, stiavo [11] e oppresso dagli Egizii, acciò che quelli, per uscire di servitù, si disponessino a seguirlo. Conveniva che Romulo non capissi in Alba [12], fussi stato esposto al nascere, a volere che diventassi re di Roma e fondatore di quella patria. Bisognava che Ciro trovassi e’ Persi mal contenti dello imperio de’ Medi, e li Medi molli ed effeminati per la lunga pace. Non posseva [13] Teseo dimostrare la sua virtù, se non trovava gli Ateniesi dispersi. Queste occasioni, pertanto, feciono questi uomini felici, e la eccellente virtù loro fece quella occasione essere conosciuta; donde la loro patria ne fu nobilitata e diventò felicissima.
Quelli e’ quali per vie virtuose, simili a costoro, diventino principi acquistano el principato con difficultà, ma con facilità lo tengono; e le difficultà che gli hanno nello acquistare el principato, in parte nascono da’ nuovi ordini e modi che sono forzati introdurre per fondare lo stato loro e la loro securtà. E debbasi considerare come non è cosa più difficile a trattare, né più dubia a riuscire, né più periculosa a maneggiare che farsi capo a introdurre nuovi ordini [14]; perché lo introduttore ha per nimici tutti quelli che degli ordini vecchi fanno bene e ha tepidi defensori tutti quelli che degli ordini nuovi farebbono bene. La quale tepidezza nasce, parte per paura degli avversarii, che hanno le leggi dal canto loro, parte dalla incredulità degli uomini, li quali non credano in verità le cose nuove, se non ne veggano nata una ferma esperienza: donde nasce che qualunque volta quelli che sono nimici hanno occasione di assaltare, lo fanno partigianamente [15], e quegli altri defendano tepidamente [16]: in modo che insieme con loro si periclita. [17]
È necessario pertanto, volendo discorrere bene questa parte, esaminare se questi innovatori stiano per loro medesimi o se dependano da altri; cioè, se per condurre l’opera loro bisogna che preghino, ovvero possono forzare. Nel primo caso càpitano sempre male e non conducano cosa alcuna; ma quando dependono da loro proprii e possono forzare, allora è che rare volte periclitano. Di qui nacque che tutti e’ profeti armati vinsono e li disarmati ruinorono. [18] Perché, oltre alle cose dette, la natura de’ populi è varia; ed è facile il persuadere loro una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione; e però conviene essere ordinato in modo che, quando e’ non credono più, si possa fare loro credere per forza. Moisè, Ciro, Teseo e Romulo non arebbono possuto fare osservare loro lungamente le loro costituzioni se fussino stati disarmati: come ne’ nostri tempi intervenne a fra’ Girolamo Savonerola [19]; il quale ruinò ne’ sua ordini nuovi, come la moltitudine cominciò a non credergli; e lui non aveva modo a tenere fermi quelli che avevano creduto, né a far credere e’ discredenti. Però questi tali hanno nel condursi gran difficultà, e tutti e’ loro periculi sono fra via e conviene che con la virtù li superino: ma superati che gli hanno, e che cominciano ad essere in venerazione, avendo spenti quelli che di sua qualità li avevano invidia [20] rimangono potenti, securi, onorati, felici.
A sì alti esempli io voglio aggiugnere uno esemplo minore; ma bene arà qualche proporzione con quelli e voglio mi basti per tutti gli altri simili: e questo è Ierone Siracusano. [21] Costui, di privato diventò principe di Siracusa, né ancora lui conobbe altro dalla fortuna che la occasione; perché, sendo e’ Siracusani oppressi, lo elessono per loro capitano donde meritò d’essere fatto loro principe. E fu di tanta virtù, etiam [22] in privata fortuna, che chi ne scrive, dice: “quod nihil illi deerat ad regnandum praeter regnum”. [23] Costui spense la milizia vecchia, ordinò della nuova; lasciò le amicizie antiche, prese delle nuove; e come ebbe amicizie e soldati che fussino suoi, possé in su tale fondamento edificare ogni edifizio: tanto che lui durò assai fatica in acquistare e poca in mantenere.

[1] Sui principati nuovi che si acquistano con armi proprie e virtù. [2] Non potendo seguire in tutto e per tutto le vie percorse da altri
. [3] Né giungere alla virtù di quelli che tu imiti. [4] Affinché, se la sua virtù non raggiunge quella dell'esempio, almeno la ricordi in parte. [5] Il punto che intendono colpire.

[6] Il fatto di diventare principe da privato cittadino. [7]
Colui che è stato meno aiutato dalla fortuna, è stato maggiormente al potere.


[8] Essendo stato. [9] Tuttavia.




[10] Che diede loro modo di ottenere i risultati sperati.
[11] Schiavo.
[12] Non si accontentasse di Ala Longa.

[13] Non poteva.






[14]
Che introdurre nuove leggi e istituzioni politiche.



[15] In modo partigiano, con passione. [16] In modo tiepido, con esitazione. [17] Si va in rovina.


[18] Andarono in rovina, fallirono.

[19] Girolamo Savonarola (1452-1498), frate domenicano, fu l'ispiratore della Repubblica di Firenze, fino alla sua condanna a morte sul rogo.


[20] Avendo eliminato quelli che erano invidiosi della loro condizione. [21] Gerone II, tiranno di Siracusa (306-215 a.C.).

[22] Anche. [23] Non gli mancò nulla per regnare, tranne il regno" (Giustino, Epitome, XXIII.4).


Interpretazione complessiva

  • Il capitolo è strettamente legato al successivo, poiché in questo passo l'autore esamina il caso di chi è assurto al rango di sovrano con virtù e armi proprie, mentre nel cap. VII tratterà del caso opposto (chi è diventato principe per fortuna e milizie altrui, come Cesare Borgia; ► VAI AL TESTO): la possibilità che qualcuno possa diventare "di privato, principe" affascina Machiavelli che aveva visto personalmente vari casi del genere durante il suo servizio alla Repubblica e il suo rivolgersi ai Medici è motivato dalla volontà di farsi "consigliere" di signori giunti da poco al potere a Firenze, dopo il rovesciamento del regime repubblicano nel 1512, e bisognosi secondo lui della guida esperta di chi aveva speso gran parte della sua vita nel servizio allo Stato. In questo cap. VI gli esempi presentati sono alcuni "grandissimi" personaggi del passato, come Mosè, Ciro II il Grande, Romolo, Teseo, scelta motivata dall'autore con la necessità di indicare dei modelli quasi inarrivabili per chi deve necessariamente pensare in grande, come l'arciere che per colpire il bersaglio mira più in alto sapendo che la freccia poi scenderà nella sua parabola verso il basso. La scelta degli esempi rivela una certa approssimazione da parte dell'autore, che mescola personaggi tratti dal mito e dalla storia (Mosè, protagonista del libro biblico dell'Esodo, è subito declassato a "mero esecutore" della volontà divina), tuttavia i modelli sono accomunati dal fatto di essere stati grandi condottieri e di aver riscattato il loro popolo dalla schiavitù di popoli stranieri, come nel caso di Israele in Egitto o dei Persiani oppressi dai Medi, mentre Teseo (il mitico duca d'Atene) liberò la sua città dalla soggezione a Creta e Romolo sconfisse l'usurpatore Amulio ad Alba Longa, fondando poi la città di Roma. Non a caso tre di questi personaggi (Mosè, Ciro, Teseo) torneranno nel cap. XXVI durante l'esortazione finale ai Medici, poiché essi colsero la favorevole opportunità presentata dalla sorte per liberare i loro popoli, come i Medici dovrebbero fare cacciando dall'Italia i "barbari" (► TESTO: L'esortazione finale ai Medici).
  • La maggiore e più insidiosa difficoltà per un principe nuovo, giunto da poco alla guida di uno Stato, viene individuata da Machiavelli nell'introduzione di nuove leggi e istituzioni politiche, poiché nel fare questo il sovrano incontrerà l'opposizione di tutti quelli che traevano vantaggio dal vecchio ordinamento e, viceversa, sarà aiutato in modo tiepido da chi lo approva, dal che nasce la possibilità di subire ribellioni e tentativi di congiura: trasparente l'allusione ancora una volta alla Firenze del primo Cinquecento, dove i Medici, tornati da poco al potere, dovettero fronteggiare la cospirazione di P. P. Boscoli in cui venne coinvolto suo malgrado lo stesso Machiavelli. Essenziale in quest'opera di "ristrutturazione" dello Stato il poter contare su forze militari efficienti e non mercenarie, indispensabili per respingere gli assalti dei nemici ma, anche, per "forzare" i sudditi all'obbedienza, per cui l'autore conclude che "tutti e’ profeti armati vinsono e li disarmati ruinorono": tra i "profeti disarmati" Machiavelli include fra Girolamo Savonarola, da lui addotto come esempio negativo di chi, animato forse da buone intenzioni, fu l'ispiratore della Repubblica a Firenze ma venne poi rovesciato e condannato al rogo, proprio perché non disponeva di una forza militare fedele su cui potesse contare per resistere agli assalti degli avversari politici. Il problema delle milizie sta particolarmente a cuore allo scrittore, che infatti ne tratta anche nei capp. XII-XIV del Principe (► TESTO: Le milizie mercenarie).
  • Il capitolo si chiude con un ulteriore esempio di personaggio della storia antica, il tiranno di Siracusa Gerone II (vissuto nel III sec. a.C.) che l'autore definisce "minore" rispetto ai modelli precedenti, ma che al pari di essi seppe diventare "di privato" re della città siciliana e porre solide basi al suo potere dotandosi di "soldati che fussino suoi", inoltre creando una rete di amicizie e di alleanze politiche che lo preservarono da future ribellioni, in maniera simile a quanto fatto in epoca moderna da Francesco Sforza (il cui esempio è trattato nel cap. VII). Machiavelli si rifà agli storici antichi e in particolare all'Epitome di Giustino, scrittore latino del II sec. d.C. da cui è tratta la citazione riferita a Gerone, dall'autore lievemente modificata (il testo originale, Epit., XXIII.4, recita: "prorsus ut nihil ei regium deesse praeter regnum videretur").

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