Dante Alighieri
L'azione della fortuna
(Inferno, VII, 67-99)
Dante e Virgilio hanno appena assistito alla pena degli avari e prodighi del 4° cerchio dell'Inferno, condannati a far rotolare degli enormi massi e a cozzare gli uni contro gli altri, e il discepolo domanda al suo maestro in cosa consista esattamente la fortuna che sembra tenere i beni materiali tra i suoi artigli: il poeta latino scuote la testa a tanta ingenuità e spiega a Dante che la fortuna non è altri se non un'intelligenza angelica, preposta dalla giustizia divina all'amministrazione dei beni terreni e che agisce in base all'imperscrutabile volontà dell'Altissimo, contro la quale gli uomini non possono opporsi. Ciò spiega perché alcuni mortali si arricchiscano e altri si impoveriscano, o perché una famiglia prosperi e un'altra cada in rovina, tutto rigorosamente in base ai disegni divini che non sempre l'uomo è in grado di comprendere. La concezione della fortuna è ancora legata alla cultura medievale, che mette Dio al centro di tutto, ed è lontanissima da quella che verrà elaborata in età umanistica in base alla quale essa è il capriccio del caso, come detto da Machiavelli nel "Principe".
► PERCORSO: La poesia religiosa
► AUTORE: Dante Alighieri
► OPERA: Divina Commedia
► PERCORSO: La poesia religiosa
► AUTORE: Dante Alighieri
► OPERA: Divina Commedia
69 72 75 78 81 84 87 90 93 96 99 |
«Maestro mio», diss’io, «or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche, che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?». E quelli a me: «Oh creature sciocche, quanta ignoranza è quella che v’offende! Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche. Colui lo cui saver tutto trascende, fece li cieli e diè lor chi conduce sì ch’ogne parte ad ogne parte splende, distribuendo igualmente la luce. Similemente a li splendor mondani ordinò general ministra e duce che permutasse a tempo li ben vani di gente in gente e d’uno in altro sangue, oltre la difension d’i senni umani; per ch’una gente impera e l’altra langue, seguendo lo giudicio di costei, che è occulto come in erba l’angue. Vostro saver non ha contasto a lei: questa provede, giudica, e persegue suo regno come il loro li altri dèi. Le sue permutazion non hanno triegue; necessità la fa esser veloce; sì spesso vien chi vicenda consegue. Quest’è colei ch’è tanto posta in croce pur da color che le dovrien dar lode, dandole biasmo a torto e mala voce; ma ella s’è beata e ciò non ode: con l’altre prime creature lieta volve sua spera e beata si gode. Or discendiamo omai a maggior pieta; già ogne stella cade che saliva quand’io mi mossi, e ’l troppo star si vieta». |
Io dissi: «Maestro mio, ora spiegami: questa fortuna di cui tu mi parli, e che ha i beni del mondo tra i suoi artigli, che cos'è?»
E lui mi rispose: «O uomini sciocchi, quanta ignoranza vi danneggia! Ora voglio che ascolti attentamente le mie parole. Colui la cui sapienza supera tutto [Dio] creò i cieli, e dispose delle intelligenze angeliche per governarli, così che la sua luce si rifletta di cielo in cielo e si riverberi egualmente nell'Universo. Allo stesso modo, dispose un'intelligenza per governare e amministrare i beni terreni, che li trasmutasse al momento opportuno tra le varie famiglie e le varie stirpi, al di là dell'opposizione del senno degli uomini; perciò una famiglia prospera e un'altra decade, in base al giudizio della fortuna che è nascosto, come il serpente che si annida tra l'erba. La vostra sapienza non la può contrastare: essa provvede, giudica e attua i suoi decreti, proprio come le altre intelligenze angeliche. Le sue trasmutazioni non hanno tregua; deve essere veloce per ottemperare il volere divino; così succede spesso che vi siano mutamenti di condizione. La fortuna è colei che è tanto criticata anche da coloro che dovrebbero elogiarla, e che invece la biasimano e insultano a torto: ma lei è felice e non sente tutto ciò: lieta, insieme agli altri angeli, fa girare la sua ruota e gode la sua serenità. Ora è tempo di scendere a una angoscia maggiore; ormai sta tramontando ogni stella che sorgeva quando lasciai il Limbo [sono passate dodici ore] e non possiamo perdere troppo tempo». |
Interpretazione complessiva
- Il passo riflette la concezione medievale della fortuna, considerata una intelligenza angelica preposta da Dio al governo dei beni terreni, proprio come Serafini e Cherubini hanno il compito di amministrare le loro rispettive sfere celesti: la fortuna dà e toglie le ricchezze mondane non in modo casuale, come si sarebbe portati a credere secondo la mentalità classica, ma in base al disegno imperscrutabile di Dio, per cui alcuni si arricchiscono e altri vanno in rovina perché in ciò si attua la volontà e la giustizia dell'Onnipotente, contro cui gli uomini non hanno "contasto" (lectio difficilior che sta per "contrasto", "opposizione"). Virgilio nella sua spiegazione critica gli uomini stolti che accusano a torto la fortuna, come se essa agisse in base ai suoi capricci, mentre essa attua il volere divino e, in virtù della sua natura angelica, "ciò non ode", continuando a ruotare beata la sua sfera (con allusione alla "ruota" che faceva parte dell'iconografia classica della divinità pagana). La contrapposizione tra la visione classica della dea-fortuna e quella cristiana proposta da Virgilio è espressa soprattutto dalle parole di Dante, che la definisce appunto come una divinità che tiene "tra brache" (tra i suoi artigli) i beni terreni, mentre il maestro gli fornirà una spiegazione paragonata a una medicina che il discepolo dovrà "imboccare", come se fosse un bambino ubbidiente. Tale visione della fortuna rientra in quell'interpretazione del mito classico in chiave cristiana che è parte integrante della cultura del Medioevo e di cui si hanno innumerevoli esempi nella Commedia.
- L'età umanistica tornerà a concepire la fortuna come espressione del caso, riappropriandosi in parte della visione classica qui negata da Virgilio, e in particolare Niccolò Machiavelli nel Principe (XXV) affermerà che la fortuna domina solo metà delle azioni umane e che l'uomo può contrastarla grazie alle proprie virtù, dimostrando una visione laica e moderna che è lontanissima da quella dantesca che emerge dal passo analizzato (► TESTO: Il principe e la fortuna). La concezione di Machiavelli riprende in parte quella espressa già da Boccaccio in molte novelle del Decameron, in cui la fortuna è vista proprio come il caso e varie figure di mercanti riescono a ottenere i loro intenti cogliendo al volo opportunità favorevoli, in modo quindi simile a quanto affermato dallo scrittore del Cinquecento (► TESTO: Andreuccio da Perugia).