Niccolò Machiavelli
La «verità effettuale»
(Il principe, XV)
Il capitolo apre la parte più interessante e controversa del trattato, quella dedicata alla descrizione delle qualità che il principe deve avere per mantenersi saldo al potere: l'autore dichiara in modo programmatico di voler esprimere la "verità effettuale" delle cose e non già inseguire delle utopie politiche, essendo il suo fine quello di scrivere cose utili a chi legge, quindi viene spiegato che il principe non potrà sempre comportarsi bene e in modo moralmente ineccepibile, ma dovrà all'occorrenza saper mentire, frodare e compiere atti di violenza se ciò sarà necessario al mantenimento dello Stato. È questa una delle pagine del trattato che segnano la separazione tra etica religiosa e politica, nonché uno dei passi che più ha suscitato scandalo e ha fatto parlare negli anni seguenti di "machiavellismo".
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Niccolò Machiavelli
► OPERA: Il principe
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Niccolò Machiavelli
► OPERA: Il principe
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CAPITOLO XV
De his rebus quibus homines et praesertim principes laudantur aut vituperantur. [1] Resta ora a vedere quali debbano essere e’ modi e governi di uno principe con sudditi o con gli amici. E perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito, scrivendone ancora io, non essere tenuto prosuntuoso [2], partendomi massime, nel disputare questa materia, dagli ordini degli altri. [3] Ma sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla imaginazione di essa. [4] E molti si sono imaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché egli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare impara piuttosto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, e usarlo e non l’usare secondo la necessità. Lasciando, adunque, indrieto le cose circa uno principe imaginate, e discorrendo quelle che sono vere, dico che tutti gli uomini, quando se ne parla, e massime [5] e’ principi, per essere posti più alti, sono notati di alcune di queste qualità [6] che arrecano loro o biasimo o laude. E questo è che alcuno è tenuto liberale, alcuno misero (usando uno termine toscano, perché avaro in nostra lingua è ancora colui che per rapina desidera di avere, misero chiamiamo noi quello che si astiene troppo di usare il suo); alcuno è tenuto donatore, alcuno rapace; alcuno crudele, alcuno pietoso; l’uno fedifrago [7], l’altro fedele; l’uno effeminato e pusillanime, l’altro feroce e animoso; l’uno umano, l’altro superbo; l’uno lascivo, l’altro casto; l’uno intero [8], l’altro astuto; l’uno duro, l’altro facile; l’uno grave [9] l’altro leggieri, l’uno religioso l’altro incredulo, e simili. E io so che ciascuno confesserà che sarebbe laudabilissima cosa in uno principe trovarsi di tutte le soprascritte qualità, quelle che sono tenute buone; ma perché le non si possono avere né interamente osservare, per le condizioni umane che non lo consentono, gli è necessario essere tanto prudente che sappia fuggire l’infamia di quelli vizii che li torrebbano [10] lo stato, e da quelli che non gnene tolgano, guardarsi, se egli è possibile; ma, non possendo, vi si può con meno respetto [11] lasciare andare. Et etiam [12] non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizii sanza quali e’ possa difficilmente salvare lo stato; perché, se si considerrà bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e, seguendola, sarebbe la ruina sua; e qualcuna altra che parrà vizio, e, seguendola, ne riesce la securtà e il bene essere suo. |
[1] Su quelle cose per le quali gli uomini, e specialmente i principi, sono lodati o criticati. [2] Io temo di essere considerato presuntuoso. [3] Allontanandomi soprattutto dai criteri degli altri scrittori. [4] Ma essendo il mio intento quello di scrivere cose utili a chi legge, mi è sembrato meglio parlare di cose reali che non di immaginazioni. [5] E in particolare. [6] Si attribuiscono loro alcune di queste qualità. [7] Traditore. [8] Leale. [9] Severo, austero. [10] Che potrebbero togliergli. [11] Con minori cautele. [12] E anche, e inoltre. |
Interpretazione complessiva
- Il passo apre la parte del trattato (capp. XV-XXIII) dedicata alla descrizione dei comportamenti che il principe deve tenere nell'azione concreta di governo, quindi la sezione propriamente "precettistica" dell'opera e quella in cui Machiavelli esprime le idee più controverse, destinate a suscitare un vivace dibattito negli anni seguenti e a produrre la condanna del libro soprattutto da parte delle gerarchie ecclesiastiche: il capitolo è quasi una sorta di proemio e l'autore dichiara in modo programmatico di voler trattare la "verità effettuale" delle cose (noi diremmo la "realtà concreta") e non di andar dietro alla "imaginazione di essa", per cui egli prende le distanze dalla trattatistica politica precedente che aveva per lo più delineato delle utopie e descritto "republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero", poiché il suo fine è scrivere cose che siano utili ai lettori, quindi dare consigli al principe che servano a mantenere il potere e non a causarne la rovina. Anche se Machiavelli non cita alcun autore, è implicito un riferimento sia alla trattatistica antica (il Platone delle Leggi e della Repubblica, che lui forse conosceva in modo indiretto, o il Cicerone del De re publica) sia a quella medievale dei Regimina principum, o anche alla stessa Monarchia di Dante che descriveva l'Impero come autorità universale e fonte di giustizia in modo assolutamente anacronistico e lontano già dalla realtà politica del primo Trecento. Machiavelli parte dalla considerazione che gli uomini non sono tutti buoni, quindi per il sovrano è impossibile comportarsi bene in qualunque circostanza, dal che emerge la concezione profondamente pessimistica della natura umana che si riflette anche in altre opere dell'autore e che verrà ripresa, sia pure giungendo ad altre conclusioni, anche dalla riflessione di Thomas Hobbes nel XVII sec. (in parte diversa, invece, la visione dell'umanità da parte del contemporaneo Guicciardini: ► VAI ALL'AUTORE).
- Machiavelli elenca le diverse qualità che possono essere attribuite a un sovrano attraverso una serie di coppie antinomiche di aggettivi, cioè di opposto significato (generoso-rapace, traditore-fedele, leale-astuto, ecc.) e specifica che sarebbe bello se il principe potesse dimostrare solo le qualità considerate "buone", ma poiché ciò è impossibile, data la natura malvagia degli esseri umani, egli dovrà essere capace di usare l'una o l'altra a seconda delle circostanze, quindi dovrà essere bugiardo, traditore, violento quando ciò sarà indispensabile per mantenere intatto lo Stato. L'autore non vuole affatto esortare il principe a comportarsi in maniera malvagia né scrivere un manuale per tiranni, come pure molti lo accusarono di aver fatto, ma solo affermare che il fine principale del sovrano è il mantenimento dello Stato, considerato in sé un valore assoluto in quanto baluardo contro l'anarchia e il disordine civile, quindi qualunque comportamento atto a sortire questo fine deve essere tollerato e non respinto in virtù di ragioni puramente etiche o religiose. L'unica "etica" teorizzata da Machiavelli è appunto quella politica, relativa alla sopravvivenza dello Stato, e la sola cautela che il principe deve usare è quella di non esporsi a critiche che possano danneggiare la sua immagine di uomo politico, per quanto, se necessario, egli debba rinunciare anche a questo pur di non perdere la sua autorità e il suo potere. Tale posizione dell'autore verrà più avanti rielaborata nel concetto di "ragion di Stato" da Giovanni Botero e altri autori del tardo Cinquecento, nell'ambito del pesante clima culturale e politico della Controriforma (► VAI AL PERCORSO).