Torquato Tasso
Il duello di Tancredi e Clorinda
(Gerusalemme Liberata, XII, 48-70)
Clorinda e Argante hanno tentato con successo una sortita notturna nella quale hanno incendiato e distrutto la possente torre d'assedio dei crociati, servendosi di unguenti infiammabili preparati dal mago Ismeno: si apprestano a rientrare a Gerusalemme da una delle porte, incalzati dai soldati nemici, quando Clorinda si attarda a scontrarsi con un cristiano che l'ha colpita e rimane chiusa fuori. Mentre la guerriera si accinge a raggiungere un'altra porta approfittando dell'oscurità, è raggiunta da Tancredi che non la riconosce (la donna indossa un'armatura nera, diversa da quella consueta) e inizia un duello furibondo con lei, senza sapere che sta lottando contro la donna che ama. Il duello sarà senza esclusione di colpi e Clorinda avrà la peggio, anche se in punto di morte la guerriera chiederà di essere battezzata dal proprio uccisore e si salverà l'anima.
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
► OPERA: Gerusalemme liberata
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
► OPERA: Gerusalemme liberata
48
Aperta è l’Aurea porta, e quivi tratto è il re, ch’armato il popol suo circonda, per raccòrre i guerrier da sí gran fatto, quando al tornar fortuna abbian seconda. Saltano i due su ‘l limitare, e ratto diretro ad essi il franco stuol v’inonda, ma l’urta e scaccia Solimano; e chiusa è poi la porta, e sol Clorinda esclusa. 49 Sola esclusa ne fu perché in quell’ora ch’altri serrò le porte ella si mosse, e corse ardente e incrudelita fora a punir Arimon che la percosse. Punillo; e ‘l fero Argante avisto ancora non s’era ch’ella sí trascorsa fosse, ché la pugna e la calca e l’aer denso a i cor togliea la cura, a gli occhi il senso. 50 Ma poi che intepidí la mente irata nel sangue del nemico e in sé rivenne, vide chiuse le porte e intorniata sé da’ nemici, e morta allor si tenne. Pur veggendo ch’alcuno in lei non guata, nov’arte di salvarsi le sovenne. Di lor gente s’infinge, e fra gli ignoti cheta s’avolge; e non è chi la noti. 51 Poi, come lupo tacito s’imbosca dopo occulto misfatto, e si desvia, da la confusion, da l’aura fosca favorita e nascosa, ella se ‘n gía. Solo Tancredi avien che lei conosca; egli quivi è sorgiunto alquanto pria; vi giunse allor ch’essa Arimon uccise: vide e segnolla, e dietro a lei si mise. 52 Vuol ne l’armi provarla: un uom la stima degno a cui sua virtú si paragone. Va girando colei l’alpestre cima verso altra porta, ove d’entrar dispone. Segue egli impetuoso, onde assai prima che giunga, in guisa avien che d’armi suone, ch’ella si volge e grida: «O tu, che porte, che corri sí?» Risponde: «E guerra e morte.» 53 «Guerra e morte avrai;» disse «io non rifiuto darlati, se la cerchi», e ferma attende. Non vuol Tancredi, che pedon veduto ha il suo nemico, usar cavallo, e scende. E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto, ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende; e vansi a ritrovar non altrimenti che duo tori gelosi e d’ira ardenti. 54 Degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno teatro, opre sarian sí memorande. Notte, che nel profondo oscuro seno chiudesti e ne l’oblio fatto sí grande, piacciati ch’io ne ‘l tragga e ‘n bel sereno a le future età lo spieghi e mande. Viva la fama loro; e tra lor gloria splenda del fosco tuo l’alta memoria. 55 Non schivar, non parar, non ritirarsi voglion costor, né qui destrezza ha parte. Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi: toglie l’ombra e ‘l furor l’uso de l’arte. Odi le spade orribilmente urtarsi a mezzo il ferro, il piè d’orma non parte; sempre è il piè fermo e la man sempre ‘n moto, né scende taglio in van, né punta a vòto. 56 L’onta irrita lo sdegno a la vendetta, e la vendetta poi l’onta rinova; onde sempre al ferir, sempre a la fretta stimol novo s’aggiunge e cagion nova. D’or in or piú si mesce e piú ristretta si fa la pugna, e spada oprar non giova: dansi co’ pomi, e infelloniti e crudi cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi. 57 Tre volte il cavalier la donna stringe con le robuste braccia, ed altrettante da que’ nodi tenaci ella si scinge, nodi di fer nemico e non d’amante. Tornano al ferro, e l’uno e l’altro il tinge con molte piaghe; e stanco ed anelante e questi e quegli al fin pur si ritira, e dopo lungo faticar respira. 58 L’un l’altro guarda, e del suo corpo essangue su ‘l pomo de la spada appoggia il peso. Già de l’ultima stella il raggio langue al primo albor ch’è in oriente acceso. Vede Tancredi in maggior copia il sangue del suo nemico, e sé non tanto offeso. Ne gode e superbisce. Oh nostra folle mente ch’ogn’aura di fortuna estolle! 59 Misero, di che godi? oh quanto mesti fiano i trionfi ed infelice il vanto! Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti) di quel sangue ogni stilla un mar di pianto. Cosí tacendo e rimirando, questi sanguinosi guerrier cessaro alquanto. Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse, perché il suo nome a lui l’altro scoprisse: 60 «Nostra sventura è ben che qui s’impieghi tanto valor, dove silenzio il copra. Ma poi che sorte rea vien che ci neghi e lode e testimon degno de l’opra, pregoti (se fra l’arme han loco i preghi) che ‘l tuo nome e ‘l tuo stato a me tu scopra, acciò ch’io sappia, o vinto o vincitore, chi la mia morte o la vittoria onore.» 61 Risponde la feroce: «Indarno chiedi quel c’ho per uso di non far palese. Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi un di quei due che la gran torre accese.» Arse di sdegno a quel parlar Tancredi, e: «In mal punto il dicesti»; indi riprese «il tuo dir e ‘l tacer di par m’alletta, barbaro discortese, a la vendetta.» 62 Torna l’ira ne’ cori, e li trasporta, benché debili in guerra. Oh fera pugna, u’ l’arte in bando, u’ già la forza è morta, ove, in vece, d’entrambi il furor pugna! Oh che sanguigna e spaziosa porta fa l’una e l’altra spada, ovunque giugna, ne l’arme e ne le carni! e se la vita non esce, sdegno tienla al petto unita. 63 Qual l’alto Egeo, perché Aquilone o Noto cessi, che tutto prima il volse e scosse, non s’accheta ei però, ma ‘l suono e ‘l moto ritien de l’onde anco agitate e grosse, tal, se ben manca in lor co ‘l sangue vòto quel vigor che le braccia a i colpi mosse, serbano ancor l’impeto primo, e vanno da quel sospinti a giunger danno a danno. 64 Ma ecco omai l’ora fatale è giunta che ‘l viver di Clorinda al suo fin deve. Spinge egli il ferro nel bel sen di punta che vi s’immerge e ‘l sangue avido beve; e la veste, che d’or vago trapunta le mammelle stringea tenera e leve, l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente morirsi, e ‘l piè le manca egro e languente. 65 Segue egli la vittoria, e la trafitta vergine minacciando incalza e preme. Ella, mentre cadea, la voce afflitta movendo, disse le parole estreme; parole ch’a lei novo un spirto ditta, spirto di fé, di carità, di speme: virtú ch’or Dio le infonde, e se rubella in vita fu, la vuole in morte ancella. 66 «Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona tu ancora, al corpo no, che nulla pave, a l’alma sí; deh! per lei prega, e dona battesmo a me ch’ogni mia colpa lave.» In queste voci languide risuona un non so che di flebile e soave ch’al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza, e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza. 67 Poco quindi lontan nel sen del monte scaturia mormorando un picciol rio. Egli v’accorse e l’elmo empié nel fonte, e tornò mesto al grande ufficio e pio. Tremar sentí la man, mentre la fronte non conosciuta ancor sciolse e scoprio. La vide, la conobbe, e restò senza e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza! 68 Non morí già, ché sue virtuti accolse tutte in quel punto e in guardia al cor le mise, e premendo il suo affanno a dar si volse vita con l’acqua a chi co ‘l ferro uccise. Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse, colei di gioia trasmutossi, e rise; e in atto di morir lieto e vivace, dir parea: «S’apre il cielo; io vado in pace.» 69 D’un bel pallore ha il bianco volto asperso, come a’ gigli sarian miste viole, e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso sembra per la pietate il cielo e ‘l sole; e la man nuda e fredda alzando verso il cavaliero in vece di parole gli dà pegno di pace. In questa forma passa la bella donna, e par che dorma. 70 Come l’alma gentile uscita ei vede, rallenta quel vigor ch’avea raccolto; e l’imperio di sé libero cede al duol già fatto impetuoso e stolto, ch’al cor si stringe e, chiusa in breve sede la vita, empie di morte i sensi e ‘l volto. Già simile a l’estinto il vivo langue al colore, al silenzio, a gli atti, al sangue. |
La porta Aurea è aperta e il re [Solimano] è giunto qui, circondato dal suo popolo armato, per accogliere i due guerrieri [Clorinda e Argante] dopo una così grande impresa, sempre che la fortuna permetta loro il ritorno. I due saltano sulla soglia e l'esercito dei crociati corre in massa dietro di loro, ma Solimano li scaccia e li respinge; e poi la porta viene chiusa e Clorinda è la sola a restare fuori. Ne resta fuori perché nel momento in cui la porta è chiusa lei si mosse e corse fuori, furiosa e incrudelita, a punire Arimone [un soldato cristiano] che l'aveva colpita. Lo uccise; e il feroce Argante non si era ancora accorto che lei si fosse tanto allontanata, poiché la battaglia, la calca dei soldati e l'aria oscura [per il buio della notte e il fumo dell'incendio] rendeva i cuori insensibili, gli occhi privi di vista. Ma quando Clorinda sfogò la propria ira nel sangue del nemico e tornò in sé, vide la porta chiusa e se stessa circondata da nemici, e pensò di essere destinata a morire. Pure, vedendo che nessuno bada a lei, le venne in mente uno stratagemma per salvarsi. Si finge una di loro e si mescola silenziosa ai cristiani; nessuno la nota. Poi, come un lupo silenzioso torna nel bosco dopo aver compiuto un misfatto nell'oscurità, e lascia le vie consuete, così lei se ne andava col favore della confusione e del buio. Solo Tancredi si accorge di lei; egli è sopraggiunto qui poco prima, quando lei ha ucciso Arimone: l'ha vista e l'ha tenuta d'occhio, iniziando a seguirla. Vuole sfidarla a duello: pensa che sia un uomo con cui possa degnamente misurare il proprio valore. Lei sta girando intorno alla collina montuosa [il colle di Sion, dove sorge Gerusalemme] verso un'altra porta in cui poter entrare. Lui la segue con impeto, per cui molto prima di raggiungerla le sue armi risuonano al punto che lei si volta e grida: «Tu, che corri in tal modo, cosa porti?» Lui risponde: «Guerra e morte». Lei disse: «Avrai guerra e morte, non rifiuto di dartela se la cerchi», e attende ferma. Tancredi, che ha visto il suo nemico a piedi, non vuole usare il cavallo e smonta. Entrambi impugnano la spada acuminata e aguzzano l'orgoglio, accendono l'ira; e vanno a scontrarsi in modo simile a due tori, gelosi e ardenti d'ira. Gesta così memorabili sarebbero degne di svolgersi alla luce del sole, in un teatro pieno. O notte, che hai richiuso nel suo seno profondo e oscuro e nell'oblio un fatto così grande, accetta che io lo tragga [dal buio] e lo spieghi e tramandi in piena luce alle età future. Possa la loro fama sopravvivere, e insieme alla loro gloria continui a risplendere anche l'alta memoria della tua oscurità. Costoro non vogliono schivare i colpi, né pararli, né ritrarsi, né la destrezza ha una parte in questo duello. Non danno i colpi finti, pieni, scarsi: il buio e il furore non danno loro modo di usare l'arte del duello. Si sentono le spade urtarsi in modo orribile al centro della lama, e il piede non lascia la sua orma [i due restano saldi]; il piede è sempre fermo e la mano è sempre in movimento, e i colpi di taglio o di punta non scendono mai a vuoto o invano. La vergogna [di essere stati colpiti] irrita lo sdegno per vendicarsi e la vendetta rinnova poi la vergogna; per cui al ferire e alla fretta si aggiungono sempre nuovi stimoli e nuove cause. Lo scontro si fa di momento in momento più ravvicinato e ristretto e non è più possibile usare la spada: si colpiscono con le else, e cozzano insieme con gli elmi e gli scudi, crudeli e spietati. Il cavaliere stringe per tre volte a sé la donna con le braccia robuste, ed altrettante volte lei si scioglie da quelle strette vigorose, che sono proprie di un nemico e non di un amante. Tornano a incrociare le spade ed entrambi le bagnano [col sangue] di molte ferite; e alla fine entrambi si ritirano stanchi e stremati, e respirano dopo una lunga fatica. Si guardano a vicenda e ognuno appoggia il peso del suo corpo dissanguato sull'elsa della spada. Ormai si spegne raggio dell'ultima stella [Venere], al primo albeggiare nel cielo d'oriente. Tancredi vede che il sangue versato dal suo nemico è più abbondante, mentre lui non è ferito in modo altrettanto grave. Ne gode e ne insuperbisce. Oh quanto è folle la nostra mente, che viene esaltata da ogni vento di fortuna! Misero, di cosa ti rallegri? Oh, quanto sarà triste il tuo trionfo e quanto infelice il tuo vanto! I tuoi occhi pagheranno (sempre che sopravvivi) con un mare di pianto ogni goccia di quel sangue. Così, tacendo e osservandosi, questi guerrieri insanguinati riposarono qualche tempo. Alla fine Tancredi ruppe il silenzio e parlò, per far sì che l'altro rivelasse il suo nome: «È una sfortuna per noi che sia speso tanto valore qui, dove è coperto dal silenzio. Ma poiché una sorte avversa ci nega la lode e il pubblico degno delle nostre gesta, io ti prego (se in una battaglia le preghiere hanno spazio) di rivelarmi il tuo nome e la tua condizione, affinché io sappia, vinto o vincitore, chi onori la mia morte o la mia vittoria». La feroce guerriera risponde: «Invano mi chiedi quello che di solito non rivelo. Ma chiunque io sia, tu vedi di fronte a te uno dei due che ha incendiato la grande torre». Tancredi a quelle parole arse di sdegno e riprese: «L'hai detto nel momento sbagliato; le tue parole e ciò che taci, barbaro scortese, mi eccitano allo stesso modo alla vendetta». Nei loro cuori torna l'ira e li trasporta, anche se deboli, allo scontro. Oh che battaglia feroce, dove ormai non ci sono più né l'arte del combattimento né la forza, e dove, invece, combatte il furore di entrambi! Oh quale apertura sanguinosa e spaziosa [quale ferita] provoca l'una e l'altra spada, ovunque vada a segno, nell'armatura e nelle carni! E se la vita non ne esce ancora, è lo sdegno che la tiene salda al petto. Proprio come l'alto mar Egeo, dopo che l'Aquilone o il Noto, che prima l'hanno gonfiato e mosso, hanno smesso di soffiare, non si acquieta subito, ma conserva ancora il suono e il moto delle onde grosse e agitate, così, anche se ai due guerrieri manca col sangue versato quel vigore che mosse le braccia ai primi colpi, essi conservano ancora il primo impeto e, spinti da quello, vanno ad aggiungere danno a danno. Ma ecco che ormai è giunta l'ora fatale che deve porre fine alla vita di Clorinda. Tancredi spinge nel suo bel seno la spada di punta, che vi si immerge e beve avidamente il sangue; e le riempie la veste (che, ricamata di bell'oro, stringeva tenera e lieve le sue mammelle) di un caldo fiume [di sangue]. Lei si sente morire e il piede, debole e non più saldo, le viene meno. Tancredi persegue la vittoria e incalza e preme minacciando la vergine trafitta. Lei, mentre cadeva, muovendo la voce afflitta, disse le sue ultime parole; parole che le vengono dettate da un nuovo spirito, uno spirito di fede, di carità, di speranza: virtù che Dio adesso le infonde e, se in vita fu infedele, la vuole sua ancella [cristiana] nella morte. «Amico, hai vinto: io ti perdono... perdonami anche tu, non al corpo che non teme nulla, ma all'anima; orsù, prega per lei e donami il battesimo che lavi ogni mia colpa». In queste parole languide risuona qualcosa di lacrimevole e dolce, che gli scende al cuore e smorza ogni sdegno, e spinge e invoglia i suoi occhi a piangere. Poco lontano da qui, in un fianco del monte, scaturiva mormorando un piccolo ruscello. Egli vi accorse e riempì l'elmo nella fonte, e poi tornò triste al suo grande e pio dovere [di battezzare Clorinda]. Si sentì tremare la mano, mentre sciolse e scoprì la fronte della donna che ancora non riconosceva. La vide e la riconobbe, restando ammutolito e impietrito. Ah cosa vide, chi riconobbe! Non morì subito, poiché in quel momento raccolse tutte le sue virtù e le mise a sostegno del cuore, e soffocando la sua pena si volse a dare la vita con l'acqua [del battesimo] a colei che aveva ucciso con la spada. Mentre lui disse le sacre formule del battesimo, lei si dipinse di gioia e sorrise; e mentre moriva in modo lieto e foriero di una nuova vita, sembrava dire: «Si apre il cielo, io vado in pace». Il suo volto bianco è cosparso di un bel pallore, come ai gigli sarebbero miste delle viole, e fissa gli occhi al cielo, e questo e il sole sembrano rivolti a lei per pietà; e alzando la mano nuda e fredda verso il cavaliere, gli fa un gesto di pace al posto delle parole. Con questo aspetto la bella donna muore, e sembra che dorma. Lui, non appena vede che la sua nobile anima è uscita dal corpo, allenta quel vigore che aveva raccolto; e cede il dominio di sé, ormai libero, al dolore che è diventato impetuoso e folle, che si stringe intorno al cuore e, chiusa la vita in un breve spazio, riempie di morte i sensi e il volto. Il vivo soffre ormai simile al morto, nel colorito, nel silenzio, negli atti e nel sangue versato. |
Interpretazione complessiva
- L'episodio della sortita notturna di Clorinda e Argante è chiaramente ispirato a quello di Eurialo e Niso nell'Eneide (IX, 176 ss.) e a quello di Cloridano e Medoro nel Furioso (XVIII, 165 ss.; ► TESTO: Cloridano e Medoro), rispetto ai quali ci sono analogie e differenze: in tutti e tre i casi è uno dei due personaggi a proporre l'azione eroica (Niso e Medoro nei precedenti, qui Clorinda), la sortita avviene di notte tra le file dei nemici e si conclude con la morte di uno dei protagonisti (nell'Eneide di entrambi); qui, come nel Furioso, i due guerrieri sono saraceni, con l'importante variante che uno dei due è una donna. Tasso segue strettamente il modello virgiliano, da cui riprende il particolare della città assediata (nell'Eneide è il campo dei Troiani), il fatto che Clorinda e Argante chiedono il permesso a re Aladino prima di uscire (in Virgilio Eurialo e Niso si rivolgono a Iulo), nonché alcuni particolari testuali. Molte le analogie anche con un celebre episodio dell'Orlando innamorato di Boiardo, in cui Orlando uccide il re dei Tartari, Agricane, dopo un duello notturno e alla fine battezza il suo avversario morente, che si è convertito e gli ha chiesto di salvare la sua anima (► TESTO: Il duello di Orlando e Agricane).
- La sortita è preceduta dal colloquio tra Clorinda e l'eunuco Arsete, che l'ha allevata da bambina e che adesso le rivela le sue vere origini cristiane: il servo ha disobbedito alla madre che gliel'aveva affidata ordinandogli di farla cristiana, mentre lui l'ha cresciuta nell'Islam e ha assecondato le sue virtù militari (il racconto riprende in parte quello dell'infanzia di Camilla nell'Eneide); ora Arsete ha fatto un sogno che preconizza la morte della donna e per questo si decide a dirle la verità. La rivelazione getta Clorinda nell'inquietudine, anche se non la distoglie dai suoi propositi, e spiega in parte perché la donna si converta improvvisamente in punto di morte.
- Il duello tra Tancredi e Clorinda è il cuore dell'episodio ed avviene in maniera fortuita nel buio della notte, senza nessuno che assista alle gesta valorose dei due guerrieri: la situazione è tragica e paradossale poiché Tancredi ignora di lottare contro la donna che ama (Clorinda indossa un'armatura nera diversa dal solito, per nascondersi nell'oscurità) e lo scontro diventa quasi una rappresentazione stravolta dell'atto amoroso, sottolineato da alcuni dettagli (i due sono paragonati a "duo tori gelosi e d’ira ardenti", Tancredi abbraccia tre volte la donna nel combattimento corpo a corpo). Clorinda viene presentata nella sua natura femminile solo alla fine, quando è ormai ferita a morte (la spada affonda "nel bel sen", le mammelle sono strette da una veste "d’or vago trapunta", la donna è definita "trafitta vergine"), mentre il suo atteggiamento cambia radicalmente e, se prima era stato improntato all'ira, ora per ispirazione divina è incline al perdono e alla pace. La trasformazione di Clorinda avviene in una prospettiva religiosa e nella sua conversione finale ha una parte essenziale Tancredi, che la battezza dandole la vita eterna dopo averla uccisa e restando poi steso accanto a lei, moribondo per le ferite ricevute e la pena.
- Come in altri passi del poema, Tasso dimostra di essere esperto conoscitore delle tecniche dei duelli e della scherma: nell'ott. 55 usa termini tecnici quali "schivar", "parar", "ritirarsi", mentre i colpi sono definiti "finti" (finte), "pieni", "scarsi" (di assaggio); l'autore sottolinea come le spade si colpiscano al centro della lama (con colpi molto potenti) e ciononostante i duellanti non muovono il piede; quando sono troppo vicini per usare le spade ingaggiano un vero e proprio corpo a corpo, colpendosi con le else (i "pomi") delle spade e scordando le leggi della cavalleria. Non va scordato che Tasso era considerato una vera autorità nel XVI-XVII sec. in materia di duelli e scienza cavalleresca, tanto che viene citato anche da Manzoni nei Promessi sposi (nella discussione tra Attilio e il Podestà, cap. V, e nella descrizione della biblioteca di don Ferrante, cap. XXVII).
- Tancredi sopravvivrà al duello ma conserverà l'atroce rimorso di aver ucciso la donna amata, anche se era una guerriera nemica, e ciò gli impedirà di vincere gli incanti della selva di Saron dove si addentrerà per far legna con cui ricostruire la torre di assedio bruciata: inizierà ad abbattere un cipresso, da cui uscirà sangue e una voce che imiterà quella di Clorinda (► TESTO: Tancredi nella selva di Saron). Il crociato, pur sapendo che Clorinda è salva e che quello è un inganno diabolico, non riuscirà a vincere le sue paure e se ne andrà dalla foresta sconfitto. La distruzione della torre da parte di Clorinda e Argante avrà dunque un peso decisivo nel rallentare le operazioni militari della conquista di Gerusalemme.
- Da questo celebre episodio il compositore Claudio Monteverdi trasse un madrigale in musica nel 1624, che metteva in scena le ottave 52-62 e 64-68 e affidava a tre voci (il Testo, Tancredi e Clorinda) il canto dei versi corrispondenti, con un accompagnamento musicale di archi e clavicembalo. La composizione, molto apprezzata all'epoca, viene tuttora riproposta a teatro ed è solo una delle numerose partiture che il musicista cremonese realizzò a partire dai versi di Tasso (► MUSICA: Il madrigale di Monteverdi).