Baldassarre Castiglione
Le virtù del perfetto cortigiano
(Il cortegiano, I, 25-26)
In questo passo uno degli interlocutori del dialogo, il conte Ludovico di Canossa, illustra quali devono essere le qualità del perfetto uomo di corte e si sofferma in particolare sulla "sprezzatura", ovvero la capacità di svolgere qualsiasi attività senza affettazione e ostentando al contrario la massima naturalezza. È proprio questa la principale virtù del "Cortegiano" e Ludovico dichiara che essa, quando non sia un dono naturale, può essere appresa con l'esercizio e grazie all'insegnamento di ottimi maestri, facendo anche esempi negativi e positivi tratti dalla società aristocratica del Cinquecento.
► PERCORSO: Il Rinascimento
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25. - Obligato non son io, - disse il Conte, - ad insegnarvi a diventar aggraziati, né altro, ma solamente a dimostrarvi qual abbia ad essere un perfetto cortegiano. Né io già pigliarei impresa di insegnarvi questa perfezione, massimamente avendo poco fa detto che ’l cortegiano abbia da saper lottare e volteggiare [1] e tant’altre cose, le quali come io sapessi insegnarvi, non le avendo mai imparate, so che tutti lo conoscete. Basta che sí come un bon soldato sa dire al fabro di che foggia e garbo e bontà hanno ad esser l’arme, né però gli sa insegnar a farle, né come le martelli o tempri, cosí io forse vi saprò dir qual abbia ad esser un perfetto cortegiano, ma non insegnarvi come abbiate a fare per divenirne. Pur, per satisfare ancor quanto è in poter mio alla domanda vostra, benché e’ sia quasi in proverbio che la grazia non s’impari, dico che chi ha da esser aggraziato negli esercizi corporali, presuponendo prima che da natura non sia inabile [2], dee cominciar per tempo ed imparar i princípi da ottimi maestri; la qual cosa quanto paresse a Filippo re di Macedonia importante, si po comprendere, avendo voluto che Aristotele, tanto famoso filosofo e forse il maggior che sia stato al mondo mai, fosse quello che insegnasse i primi elementi delle lettere ad Alessandro suo figliolo. [3] E delli omini che noi oggidí conoscemo, considerate come bene ed aggraziatamente fa il signor Galleazzo Sanseverino [4], gran scudiero di Francia tutti gli esercizi del corpo; e questo perché, oltre alla natural disposizione ch’egli tiene della persona, ha posto ogni studio d’imparare da bon maestri ed aver sempre presso di sé omini eccellenti e da ognun pigliar il meglio di ciò che sapevano; ché sí come del lottare, volteggiare e maneggiar molte sorti d’armi [5] ha tenuto per guida il nostro messer Pietro Monte [6], il qual, come sapete, è il vero e solo maestro d’ogni artificiosa forza e leggerezza, cosí del cavalcare, giostrare e qualsivoglia altra cosa ha sempre avuto inanzi agli occhi i piú perfetti, che in quelle professioni siano stati conosciuti. 26. Chi adunque vorrà esser bon discipulo, oltre al far le cose bene, sempre ha da metter ogni diligenzia per assimigliarsi al maestro e, se possibil fosse, transformarsi in lui. E quando già si sente aver fatto profitto, giova molto veder diversi omini di tal professione e, governandosi con quel bon giudicio che sempre gli ha da esser guida, andar scegliendo or da un or da un altro varie cose. E come la pecchia [7] ne’ verdi prati sempre tra l’erbe va carpendo i fiori, cosí il nostro cortegiano averà da rubare questa grazia da que’ che a lui parerà che la tenghino e da ciascun quella parte che piú sarà laudevole [...]. Ma avendo io già piú volte pensato meco onde nasca questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l’hanno [8], trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano piú che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto piú si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura [9], che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia; perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’ella si sia. Però si po dir quella esser vera arte che non pare esser arte; né piú in altro si ha da poner studio, che nel nasconderla: perché se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l’omo poco estimato. E ricordomi io già aver letto esser stati alcuni antichi oratori eccellentissimi, i quali tra le altre loro industrie sforzavansi di far credere ad ognuno sé non aver notizia alcuna di lettere [10]; e dissimulando il sapere mostravan le loro orazioni esser fatte simplicissimamente, e piú tosto secondo che loro porgea la natura e la verità, che ’l studio e l’arte; la qual se fosse stata conosciuta, aría [11] dato dubbio negli animi del populo di non dover esser da quella ingannati. Vedete adunque come il mostrar l’arte ed un cosí intento studio levi la grazia d’ogni cosa. Qual di voi è che non rida quando il nostro messer Pierpaulo [12] danza alla foggia sua, con que’ saltetti e gambe stirate in punta di piede, senza mover la testa, come se tutto fosse un legno, con tanta attenzione, che di certo pare che vada numerando i passi? Qual occhio è cosí cieco, che non vegga in questo la disgrazia della affettazione? e la grazia in molti omini e donne che sono qui presenti, di quella sprezzata desinvoltura (ché nei movimenti del corpo molti cosí la chiamano), con un parlar o ridere o adattarsi, mostrando non estimar e pensar piú ad ogni altra cosa che a quello, per far credere a chi vede quasi di non saper né poter errare? |
[1] Tirare di scherma e compiere evoluzioni ginniche. [2] Supponendo che non abbia qualche menomazione fisica. [3] L'esempio citato è quello di Alessandro Magno, che ebbe quale maestro il filosofo Aristotele. [4] Il conte di Caiazzo, che fu al servizio di Francesco I di Francia e morì nella battaglia di Pavia del 1525. [5] Maneggiare molti tipi di armi. [6] Maestro d'armi del Cinquecento, forse spagnolo. [7] L'ape, che vola di fiore in fiore. [8] Tralasciando quelli che la possiedono in modo naturale. [9] Noncuranza, spontaneità. [10] I quali tra gli altri loro artifici si sforzavano di far credere a tutti di non essere esperti di letteratura. [11] Avrebbe. [12] Un gentiluomo della corte di Urbino. |
Interpretazione complessiva
- Ludovico di Canossa, uno dei principali interlocutori del dialogo, risponde alla domanda di Cesare Gonzaga sulla natura della "grazia" del cortigiano affermando che essa in molti casi è connaturata all'individuo, tuttavia può essere appresa con l'esercizio e grazie all'insegnamento di ottimi maestri, meglio se numerosi e in grado di trasmettere precetti diversi (l'allievo deve volare di fiore in fiore come l'ape e prendere il meglio da varie fonti, nel che sembra esserci un riferimento indiretto alla polemica nel Quattrocento tra Paolo Cortese e Poliziano sull'eclettismo dei modelli; ► TESTO: L'imitazione classica). L'autore cita anche due celebrati esempi di maestri attivi in epoche molto diverse, ovvero Aristotele precettore di Alessandro Magno e Pietro Monte maestro d'armi di Galeazzo Sanseverino, il conte di Caiazzo che fu al servizio dei francesi e cadde nella battaglia di Pavia del 1525, esempio quanto mai opportuno in quanto il cortigiano, come Ludovico ha precisato nei capp. precedenti, deve eccellere nell'uso delle armi e nell'arte bellica.
- La migliore qualità dell'uomo di corte è poi ulteriormente precisata come la "sprezzatura", ovvero l'estrema disinvoltura e naturalezza nel fare anche le cose più difficili e l'assenza di affettazione, nemica secondo l'autore dell'eleganza: viene citato l'esempio dei grandi oratori del passato che ostentavano ignoranza letteraria per far credere che i loro discorsi fossero il prodotto di doti naturali, il che spiega che l'atteggiamento del cortigiano dev'essere attentamente studiato e finalizzato a fornire un'immagine di sé al "pubblico" (un discorso simile verrà svolto anche da Machiavelli nel Principe, che per molti versi si può considerare un trattato di comportamento anch'esso: ► VAI ALL'OPERA). Ludovico cita anche l'esempio di un uomo della corte di Urbino che danza in modo sgraziato e facendo "attenzione" ai passi, il che esprime bene il concetto di "affettazione" che il perfetto cortigiano deve sempre rifuggire.