Matteo Maria Boiardo
L'apparizione di Angelica
(Orlando innamorato, I, I, 19-40)
Mentre alla corte di Parigi è in corso un sontuoso ricevimento cui prendono parte guerrieri cristiani e saraceni, durante la tregua indetta nella "Pasqua rosata" e in attesa di iniziare il torneo cavalleresco, ecco che a sorpresa fa la sua comparsa la bellissima Angelica, la figlia del re del Catai accompagnata dal fratello Argalìa e da quattro giganti. La fanciulla fa innamorare di sé tutti gli uomini presenti nella sala e in seguito rivolgerà un falso discorso a re Carlo, promettendosi in sposa a chiunque riuscirà a disarcionare in uno scontro suo fratello, che in realtà è protetto da armi incantate. Il solo a intuire le sue macchinazioni è il mago cristiano Malagise, che tuttavia non potrà far molto per sventare i suoi piani criminosi.
► PERCORSO: L'Umanesimo
► AUTORE: Matteo Maria Boiardo
► PERCORSO: L'Umanesimo
► AUTORE: Matteo Maria Boiardo
19
Mentre che stanno in tal parlar costoro, Sonarno li instrumenti da ogni banda; Ed ecco piatti grandissimi d’oro, Coperti de finissima vivanda; Coppe di smalto, con sotil lavoro, Lo imperatore a ciascun baron manda. Chi de una cosa e chi d’altra onorava, Mostrando che di lor si racordava. 20 Quivi si stava con molta allegrezza, Con parlar basso e bei ragionamenti: Re Carlo, che si vidde in tanta altezza, Tanti re, duci e cavallier valenti, Tutta la gente pagana disprezza, Come arena del mar denanti a i venti; Ma nova cosa che ebbe ad apparire, Fe’ lui con gli altri insieme sbigotire. 21 Però che in capo della sala bella Quattro giganti grandissimi e fieri Intrarno, e lor nel mezo una donzella, Che era seguita da un sol cavallieri. Essa sembrava matutina stella E giglio d’orto e rosa de verzieri: In somma, a dir di lei la veritate, Non fu veduta mai tanta beltate. 22 Era qui nella sala Galerana, Ed eravi Alda, la moglie de Orlando, Clarice ed Ermelina tanto umana, Ed altre assai, che nel mio dir non spando, Bella ciascuna e di virtù fontana. Dico, bella parea ciascuna, quando Non era giunto in sala ancor quel fiore, Che a l’altre di beltà tolse l’onore. 23 Ogni barone e principe cristiano In quella parte ha rivoltato il viso, Né rimase a giacere alcun pagano; Ma ciascun d’essi, de stupor conquiso, Si fece a la donzella prossimano; La qual, con vista allegra e con un riso Da far inamorare un cor di sasso, Incominciò così, parlando basso: 24 - Magnanimo segnor, le tue virtute E le prodezze de’ toi paladini, Che sono in terra tanto cognosciute, Quanto distende il mare e soi confini, Mi dàn speranza che non sian perdute Le gran fatiche de duo peregrini, Che son venuti dalla fin del mondo Per onorare il tuo stato giocondo. 25 Ed acciò ch’io ti faccia manifesta, Con breve ragionar, quella cagione Che ce ha condotti alla tua real festa, Dico che questo è Uberto dal Leone, Di gentil stirpe nato e d’alta gesta, Cacciato del suo regno oltra ragione: Io, che con lui insieme fui cacciata, Son sua sorella, Angelica nomata. 26 Sopra alla Tana ducento giornate, Dove reggemo il nostro tenitoro, Ce fôr di te le novelle aportate, E della giostra e del gran concistoro Di queste nobil gente qui adunate; E come né città, gemme o tesoro Son premio de virtute, ma si dona Al vincitor di rose una corona. 27 Per tanto ha il mio fratel deliberato, Per sua virtute quivi dimostrare, Dove il fior de’ baroni è radunato, Ad uno ad un per giostra contrastare: O voglia esser pagano o baptizato, Fuor de la terra lo venga a trovare, Nel verde prato alla Fonte del Pino, Dove se dice al Petron di Merlino. 28 Ma fia questo con tal condizione (Colui l’ascolti che si vôl provare): Ciascun che sia abattuto de lo arcione, Non possa in altra forma repugnare, E senza più contesa sia pregione; Ma chi potesse Uberto scavalcare, Colui guadagni la persona mia: Esso andarà con suoi giganti via. - 29 Al fin delle parole ingenocchiata Davanti a Carlo attendia risposta. Ogni om per meraviglia l’ha mirata, Ma sopra tutti Orlando a lei s’accosta Col cor tremante e con vista cangiata, Benché la voluntà tenia nascosta; E talor gli occhi alla terra bassava, Ché di se stesso assai si vergognava. 30 “Ahi paccio Orlando!” nel suo cor dicia “Come te lasci a voglia trasportare! Non vedi tu lo error che te desvia, E tanto contra a Dio te fa fallare? Dove mi mena la fortuna mia? Vedome preso e non mi posso aitare; Io, che stimavo tutto il mondo nulla, Senza arme vinto son da una fanciulla. 31 Io non mi posso dal cor dipartire La dolce vista del viso sereno, Perch’io mi sento senza lei morire, E il spirto a poco a poco venir meno. Or non mi val la forza, né lo ardire Contra d’Amor, che m’ha già posto il freno; Né mi giova saper, né altrui consiglio, Ch’io vedo il meglio ed al peggior m’appiglio.” 32 Così tacitamente il baron franco Si lamentava del novello amore. Ma il duca Naimo, ch’è canuto e bianco, Non avea già de lui men pena al core, Anci tremava sbigotito e stanco, Avendo perso in volto ogni colore. Ma a che dir più parole? Ogni barone Di lei si accese, ed anco il re Carlone. 33 Stava ciascuno immoto e sbigottito, Mirando quella con sommo diletto; Ma Feraguto, il giovenetto ardito, Sembrava vampa viva nello aspetto, E ben tre volte prese per partito Di torla a quei giganti al suo dispetto, E tre volte afrenò quel mal pensieri Per non far tal vergogna allo imperieri. 34 Or su l’un piede, or su l’altro se muta, Grattasi ‘l capo e non ritrova loco; Rainaldo, che ancor lui l’ebbe veduta, Divenne in faccia rosso come un foco; E Malagise, che l’ha cognosciuta, Dicea pian piano: “Io ti farò tal gioco, Ribalda incantatrice, che giamai De esser qui stata non te vantarai.” 35 Re Carlo Magno con lungo parlare Fe’ la risposta a quella damigella, Per poter seco molto dimorare. Mira parlando e mirando favella, Né cosa alcuna le puote negare, Ma ciascuna domanda li suggella Giurando de servarle in su le carte: Lei coi giganti e col fratel si parte. 36 Non era ancor della citade uscita, Che Malagise prese il suo quaderno: Per saper questa cosa ben compita Quattro demonii trasse dello inferno. Oh quanto fu sua mente sbigotita! Quanto turbosse, Iddio del celo eterno! Poi che cognobbe quasi alla scoperta Re Carlo morto e sua corte deserta. 37 Però che quella che ha tanta beltade, Era figliola del re Galifrone, Piena de inganni e de ogni falsitade, E sapea tutte le incantazïone. Era venuta alle nostre contrade, Ché mandata l’avea quel mal vecchione Col figliol suo, ch’avea nome Argalia, E non Uberto, come ella dicia. 38 Al giovenetto avea dato un destrieri Negro quanto un carbon quando egli è spento, Tanto nel corso veloce e leggieri, Che già più volte avea passato il vento; Scudo, corazza ed elmo col cimieri, E spada fatta per incantamento; Ma sopra a tutto una lancia dorata, D’alta ricchezza e pregio fabricata. 39 Or con queste arme il suo patre il mandò, Stimando che per quelle il sia invincibile, Ed oltra a questo uno anel li donò Di una virtù grandissima, incredibile, Avengaché costui non lo adoprò; Ma sua virtù facea l’omo invisibile, Se al manco lato in bocca se portava: Portato in dito, ogni incanto guastava. 40 Ma sopra a tutto Angelica polita Volse che seco in compagnia ne andasse, Perché quel viso, che ad amare invita, Tutti i baroni alla giostra tirasse, E poi che per incanto alla finita Ogni preso barone a lui portasse: Tutti legati li vôl nelle mane Re Galifrone, il maledetto cane. |
Mentre costoro [i paladini cristiani e mori] stanno parlando in questo modo, gli strumenti suonarono da ogni parte; ed ecco entrare enormi piatti d'oro, contenenti vivande raffinate; l'imperatore manda ad ogni barone coppe di smalto, finemente lavorate. Carlo onorava tutti in vario modo, mostrando di ricordarsi di loro. Qui si stava in allegria, parlando a bassa voce di argomenti piacevoli: re Carlo, che si vide così onorato e circondato da tanti re, comandanti e cavalieri valorosi, disprezza tutti i pagani come se fossero arena marina di fronte ai venti; ma una nuova apparizione fece sbalordire lui e gli altri. Infatti al fondo della bella sala entrarono quattro giganti enormi e feroci, e in mezzo a loro stava una fanciulla, seguita da un solo cavaliere. Sembrava la stella del mattino [Venere] e un giglio d'orto, una rosa del giardino: insomma, per dire la verità non si vide mai una tale bellezza. Qui nella sala c'era Galerana [la moglie di Carlo Magno], c'era Alda, la moglie di Orlando, Clarice [sposa di Ranaldo] ed Ermelina [sposa di Uggeri il Danese] tanto cortese, e molte altre che non sto a dire, ciascuna bella e piena di virtù. Dico che ognuna di loro sembrava bella, quando non era ancora entrato in sala quel fiore, che tolse alle altre l'onore della bellezza. Ogni barone e principe cristiano ha rivolto lo sguardo verso quella parte, né alcun pagano è rimasto inerte; ma ognuno di essi, pieno di stupore, si avvicinò alla fanciulla; la quale, con aspetto allegro e con un sorriso tale da fare innamorare un sasso, cominciò a parlare così, a bassa voce: - O signore magnanimo, le tue virtù e le prodezze dei tuoi paladini, che sono conosciute in tutto il mondo fino agli estremi confini del mare, mi danno speranza che non siano state vane le fatiche di due viaggiatori che sono venuti dall'altro capo del mondo a onorare il tuo prospero regno. E al fine di spiegarti in poche parole la ragione che ci ha condotti qui alla tua festa regale, ti dico che questi è Uberto dal Leone [in realtà Argalìa], nato da una nobile stirpe e che ha compiuto grandi gesta, cacciato senza ragione dal suo regno: io, che fui cacciata insieme a lui, sono sua sorella e mi chiamo Angelica. Oltre al Tanai [il fiume Don] per duecento giornate di cammino, dove c'è il nostro regno, giunsero a noi le notizie del torneo e della grande riunione di queste nobili genti qui raccolte; e [apprendemmo] che il premio al valore non sono città, gemme o un tesoro, bensì al vincitore si dona una corona di rose. Perciò mio fratello ha deciso di sfidare a duello ogni barone, il cui fiore è radunato qui, per dimostrare il suo valore: che sia pagano o battezzato, lo venga a incontrare fuori dalla città, nel verde prato alla Fonte del Pino, dove si dice che ci sia il Pietrone [la tomba] di Merlino. Ma ciò avvenga a questo patto (ascolti bene chi si vuole cimentare): chiunque sia disarcionato non potrà in nessun modo combattere ancora, ma sarà fatto prigioniero senza resistenza: chi invece riuscirà ad abbattere Uberto, otterrà me in sposa: lui se ne andrà via coi suoi giganti. - Alla fine del suo discorso, Angelica aspettava la risposta inginocchiata di fronte a Carlo. Ogni uomo l'ha ammirata con meraviglia, ma soprattutto Orlando le si avvicina col cuore tremante e stravolto in viso, anche se teneva nascosti i suoi sentimenti; e talvolta abbassava gli occhi a terra, vergognandosi assai di se stesso. "Ah, Orlando pazzo!" diceva tra sé, "come ti lasci trasportare dal desiderio! Non vedi l'errore che ti coglie e ti induce a peccare contro Dio? Dove mi conduce il mio destino? Vedo che sono catturato e non posso liberarmi; io, che ritenevo di nessun valore tutto il mondo, sono vinto senz'armi da una fanciulla. Io non posso allontanare dal mio cuore la dolce vista e il suo volto sereno, perché senza di lei mi sento morire e il mio spirito vien meno poco alla volta. Ora contro la forza d'Amore, che già mi ha imbrigliato, non mi serve né la forza né il coraggio; e non mi serve la mia saggezza né il consiglio altrui, poiché io vedo cosa sarebbe meglio fare e continuo a desiderare il peggio." Così il guerriero franco si lamentava in silenzio del suo nuovo amore. Ma il duca Namo, che è canuto e pallido, non provava minor pena di lui al cuore, anzi tremava spossato e sbalordito, avendo perso ogni colore in volto. Ma che dire di più? Ogni barone si era innamorato di Angelica ed anche re Carlo. Ognuno stava immobile e sbigottito, osservando quella donna con gran piacere; ma Ferraguto, il giovane coraggioso, aveva l'aspetto di una fiamma viva, e per tre volte decise di prendere Angelica a dispetto dei giganti, e altrettante volte frenò quei pensieri malvagi per non disonorare l'imperatore. Si sposta ora su un piede ora sull'altro, si gratta la testa e sembra frenetico; Ranaldo, che l'ha vista anche lui, divenne rosso in faccia come il fuoco; e Malagise [il mago] che l'ha riconosciuta, diceva tra sé: "Malvagia incantatrice, io ti farò un tale incantesimo che non potrai vantarti di essere stata qui." Re Carlo Magno rispose a quella fanciulla con un lungo discorso, per poter stare molto accanto a lei. La ammira mentre parla e mentre parla la osserva, e non può negarle nulla, anzi accoglie ogni sua richiesta giurando sul Vangelo di rispettare i patti: lei se ne va col fratello e coi giganti. Non era ancora uscita dalla città, quando Malagise prese il suo libro di incanti: per sapere tutti i suoi segreti evocò quattro demoni dall'inferno. Oh, quanto rimase sbigottito, quanto si turbò, Dio del cielo eterno! Infatti vide chiaramente che re Carlo era destinato a morire e la sua corte ad essere distrutta. Infatti quella donna tanto bella [Angelica] era figlia del re Galifrone [del Catai] ed era piena di inganni e di falsità, conosceva tutti gli incanti, ed era giunta in Occidente mandata da quel vecchio malvagio [il padre] insieme al fratello, che si chiamava Argalìa e non Uberto come lei aveva detto. Aveva dato al giovane un cavallo nero quanto un carbone arso, tanto veloce e rapido nella corsa che più volte aveva già superato il vento; gli aveva dato uno scudo, una corazza e un elmo col cimiero, e una spada prodotta dagli incanti; ma soprattutto una lancia d'oro, fabbricata con grande ricchezza e pregio. Ora con queste armi il padre lo mandò in Occidente, pensando che con quelle sarebbe stato invincibile, e oltre a ciò gli donò un anello di grande e incredibile virtù, anche se lui non lo usò; il potere dell'anello era di rendere invisibili, se uno lo metteva in bocca a sinistra, mentre se portato al dito rompeva ogni incantesimo. Ma soprattutto Galifrone volle che andasse con lui la bellissima Angelica, perché quel viso, che induce ad amare, irretisse tutti i paladini alla sfida [con Argalìa] e affinché lei, dopo che la sfida fosse finita per incanto, portasse a lui ogni guerriero catturato: il maledetto cane, re Galifrone, li vuole tutti con le mani legate. |
Interpretazione complessiva
- Il passo rappresenta l'inizio dell'intreccio del poema, con l'arrivo inaspettato di Angelica alla corte di Parigi mentre è in corso la tregua della Pentecoste ed è lì radunato il fior fiore dei guerrieri pagani e cristiani, in attesa di partecipare al torneo cavalleresco: la reggia è descritta come una corte del Quattocento e i presenti agiscono come raffinati gentiluomini del tempo di Boiardo, "Con parlar basso e bei ragionamenti" secondo le norme di comportamento che verranno poi codificate nei trattati rinascimentali (ovviamente il poema ha ben poco di storico e tali descrizioni rientrano nella celebrazione della cortesia al centro degli interessi dell'autore). È interessante il fatto che Angelica fa la sua "entrata" nella sala a sorpresa e con un ingresso quasi cinematografico, circondata dai quattro giganti e seguita dal fratello Argalìa, mentre tutti gli sguardi dei presenti si voltano ad ammirare la sua straordinaria bellezza; si tratta della prima apparizione del personaggio nella tradizione epica italiana, in cui avrà un ruolo essenziale specie dell'Orlando furioso di L. Ariosto.
- L'arrivo di Angelica a corte è parte di un piano bel preciso, poiché la donna (mandata lì dal padre, il re Galifrone del Catai) intende usare le sue arti di seduzione e i suoi incanti per irretire il maggior numero possibile di guerrieri e sottrarli alla guerra, favorendo così le non meglio precisate mire del padre: rivolge a Carlo un falso discorso, facendogli credere di essere stata cacciata dal suo regno e di volerlo riprendere con una forza militare, quindi si promette in sposa a chiunque riuscirà a vincere il fratello (che lei presenta con un falso nome) in un duello, ben sapendo che le armi di Argalìa sono fatate e dunque i guerrieri sconfitti verranno fatti prigionieri. Naturalmente tutti gli uomini presenti si innamorano di lei seduta stante e tra questi lo stesso Carlo, che infatti accoglie facilmente ogni sua richiesta e asseconda così i suoi piani. Il personaggio di Angelica si qualifica subito come quello di una perfida incantatrice e seduttrice, pronta a usare ogni mezzo pur di raggiungere i suoi scopi, e la scena del suo arrivo a corte verrà ripresa da Tasso nella Gerusalemme liberata, nell'episodio in cui la maga Armida fa il suo ingresso nel campo dei crociati e rivolge un discorso assai simile al capitano Goffredo (► TESTO: Armida al campo dei crociati).
- L'episodio è importante in quanto mostra subito l'innamoramento di Orlando, che si rende conto di peccare contro Dio inseguendo un vano amore terreno e tuttavia non può contrastare i suoi sentimenti, poiché Amore gli ha "posto il freno", lo ha imbrigliato come un cavallo (Boiardo si rifà alla tradizione stilnovistica dell'amore quale sentimento incontrastabile, ed anche a quella classica secondo cui Amor omnia vincit secondo il celebre verso virgiliano, Ecl., X, 69). Nel suo "monologo interiore" Orlando accenna al tema petrarchesco del dilemma tra dovere religioso e lusinghe amorose, citando lo stesso Petrarca in 31.8 (cfr. il sonetto 264 del Canzoniere, v. 136: "et veggio ’l meglio, et al peggior m’appiglio", a sua volta rielaborazione di un verso di Ovidio), anche se è ovvio che in Boiardo non c'è quasi nulla del travaglio interiore del poeta del Trecento e il tutto è descritto in modo lieve, con un omaggio di tipo letterario. Petrarca viene citato anche in 32.3 (Namo duca di Baviera è "canuto e bianco", con ripresa del sonetto 16 del Canzoniere, v. 1), mentre la descrizione della bellezza di Angelica si rifà a motivi tipici dello Stilnovo, come in 21.5-6 quando la sua bellezza viene paragonata alla stella Venere e al giglio e alla rosa, in modo simile ad alcuni testi di Guinizelli (► TESTO: Io voglio del ver la mia donna laudare).
- Il mago Malagise (Malagigi nel Furioso), negromante cristiano al servizio dei paladini di Francia, riconosce immediatamente Angelica come incantatrice e in seguito evoca quattro demoni infernali per capirne le intenzioni, svelando in tal modo al lettore il piano malvagio della donna e il fatto che il duello con Argalìa non può essere vinto, essendo le sue armi fatate. Ci viene detto anche che Argalìa è in possesso di un anello fatato, che rende invisibile chi lo mette in bocca e spezza ogni incanto se infilato al dito, oggetto che lui non avrà modo di usare (verrà ucciso da Ferraguto pochi canti dopo; ► TESTO: La morte di Argalìa) ma che userà invece sua sorella Angelica in più occasioni, soprattutto nel Furioso. Nelle ottave seguenti Malagise tenterà di vincere gli incanti della donna, ma verrà catturato e trasportato magicamente nel Catai, mentre in seguito fornirà i suoi servigi ad Angelica e la aiuterà.