Torquato Tasso (Sorrento, 1544 - Roma, 1595) è il principale poeta e scrittore dell'età della Controriforma, nonché l'autore di uno dei maggiori capolavori del poema epico del Cinquecento, la Gerusalemme liberata. Come letterato del tardo XVI sec. ha espresso nella sua opera l'inquietudine di un'epoca buia e oscurantista, dominata dal timore delle novità in campo religioso e dai processi dell'Inquisizione, ma anche l'insofferenza per i rigidi codici di comportamento che regolavano la vita di corte della quale Tasso faceva parte lavorando per gli Este a Ferrara. Oltre al capolavoro ci ha lasciato un dramma pastorale (l'Aminta, destinato a fondare un nuovo genere di poesia teatrale), vari dialoghi, poesie liriche e versi di ispirazione religiosa. Come intellettuale ha esercitato un notevole fascino soprattutto sui letterati dell'età del Romanticismo, primo fra tutti Leopardi che a lui dedicò una delle Operette morali.
Biografia
La formazione e la prima attività poetica
Torquato Tasso nacque l'11 marzo 1544 a Sorrento, dal letterato bergamasco Bernardo (che era segretario del principe di Salerno, Ferrante Sanseverino) e Porzia de' Rossi, nobildonna di origini toscane. Nel 1554 Bernardo fu coinvolto in un tentativo di ribellione dei Sanseverino contro il viceré di Napoli e venne esiliato, dovendo seguire il suo signore a Roma; il piccolo Torquato andò con lui e si separò dalla madre, che non avrebbe più rivisto (la donna morì nel 1556). Questo trauma segnò l'infanzia del poeta ed ebbe certamente conseguenze sul suo equilibrio psicologico, mentre anni dopo avrebbe rievocato il periodo dell'infanzia nella canzone Al Metauro, uno dei suoi componimenti più famosi. Tra il 1560 e il 1565 fu a Padova, allora centro dell'aristotelismo italiano, dove studiò diritto, filosofia ed eloquenza, e per un paio d'anni proseguì gli studi a Bologna, anch'essa sede di una prestigiosa università. Nel frattempo iniziò una prima attività letteraria e compose nel 1562 il Rinaldo, un poema in ottave di 12 canti sulla materia cavalleresca del ciclo carolingio (anche il padre Bernardo, autore di liriche, aveva scritto un poema cavalleresco intitolato Amadigi). Scrisse anche rime amorose, ispirate dalla passione per Lucrezia Bendidio e Laura Peperara, due nobildonne vicine alla corte estense, mentre già nel 1559 iniziò il progetto di un poema sulla prima crociata, che poi si sarebbe sviluppato nella Gerusalemme liberata.
A Ferrara, al servizio degli Este
Nel 1565 si stabilì a Ferrara, dove lavorava al servizio del cardinale Luigi d'Este e dove fu ben accolto nell'ambiente di corte, stabilendo amichevole relazioni soprattutto con Lucrezia, sorella del duca Alfonso II. Qui lavorò al poema iniziato nel 1559 e compì alcuni viaggi al seguito del cardinale, finché nel 1572 entrò a far parte degli stipendiati del duca, senza compiti particolari se non quello di comporre versi per la corte: iniziò un periodo particolarmente felice e di intenso lavoro letterario, che vide in particolare la composizione dell'Aminta (il dramma pastorale che viene rappresentato con grande successo nel 1573) e il completamento della Gerusalemme liberata, sostanzialmente terminata nel 1575 (anche se il titolo non era ancora quello definitivo). Questo è però anche il periodo in cui Tasso cominciò a manifestare segni di squilibrio mentale e di inquietudine, che lo spinsero a sottoporre il poema al vaglio di alcuni amici e letterati (tra cui Scipione Gonzaga e Sperone Speroni) e poi a farsi esaminare dall'Inquisizione di Ferrara per scrupoli religiosi, venendone completamente assolto. La cosa creò non poco imbarazzo ad Alfonso, che essendo figlio di Renata di Francia (calvinista e perciò considerata "eretica") non voleva attirare l'attenzione del Sant'Uffizio sulla sua corte. La situazione precipitò nel 1577, quando il poeta aggredì con un coltello un servo da cui si credeva spiato, presente Lucrezia, e venne confinato per un periodo nel convento di S. Francesco; riuscì a fuggire e lasciò Ferrara, compiendo per alcuni mesi alcune nervose peregrinazioni per l'Italia.
La reclusione a Sant'Anna
Nel 1579 tornò a Ferrara, proprio nel momento in cui in città si preparavano le nozze tra il duca Alfonso e Margherita di Gonzaga: sentendosi trascurato dalla corte, diede in violente escandescenze contro il duca e gli altri dignitari, per cui fu arrestato e rinchiuso per ordine di Alfonso nell'ospedale di Sant'Anna, dove sarebbe rimasto come prigioniero per sette anni. Trattato all'inizio come pazzo, fu sottoposto a una custodia estremamente dura che col tempo si attenuò, permettendogli anche di scrivere; a Sant'Anna Tasso compose molti dei 26 Dialoghi e tantissime lettere, con le quali si rivolgeva a vari signori d'Italia pregandoli di intercedere in suo favore per una liberazione. Si diffuse anche la leggenda di un suo amore "proibito" per Eleonora, una delle sorelle del duca, il quale lo avrebbe per questo fatto rinchiudere a Sant'Anna simulando la sua follia (tale "mito" si sarebbe prolungato sino all'Ottocento e avrebbe alimentato l'immagine "romantica" di Tasso che, forse, affascinò lo stesso Leopardi). Durante la reclusione venne anche pubblicato il poema col titolo di Gerusalemme liberata, da lui non riconosciuto e senza che potesse esercitare alcun controllo sull'edizione, e l'opera non mancò di suscitare polemiche letterarie, specie per le critiche malevole che alcuni intellettuali rivolsero all'autore (particolarmente negativo fu Leonardo Salviati, che preferiva il modello del Furioso dell'Ariosto per ragioni di lingua e di stile).
Gli ultimi anni e la morte
Nel luglio 1586 Alfonso II decise di liberare Tasso e lo affidò al cognato Vincenzo Gonzaga, che lo portò con sé a Mantova: il poeta uscì fortemente provato dalla lunga prigionia e iniziò in seguito una serie di viaggi nervosi e inquieti in varie città d'Italia, al servizio di vari signori, facendo tappa a Firenze, a Napoli e soprattutto a Roma, dove nel 1593 pubblicò il rifacimento completo del poema col titolo di Gerusalemme conquistata. Sempre a Roma pubblicò Le lacrime della Beata Vergine e di Gesù Cristo, due poemetti di ispirazione religiosa e nel 1594 stampò i sei Discorsi del poema eroico, sviluppo dei Discorsi dell'arte poetica già pubblicati in precedenza e in cui giustificava le scelte di temi e di stile che avevano guidato la composizione del poema, specie in raffronto col modello del poema epico-cavalleresco di Boiardo e Ariosto. Le sue condizioni di salute peggioravano e si ridusse a vivere in Vaticano, godendo di una lauta pensione concessagli dal papa; era in procinto di essere incoronato poeta, quando nel marzo 1595, aggravatosi, si fece portare nel convento di S. Onofrio sul Gianicolo dove morì il 25 aprile di quell'anno. Fu sepolto nella chiesa del convento, dove la tomba rimase a lungo priva di una lapide suscitando lo sdegno di diversi letterati del tempo, incluso il Marino che in versi famosi della Galeria lamentò che il grande poeta giaceva "senza onor di tomba", finché il cardinal Bevilacqua nel 1608 (su sollecitazione del letterato G.B. Manso) fece realizzare un monumento funebre ancor oggi presente nella chiesa. Nel 1823 la tomba del poeta verrà visitata da Giacomo Leopardi nel corso del suo famoso viaggio a Roma, evento riportato in una lettera al fratello Carlo del febbraio di quell'anno (sull'ammirazione di Leopardi per Tasso, si veda oltre).
Qui è possibile vedere un breve video su Torquato Tasso e Leopardi, tratto del canale YouTube "Video Letteratura" |
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La storia interiore di Tasso
La vita e l'opera di Tasso sono state indubbiamente segnate dall'esperienza lacerante della follia, tuttavia sarebbe un errore pensare che questo suo travaglio fosse unicamente frutto della sua vicenda personale, senza collegamenti con l'epoca in cui visse: il clima culturale della Controriforma, con il suo oscurantismo e la paura per tutto ciò che appariva "diverso", certamente influirono sulla sua visione del mondo e il suo stesso capolavoro ne fu un riflesso con la scelta di ambientare il poema durante la prima crociata, proprio in anni in cui l'avanzata dei Turchi nel Mediterraneo appariva minacciosa (e in Europa si preparavano "crociate" per estirpare l'eresia della Riforma, in un'atmosfera che preludeva alle guerre di religione del secolo successivo). Da qui i dubbi e le remore religiose che rallentarono molto la composizione della Liberata, mai pienamente accettata dall'autore per la presenza (poi giudicata eccessiva) di elementi fiabeschi e amorosi, cui seguì il rifacimento della Conquistata e la realizzazione di rime di ispirazione devota, specie negli ultimi anni segnati dalla malattia e dall'isolamento dopo la prigionia a Sant'Anna. Propria di Tasso fu anche l'insofferenza per l'ambiente di corte che nel tardo Cinquecento era oppressivo e imponeva per motivi religiosi una rigida concezione del decoro e dell'onore, cui Tasso mal si adattava e che lo rendeva "strano" e deviante dalla norma per le sue eccentricità (e sappiamo quanto la cultura della Controriforma cercò di "ghettizzare" e isolare coloro che, per motivi vari, apparivano non allineati all'ordine costituito). Grande parte ha nella sua poesia il vagheggiamento di una dimensione mitica in cui le regole dell'onore non sono presenti e in cui sia possibile l'abbandono voluttuoso al piacere sensuale, quale il mondo dei pastori nell'Aminta dove è l'Amore e non l'Onore a dettare legge: è evidente comunque che questa dimensione arcadica è solo un'illusione e che la corte è una "prigione" dalla quale il nobile non può realmente evadere per ragioni sociali, come l'episodio di Erminia della Liberata dimostra pienamente (la principessa dimora tra i pastori per un po', indossa panni umili, ma poi è costretta a tornare alla corte cui appartiene per il suo sangue regale; ► TESTO: Erminia tra i pastori). Del resto il sogno bucolico può essere solo una breve sospensione dalla realtà della vita aristocratica e significativamente le lusinghe amorose sono respinte e sconfitte da Rinaldo nell'episodio della selva di Saron, quando il campione crociato torna al dovere militare e religioso e dà il suo contributo decisivo per la sconfitta delle forze pagane (► TESTO: Rinaldo vince gli incanti della selva). Questo vale in fondo per lo stesso Tasso, che per tutta la vita si dibatté nelle ristrettezze della corte senza mai abbandonare quella dimensione e, anzi, venendo considerato per molto tempo uno squisito gentiluomo esperto di questioni cavalleresche e dell'arte dei duelli, conoscenze di cui si ha un riflesso in più parti della sua opera e che lo resero anche nel secolo successivo una "autorità" nel campo dell'onore (sul punto, essenziale per comprendere la ricezione di Tasso negli anni seguenti, si veda oltre). Con la sua inquietudine e le sue lacerazioni interiori Tasso esprime dunque la reazione dell'intellettuale del XVI sec. di fronte al mutato clima culturale in Italia e alla trasformazione dell'ambiente di corte, mentre il suo stile spezzato, nervoso, tendente al sublime e alla metafora ricercata e preziosa anticipa tanti aspetti della lirica barocca che di lì a pochi anni si sarebbe sviluppata, anch'essa prodotto della corte ma senza quel carico di sofferenza personale che il poeta sorrentino trasfuse nei suoi versi (e, anzi, con una leggerezza e un'euforia che si opporrà in modo quasi antitetico alla gravità del "secolo oscuro" precedente).
Le Rime
Tasso si dedicò alla produzione lirica per tutta la vita e compose circa duemila poesie, senza tuttavia raccoglierle mai in un canzoniere organico e pubblicandone alcune scelte tra il 1567 e il 1593, lasciandone molte inedite. Il punto di partenza è naturalmente il modello petrarchesco e la lirica dei petrarchisti del XVI sec., che tuttavia Tasso rinnova profondamente nel linguaggio e nelle forme metriche, per es. dando grande spazio al madrigale (che tanta fortuna avrebbe avuto nella poesia barocca) accanto ai consueti sonetti, canzoni e ballate. I temi sono essenzialmente quello amoroso, specie nelle poesie giovanili dedicate a Lucrezia Bendidio e Laura Peperara e ad altre nobildonne del tempo, e quello encomiastico, con tante liriche che celebrano occasioni legate alla vita di corte e raffigurano balli e ritrovi mondani, le varie attività di una società raffinata ed elegante. Meno interessanti le liriche di argomento religioso, pure presenti e che anticipano le composizioni devote risalenti agli ultimi anni di vita del poeta, come i poemetti Le lacrime di Maria Vergine e Il mondo creato (sul punto si veda oltre). Tra le poesie più famose si possono ricordare il madrigale Qual rugiada o qual pianto, che è un bell'esempio di quella intensa sensualità che pervade i momenti più felici delle rime di Tasso (► VAI AL TESTO) e il sonetto dedicato al nuovo amore per la Peperara, dopo la fine della passione per la Bendidio (► TESTO: L’incendio, onde tai raggi). Molto nota e celebrata anche la canzone incompiuta Al Metauro, dedicata al duca Francesco Maria II della Rovere, testo che rievoca in modo dolente gli anni dell'infanzia e rappresenta un momento di amara riflessione sul significato della vita umana (► TESTO: Canzone al Metauro).
L'Aminta
Titolo, struttura, composizione
Tasso scrisse l'Aminta in pochi giorni, nella primavera del 1573 durante il periodo di maggior serenità e fervore letterario (aveva ormai quasi completato il poema): si trattava, secondo la definizione dell'autore, di una "favola boscareccia", ovvero un testo destinato alla rappresentazione teatrale avente come protagonisti ninfe e pastori e ambientato in un luogo imprecisato vicino a una "cittade", che potrebbe alludere a Ferrara (il genere sarebbe poi stato denominato "dramma pastorale" e avrebbe avuto grande successo nel tardo XVI sec.). L'opera, concepita come una "tragicommedia" in quanto ha argomento amoroso e lieto fine, è suddivisa in cinque atti secondo lo schema aristotelico, preceduti da un prologo e ciascuno chiuso da un coro, una sorta di lirica in cui viene commentata l'azione; il testo è scritto in versi e alterna endecasillabi e settenari liberamente rimati. L'Aminta venne rappresentato alla corte estense di Ferrara nell'estate del 1573 e raccolse grandi consensi, venendo in seguito stampato a Cremona nel 1580. L'autore si rifà alla tradizione del XV-XVI sec. di rappresentare egloghe pastorali a corte, come nel caso del Tirsi di G.B. Giraldi Cinzio, anche se Tasso è il primo a fissare il "canone" di un genere che, almeno in parte, si rifaceva alle regole aristoteliche (anche se non mancarono polemiche, dato che il dramma pastorale non aveva in realtà riferimenti nella Poetica); in seguito Battista Guarini scrisse il Pastor fido che divenne il capolavoro del genere.
La trama
Il pastore Aminta ama la giovane ninfa Silvia, che però non vuole cedere alle lusinghe amorose e viene invano spinta dalla matura compagna Dafne a non negare a se stessa le gioie del piacere (► TESTO: Silvia e Dafne). Dal canto suo Aminta è inesperto e non riesce a dichiararsi a Silvia, per cui riceve i consigli del saggio pastore Tirsi. Aminta decide allora di andare a incontrare l'amata nel fiume dove è solita fare il bagno, ma qui la trova legata a un albero e prigioniera di un satiro, che sta per usarle violenza. Aminta mette in fuga il satiro e libera Silvia, che tuttavia fugge senza neppure ringraziarlo. In seguito la ninfa Nerina rivela che Silvia è stata attaccata da un branco di lupi ed è stato ritrovato il suo velo insanguinato, per cui si crede che la giovane sia morta: Aminta, disperato, medita il suicidio. In realtà Silvia è viva e giunge lei stessa a dare la notizia alle compagne, ma poco dopo un pastore riferisce di aver visto Aminta gettarsi da una rupe. Silvia, disperata per la presunta morte di Aminta e pentita di avergli negato il suo amore, va in cerca del suo corpo ma, con grande sorpresa, scopre che il giovane è sopravvissuto grazie a un cespuglio di rovi che ha attutito la caduta. A questo punto la ninfa si concede all'amore del pastore e la rappresentazione si chiude con il classico lieto fine (► TESTO: Il finale dell'Aminta).
Il mondo pastorale e la corte
Nell'Aminta Tasso delinea un quadro fortemente idillico in cui il mondo pastorale è contrapposto per certi versi a quello della corte, ambiente che nel tardo XVI sec. diventava sempre più oppressivo e regolato da un rigido cerimoniale basato sulle regole del decoro e dell'onore: al contrario, ninfe e pastori vivono felici e liberi di abbandonarsi al piacere sensuale dell'amore e tale contrasto è chiaramente enunciato nel coro che chiude l'atto I, in cui è vagheggiata una "età dell'oro" in cui era l'Amore e non l'Onore a determinare i rapporti sociali (► TESTO: O bella età de l'oro). Nell'opera Tasso esprime dunque una forte tensione verso il piacere e le gioie amorose, affermando però al contempo che nel mondo della corte non è possibile un abbandono sfrenato alle gioie della vita e relegando queste ultime a una dimensione mitica, poetica, inattuabile nella concreta realtà storica del suo tempo. Una visione simile verrà riproposta anche nella Gerusalemme liberata, specie nell'episodio di Erminia che viene accolta tra i pastori e indossa panni umili per dimenticare l'infelice amore per Tancredi, ma questa sorta di mascherata bucolica non coprirà la "nobil luce" che emana dal suo sangue regale e, in seguito, la giovane dovrà tornare al mondo cui appartiene (► TESTO: Erminia tra i pastori). Ciò non significa, tuttavia, che nell'Aminta vi sia una polemica diretta contro l'ambiente di corte (presente invece nel poema, anche se molto sfumata), poiché anzi il testo viene concepito anche come intrattenimento per un pubblico nobile e le vicende dei pastori, benché apparentemente lontane dalla dimensione aristocratica, rispecchiano in parte i costumi eleganti e raffinati della società di corte e alcuni personaggi del dramma sembrano persino adombrare figure storiche reali (ad es. Silvia e Dafne sarebbero in realtà Eleonora e Lucrezia d'Este, identificazione che tuttavia non è affatto certa). L'Aminta esprime in ultima analisi il disagio dell'autore verso l'ambiente sociale della corte pur nella consapevolezza che per il gentiluomo non sia possibile evadere da esso se non in modo giocoso, senza tuttavia che traspaia quell'inquietudine interiore che pervaderà invece tanti episodi del poema e senza l'elemento religioso che nel dramma è praticamente assente.
Elementi tragici e idillici
L'Aminta racconta una vicenda amorosa a lieto fine e numerosi sono gli elementi che rimandano all'idillio pastorale e alla commedia, tuttavia l'opera contiene anche elementi tragici rivelatori di una certa inquietudine dell'autore, che si sarebbe manifestata in modo più dirompente in seguito: anzitutto l'amore di Aminta e Silvia finisce bene, sì, ma grazie al caso che consente alla giovane di salvarsi dall'attacco dei lupi e al pastore di non uccidersi gettandosi dalla rupe, per cui il finale luttuoso è sventato solo all'ultimo (e dopo che il pubblico li ha creduti entrambi morti almeno per una parte dell'opera). L'elemento del velo insanguinato di Silvia, che fa credere a tutti che la ninfa sia stata sbranata dai lupi, rimanda tra l'altro all'episodio di Piramo e Tisbe narrato da Ovidio (Met., IV.55 ss.) in cui la ragazza sfugge a una leonessa che insanguina con le fauci il suo velo, inducendo poi l'innamorato a uccidersi (in quel caso il finale era funesto per entrambi). Particolarmente inquietante è poi l'episodio del tentato stupro del satiro ai danni di Silvia, sventato solo in extremis da Aminta: il satiro giustifica il suo progetto criminoso attraverso un monologo in cui ribalta quanto detto nel coro dell'atto I, affermando cioè che a lui, povero e deforme, non è consentito godere delle gioie dell'amore, per cui è quasi costretto a usare le armi della violenza per piegare Silvia ai suoi voleri, quindi offrendo una giustificazione sociale ed economica della sua condotta (► TESTO: Il monologo del satiro). Il satiro è escluso dal sistema di valori che considera l'amore qualcosa di nobile ed elevato e perciò vuole ribellarsi ad esso con la forza, nel che si vede forse un'implicita critica al mondo della corte basato sul concetto di "gentilezza" ma negato a chi, essendo povero, non vi può appartenere ed è tenuto ai margini di quella società raffinata ed esclusiva (secondo il satiro "sol vince l'oro e regna l'oro", che è la rilettura critica dell'esaltazione dell'età dell'oro contenuta nel coro a chiusura dell'atto I). L'amore non ha quindi una lettura univoca nell'opera ed è presentato anche nei suoi risvolti tragici e violenti, segno che il testo è qualcosa di più profondo di un intrattenimento elegante per nobili e affronta in modo allusivo alcuni nodi irrisolti della società del XVI sec.
Fortuna editoriale
Come detto, l'Aminta conobbe un certo successo a partire dalla prima rappresentazione del 1573 e numerose furono le edizioni a stampa (non tutte complete) dal 1580 sino alla fine del secolo, mentre l'opera fissò il canone del dramma pastorale e venne di fatto imitata da Battista Guarini col Pastor fido (1590), considerato il capolavoro del genere. Nel XVII sec. il testo venne più volte messo in scena in varie corti italiane e nel 1628 Claudio Monteverdi musicò alcuni intermezzi inseriti nella rappresentazione fatta per le nozze di Margherita de' Medici e Odoardo Farnese, anche se quelle partiture non si sono conservate. L'Aminta venne poi riscoperto soprattutto durante il Romanticismo, quando si diffuse la leggenda di Tasso ingiustamente perseguitato per i suoi amori infelici, e l'opera fu in particolare apprezzata dal poeta Giacomo Leopardi che, com'è noto, si ispirò al personaggio di Silvia per dare il nome poetico a Teresa Fattorini nella lirica A Silvia, mentre il nome di Nerina (una delle compagne della ninfa) fu attribuito alla protagonista femminile delle Ricordanze (sull'influenza della poesia di Tasso su Leopardi si veda oltre). L'Aminta è oggi considerata l'opera di Tasso più complessa e interessante dopo il poema e numerosi studi sono stati svolti su di essa soprattutto nel XX sec., mentre l'opera viene tuttora rappresentata a teatro, talvolta con l'utilizzo di musiche composte nel Seicento per intermezzi estranei al testo originale ma inseriti nelle rappresentazioni di corte del dramma.
La Gerusalemme liberata, ultimo grande poema epico
Tasso concepì assai presto un poema avente come oggetto la prima crociata e il primo abbozzo risale forse al 1559, col titolo provvisorio di Gierusalemme: in seguito il progetto si sviluppò sulla linea del nuovo genere del poema eroico quale veniva teorizzato dagli intellettuali aristotelici del Cinquecento, quindi con un minor numero di personaggi e una vicenda più lineare rispetto al modello epico-cavalleresco di Ariosto, e l'opera prese forma negli anni 1565-1575 mentre l'autore si trovava alla corte di Ferrara, col probabile titolo Goffredo (dal nome del protagonista Goffredo di Buglione, il capo storico della crociata). In realtà Tasso era profondamente insoddisfatto dell'opera e la sottopose al giudizio critico di vari intellettuali, ricevendone osservazioni anche malevole, e decise di non stamparla in attesa di un'ulteriore revisione. Mentre era recluso a Sant'Anna, tuttavia, alcuni suoi amici ne pubblicarono degli stralci senza il suo permesso e col titolo non d'autore Gerusalemme liberata, poi attribuito tradizionalmente al poema. Alla trama e ai personaggi dell'opera è dedicata una sezione apposita del sito, cui si rimanda per ulteriori approfondimenti, tuttavia per una presentazione generale è doveroso ricordare che la Liberata fu di fatto l'ultimo grande poema epico del Cinquecento, prima della dissoluzione del genere nel corso del XVII sec., inoltre il successo dell'opera non fu univoco ma accompagnato da polemiche letterarie per il confronto che molti intellettuali fecero col modello del Furioso, discussioni che proseguirono anche dopo la morte di Tasso nel secolo seguente (sul punto si veda oltre). L'autore anche per questo non era soddisfatto del suo lavoro, che del resto era circolato mentre era a Sant'Anna senza che lui avesse potuto esercitare un controllo editoriale, per cui dopo la sua liberazione si dedicò alla riscrittura completa del poema, realizzando la Gerusalemme conquistata (stampata nel 1593) che appare un testo profondamente diverso rispetto alla Liberata, con l'eliminazione o il cambiamento di episodi significativi e un ampliamento delle parti relative alla guerra, per cui il secondo poema risulta più lungo rispetto al primo. La ricezione da parte del pubblico della Conquistata fu piuttosto fredda e il nome di Tasso continuò ad essere legato al successo della Liberata, anche se (come detto) il genere epico entrò in crisi nel Seicento e venne sostituito dal poema di argomento mitologico, come l'Adone di G.B. Marino che con la narrazione epica non ha nulla a che fare, e dal poema eroicomico, come la Secchia rapita di Alessandro Tassoni che del poema eroico costituisce la parodia esplicita. Oggi la maggioranza degli editori preferisce pubblicare la Liberata basandosi sulle migliori e più accurate edizioni del XVI sec., benché tale scelta contrasti forse con la volontà dell'autore, anche perché il primo poema appare unanimemente superiore al secondo e di più facile lettura, per cui la Conquistata viene relegata tra le opere minori (e non meglio riuscite) del grande poeta sorrentino.
Per approfondire: ► OPERA: Gerusalemme liberata
Per approfondire: ► OPERA: Gerusalemme liberata
I Dialoghi
Tasso scrisse ventisei Dialoghi in prosa dal 1578-79 sino alla morte, molti dei quali composti durante la reclusione a Sant'Anna, dedicati a vari argomenti di natura morale, intellettuale e relativi alla vita di corte: tra i titoli più significativi ricordiamo il Forno overo de la nobiltà, scritto già alla fine degli anni Settanta del XVI sec. e successivamente rielaborato, il Malpiglio overo de la corte, la Cavaletta overo de la poesia toscana, il Molza overo de l’amore, il Messaggiero (sull'ufficio dell'ambasciatore) e il Padre di famiglia (sui compiti del padrone di casa e i suoi rapporti con i famigliari e i servi; ► TESTO: Il padre di famiglia). Rispetto al modello del dialogo rinascimentale l'autore riduce fortemente l'elemento narrativo e "scenografico" ampiamente presente nelle opere di Bembo e Castiglione (e ancora nel Dialogo sopra i due massimi sistemi di Galileo), a tutto vantaggio del ragionamento filosofico e dell'argomentazione a favore delle proprie tesi, con riferimenti anche alle opere platoniche (specie nel Messaggiero, che contiene un'importante digressione sulla demonologia). La finalità di molti dialoghi e soprattutto di quelli scritti a Sant'Anna, era quella di dimostrare la propria lucidità mentale e vi prevale un bisogno di comunicare le proprie idee, di fasi capire, tanto più urgente quanto più si prolungava l'isolamento forzato a causa della reclusione in ospedale. L'altra linea di interpretazione riguarda la volontà da parte dell'autore di delineare le qualità del perfetto intellettuale e dell'uomo di corte nella società del tardo Cinquecento, inserendo i Dialoghi in un ambizioso progetto di rielaborazione della cultura post-rinascimentale che è riuscito solo negli scritti più felici e che risente, in ogni caso, tanto delle vicissitudini personali dello scrittore quanto del clima culturale oscurantista proprio della Controriforma. Lo stile utilizzato è comunque lucido, molto curato formalmente e vicino ai modelli classici (Platone, Cicerone soprattutto) cui Tasso intendeva rifarsi, fissando almeno in parte un "canone" della prosa filosofica che avrebbe influenzato i successivi sviluppi del genere nel XVII-XVIII sec. Da ricordare ancora che alcuni dialoghi vennero concepiti come omaggio celebrativo a illustri amici dell'autore per sollecitare la sua liberazione dalla prigionia, mentre soprattutto la seconda elaborazione del Forno, risalente agli anni della reclusione, ebbe grandissima influenza nel Seicento nel presentare Tasso come "autorità" nel campo delle questioni cavalleresche, citato come tale anche da Alessandro Manzoni nei Promessi sposi (sul punto si veda oltre).
L'epistolario
Tasso ci ha lasciato circa 1.700 lettere, scritte durante l'arco di tutta la vita e indirizzate ai destinatari più vari, soprattutto a suoi amici letterati e intellettuali cui sottoponeva questioni relative al poema o ad altre parti della sua opera, e a illustri protettori cui si rivolgeva per chiedere aiuto o intercessione: le missive non sono organizzate in un epistolario sul modello petrarchesco e offrono un quadro interessante della personalità contraddittoria e inquieta di Tasso, nonché delle tappe fondamentali della sua opera e della genesi del poema. Particolarmente inquietanti quelle scritte da Sant'Anna durante la reclusione, circa cinquecento lettere in cui il poeta si rivolge ad amici e potenti supplicando un aiuto per lasciare la prigionia, cercando di dimostrare il suo stato di lucidità (ma sull'effettivo disagio psicologico dello scrittore abbiamo testimonianze indubbie, inclusa quella famosa di Michel de Montaigne che lo incontrò proprio a Sant'Anna). Tra i destinatari troviamo anzitutto Scipione Gonzaga, il cardinale amico di Tasso che era tra i principali dotti e intellettuali del Cinquecento e uno dei "revisori" del poema, cui lo scrittore indirizzò molte epistole anche dalla prigionia, e poi Sperone Speroni, altro esponente insigne dell'aristotelismo del Cinquecento, il duca di Urbino Francesco Maria della Rovere, il duca di Ferrara Alfonso II, il cardinale Luigi d'Este e moltissimi altri. Il corpus delle lettere di Tasso rimase in gran parte inedito sino al XIX sec., quando ci fu la fondamentale edizione di Cesare Guasti che costituì un punto di riferimento per i lavori successivi (alcune lettere sono venute alla luce in anni relativamente recenti). Particolarmente interessante la lettera del 1579 scritta a Sant'Anna e indirizzata a Scipione Gonzaga, in cui il poeta con toni drammatici e supplichevoli cerca di convincere il suo interlocutore a intercedere a suo favore per una liberazione, sottolineando le terribili condizioni di abbrutimento in cui si trova costretto nella sua prigionia (► TESTO: Lettera a Scipione Gonzaga).
Gli scritti teorici
Tasso sentì sempre il bisogno di accompagnare la sua produzione poetica con una approfondita riflessione teorica, allineandosi al clima culturale del tardo XVI sec. che vedeva accese discussioni tra i seguaci dell'aristotelismo circa le "regole" dei generi letterari, e già nel 1562 scrisse una Prefazione al poema cavalleresco Rinaldo in cui tentava di conciliare i precetti aristotelici con la materia dell'opera, ancora vicina al modello ariostesco. Tra 1567-1570 compose poi i Discorsi dell'arte poetica, divisi in tre libri, in cui affermava come i precetti della Poetica di Aristotele andassero estesi e applicati a tutti i generi letterari, inclusa l'epica che invece, secondo alcuni critici, era da considerarsi un caso a sé: erano gli anni in cui maturava il progetto della Liberata e Tasso teorizzava il poema come genere "eroico" a imitazione di Iliade ed Eneide, con un soggetto tratto dalla storia sacra e un mescolamento di vero storico e "meraviglioso" (le favole dell'invenzione poetica) che non inficiasse il risultato finale, che poi era la linea seguita proprio nella composizione del primo poema. I Discorsi vennero pubblicati nel 1587 quando il poeta era rinchiuso a Sant'Anna, senza che lui desse il suo consenso all'edizione, e dopo che la Liberata era già stata stampata in modo ugualmente incontrollato scatenando aspre polemiche e critiche da parte di vari letterati: tra questi soprattutto Leonardo Salviati, il fondatore dell'Accademia della Crusca che preferiva al poema di Tasso il Furioso di Ariosto, soprattutto per ragioni di lingua e di stile (► OPERA: Gerusalemme liberata). Anche per ribattere a queste accuse, Tasso aveva scritto a Sant'Anna una Apologia in difesa della Gerusalemme liberata (1585) in cui confutava le tesi di Salviati punto per punto e difendeva con passione il suo lavoro, col paradosso che l'opera era stata pubblicata senza il suo consenso, mentre lui già progettava un suo rifacimento che anni dopo si sarebbe concretizzato nella Gerusalemme conquistata. A pochi anni dalla morte, infine, dopo la pubblicazione della Conquistata nel 1593, Tasso pubblicò un ampliamento dei Discorsi dell'arte poetica col titolo di Discorsi del poema eroico (in tutto sei, stampati nel 1594), in cui ribadiva le scelte che avevano guidato la composizione della Liberata e poi della Conquistata, ovvero soprattutto la necessità di mescolare vero e invenzione per suscitare l'interesse del pubblico, anche se la "riforma" del poema aveva dato un esito artisticamente non elevato e il pubblico continuava a preferire la prima versione del poema, mentre le polemiche sulla superiorità sua o di Ariosto sarebbero continuate ancora per tutto il secolo seguente.
La poesia sacra degli ultimi anni
Dopo la liberazione da Sant'Anna Tasso si dedicò prevalentemente al rifacimento della Conquistata, anche se presero vita alcuni progetti legati a una poesia di ispirazione religiosa che rivelano una certa inquietudine interiore da parte dell'autore, che trova un riflesso anche nei lunghi soggiorni a Roma che fece soprattutto negli ultimi anni della sua vita: nel 1590 iniziò la composizione del Mondo creato, un poemetto in endecasillabi sciolti sul racconto della Genesi che voleva essere un inno commosso alla grandezza divina e alla meraviglia dell'universo, conciliando fonti di ispirazione molto diverse (i padri della Chiesa, sant'Agostino, ma anche Aristotele e la sua analisi della natura). Altrettanto interessanti Le lagrime della Beata Vergine e di Gesù Cristo, due poemetti rispettivamente di 25 e 20 ottave stampati a Roma nel 1593 e vagamente ispirati a un genere (quello della celebrazione della passione di Cristo e della pietà di Maria) molto diffuso in Italia nel secondo Cinquecento e che aveva visto un esempio nelle Lagrime di San Pietro del poeta Luigi Tansillo. Tasso vi esprime soprattutto un lamento angoscioso per la terribile precarietà della condizione umana, la paura e l'ansia del peccato, un senso di debolezza di fronte alla maestà del divino, riflesso certamente della sua travagliata storia personale e, anche, del peggiorare delle condizioni di salute nei suoi ultimi anni. Da ricordare che nello stesso periodo compose anche molte liriche di argomento sacro, che andarono ad ampliare la raccolta delle sue Rime accanto a quelle giovanili amorose e a quelle encomiastiche, da cui emerge la stessa visione sconsolata della condizione dell'uomo e il desiderio di espiare le proprie colpe nell'imminenza del giudizio divino dopo la morte.
La tragedia Re Torrismondo
Tasso iniziò a lavorare alla composizione di una tragedia già nei primi anni settanta del XVI sec., dando al progetto il titolo provvisorio di Galealto re di Norvegia e volendo prendere una certa libertà di invenzione rispetto alle rigide regole aristoteliche, grazie all'ambientazione nordica non consueta nelle tragedie classiche. L'abbozzo rimase incompiuto e l'autore lo riprese in mano negli ultimi anni a Sant'Anna, rielaborando l'opera col titolo di Re Torrismondo e completandola nel 1586, stampandola poi l'anno seguente a Mantova con dedica a Vincenzo Gonzaga, il gentiluomo cui era stato affidato dopo la sua liberazione. La tragedia, pur originale come trama e ambientazione, è ispirata ai modelli classici di Sofocle ed Euripide e racconta la storia di due amici, Torrismondo e Germondo, entrambi innamorati della stessa donna, Alvida; Torrismondo tradisce il patto con l'amico e si unisce alla donna, scoprendo però in seguito di essere suo fratello e di aver compiuto con lei un incesto (il tema è tipicamente sofocleo, con ovvio rimando all'Edipo re). La tragedia si conclude col doppio suicidio di Torrismondo e Alvida, esprimendo un certo pessimismo circa la vanità della vita umana che si riflette anche nel celebre Coro dell'ultimo atto, in cui vi è un pianto disperato sul fatto che nulla si può sperare dall'amore o dall'amicizia (► TESTO: Il finale del Re Torrismondo). La tragedia è interessante in quanto fa emergere lo stato d'animo cupo, prostrato del Tasso degli ultimi anni, ma anche per un certo gusto verso l'orrido e il modello di Seneca che era diffuso nella tragedia italiana dell'ultimo scorcio del secolo, nel quale rientra anche la stessa ambientazione nel nord Europa, in luoghi cioè cupi e foschi in cui vi è una natura selvaggia e ostile all'uomo.
Fama e fortuna critica
Il Tasso ebbe grandissima notorietà quand'era in vita, sia prima della reclusione a Sant'Anna sia soprattutto durante la prigionia, grazie alla pubblicazione della Gerusalemme liberata che lo consacrò quale eccelso poeta epico ma suscitò anche polemiche letterarie, che lo esacerbarono in quanto non aveva la possibilità di replicare come avrebbe voluto. Tra coloro che recensirono negativamente il poema vi fu soprattutto il fiorentino Leonardo Salviati, il fondatore dell'Accademia della Crusca che preferiva il modello ariostesco per ragioni di lingua e stile e che nel 1584 pubblicò uno scritto (la Stacciata prima) che stroncava ferocemente il poema tassesco, con osservazioni testuali che a molti parvero pedantesche e animate da una certa malevolenza. Prese parte alla polemica anche Bastiano de' Rossi, anch'egli favorevole ad Ariosto, e com'è noto Tasso rispose con alcuni scritti da Sant'Anna in cui difendeva il suo lavoro, anche se già progettava il rifacimento del poema poi concretizzatosi nella Conquistata del 1593. Le discussioni sulla superiorità del modello ariostesco o tassesco proseguirono ancora nel XVII sec. e tra coloro che vi presero parte ci fu anche Galileo Galilei, che affrontò la questione in due scritti teorici (le Postille all'Orlando Furioso e le Considerazioni al Tasso) in cui accordò la sua preferenza al Furioso, allineandosi quindi alle posizioni più intransigenti degli aristotelici del Cinquecento. Nell'età barocca l'interesse per la poesia epica stava intanto scemando e ben presto la dissoluzione di questo genere letterario, dovuta alla pubblicazione di poemi mitologici come l'Adone di G.B. Marino e di poemi eroicomici come la Secchia rapita di A. Tassoni, fu parallela al tramonto delle discussioni teoriche e anche del calo di interesse per l'opera di Tasso, almeno per quanto riguardava le strette questioni relative alle "regole" del poema eroico. Grande fu invece per tutto il Seicento la fama del poeta quale dotto ed esperto di questioni cavalleresche, nelle quali era anzi considerato una specie di autorità specie per le due edizioni del dialogo Forno overo de la nobiltà, tanto che egli viene citato in queste vesti anche da A. Manzoni nei Promessi sposi, sia nella discussione tra il conte Attilio e il podestà nel cap. V (il podestà lo definisce un erudito "che sapeva a menadito tutte le regole della cavalleria"), sia nella descrizione della biblioteca di don Ferrante in cui i due dialoghi citati sono presenti come "manuali" di cavalleria (cap. XXVII).
La figura di Tasso tornò nuovamente a suscitare interesse soprattutto nel XIX sec., quando nel periodo romantico egli diverrà simbolo del poeta incompreso, posto ai margini della società, ingiustamente perseguitato dalla Chiesa e dai potenti: nacque un vero e proprio "mito" tassesco, basato sulla leggenda che lo voleva recluso a Sant'Anna a dispetto delle sue reali condizioni e per il suo amore impossibile per Eleonora d'Este, ma anche sulla descrizione che Michel de Montaigne fece di lui nel 1580 dopo averlo visitato in ospedale (lo scrittore francese parlò di un uomo folle e malinconico, influenzando non poco il giudizio dei letterati romantici dell'Ottocento). Tale "mito" ebbe un riflesso nel dramma Torquato Tasso di J. W. Goethe, scritto nel 1790 a Firenze e che racconta una versione romanzata della prigionia del grande poeta, che ama la principessa Eleonora e viene arrestato dal duca per impedire questo legame e per i maneggi a corte del segretario Antonio Montecatino, invidioso dello scrittore. Agli inizi del XIX sec. è poi Giacomo Leopardi ad ammirare molto la figura di Tasso, anzitutto visitando la sua tomba a Roma durante il viaggio del 1822 (Leopardi sentiva il poeta molto vicino a lui, in quanto incompreso dalla sua età e in disaccordo coi suoi tempi; cfr. la lettera al fratello Carlo del 20 febbraio 1823) e in seguito ispirandosi all'Aminta per la composizione di alcune famosissime liriche, poiché è noto che il nome Silvia dato a Teresa Fattorini nella poesia omonima deriva dalla protagonista del dramma pastorale, così come quello di Nerina dato alla donna evocata nelle Ricordanze (Nerina è una ninfa compagna di Silvia nell'opera di Tasso). Infine il poeta cinquecentesco è protagonista del Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, una delle Operette morali in cui immagina che Tasso dialoghi con uno spiritello sulla natura del vero, sul piacere e sulla noia, prendendo spunto dal dialogo tassesco Il messaggiero in cui lo stesso Tasso immagina un colloquio con un folletto prodotto dalla sua fantasia malata. Da ricordare ancora la poesia Sul "Tasso in prigione" di E. Delacroix, contenuta nei Fiori del male di Charles Baudelaire, dove il grande poeta francese commenta il celebre dipinto di Delacroix che ritrae Tasso recluso a Sant'Anna e ne trae una potente descrizione romantica, di un genio che soffoca chiuso tra quattro mura ed è perseguitato dalle sue visioni e dai suoi fantasmi.
Bisogna attendere la seconda metà del XIX sec. perché l'opera di Tasso sia oggetto di approfonditi studi critici, specie riguardo la ricostruzione filologica della sua voluminosa opera, e un primo intervento in questo senso è quello di Cesare Guasti, che nel 1852-55 curò l'edizione critica del corpus delle lettere dell'autore, nonché dei Dialoghi (1858) e di altre sue opere in prosa, aprendo la strada alla critica testuale sul poema che nel secolo seguente avrebbe portato a significativi risultati. Importante anche il contributo critico di Francesco De Sanctis, che nel cap. XVI della sua Storia della letteratura italiana (1870-71) esprime un giudizio alquanto severo sull'autore della Liberata, secondo lui espressione di un'età di crisi e decadenza, dominata dalle discussioni teoriche di cui proprio il poema è il risultato (secondo il critico Tasso "cerca l'epico e trova il lirico", distaccandosi in questo dall'apprezzamento che per altri motivi avevano dato i letterati romantici). Nel Novecento il grande poeta sorrentino e la sua opera sono stati oggetto di studi da parte dei principali critici italiani (e non solo), fra cui merita citare Attilio Momigliano (autore nel 1945 di un importante commento alla Liberata), Giovanni Getto (che compì studi anche sui versi sacri dell'ultima parte della vita di Tasso), Umberto Bosco, Luigi Firpo, Lanfranco Caretti. Da ricordare infine il volume Dialoghi col Tasso del grande saggista e critico Franco Fortini, scritto nel 1994 e pubblicato postumo nel 1998, in cui lo studioso approfondisce alcuni aspetti della produzione poetica dell'autore e lo definisce "un simbolo della dissidenza" paragonabile a Martin Luther King, e come in fondo lo era stato lui stesso al tempo delle leggi razziali durante il fascismo (Fortini, il cui vero nome era Lattes, era di origini ebraiche). Il critico aveva anche realizzato nel 1994, nell'imminenza dei quattrocento anni dalla nascita di Tasso, una lettura radiofonica di passi scelti della Gerusalemme liberata che riscosse un certo interesse da parte del pubblico.