Torquato Tasso
«O bella età de l'oro»
(Aminta, Atto I, coro)
Il coro, concepito come una breve lirica che commenta l'azione del dramma pastorale, chiude l'atto I dell'«Aminta» ed è una nostalgica celebrazione della mitica età dell'oro, in cui ninfe e pastori erano liberi di abbandonarsi al piacere sensuale dell'amore senza preoccuparsi della tirannia dell'onore e del decoro, dominante invece ai tempi dell'autore e in particolare nell'ambiente di corte, al quale Tasso contrappone il mondo pastorale idealizzato. L'idea centrale del testo è la massima "S'ei piace, ei lice" (se una cosa piace allora è lecita), totalmente inattuale nella realtà storica del tardo XVI sec. e perciò vagheggiata come qualcosa appartenente a una dimensione mitica irripetibile.
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
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O bella età de l'oro,
non già perché di latte sen' corse il fiume e stillò mele il bosco; non perché i frutti loro dier da l'aratro intatte le terre, e gli angui errar senz'ira o tosco; non perché nuvol fosco non spiegò allor suo velo, ma in primavera eterna, ch'ora s'accende e verna, rise di luce e di sereno il cielo; né portò peregrino o guerra o merce agli altrui lidi il pino; ma sol perché quel vano nome senza soggetto, quell'idolo d'errori, idol d'inganno, quel che dal volgo insano onor poscia fu detto, che di nostra natura 'l feo tiranno, non mischiava il suo affanno fra le liete dolcezze de l'amoroso gregge; né fu sua dura legge nota a quell'alme in libertate avvezze, ma legge aurea e felice che natura scolpì: «S'ei piace, ei lice». Allor tra fiori e linfe traen dolci carole gli Amoretti senz'archi e senza faci; sedean pastori e ninfe meschiando a le parole vezzi e susurri, ed ai susurri i baci strettamente tenaci; la verginella ignude scopria sue fresche rose, ch'or tien nel velo ascose, e le poma del seno acerbe e crude; e spesso in fonte o in lago scherzar si vide con l'amata il vago. Tu prima, Onor, velasti la fonte dei diletti, negando l'onde a l'amorosa sete; tu a' begli occhi insegnasti di starne in sé ristretti, e tener lor bellezze altrui secrete; tu raccogliesti in rete le chiome a l'aura sparte; tu i dolci atti lascivi festi ritrosi e schivi; ai detti il fren ponesti, ai passi l'arte; opra è tua sola, o Onore, che furto sia quel che fu don d'Amore. E son tuoi fatti egregi le pene e i pianti nostri. Ma tu, d'Amore e di Natura donno, tu domator de' Regi, che fai tra questi chiostri, che la grandezza tua capir non ponno? Vattene, e turba il sonno agl'illustri e potenti: noi qui, negletta e bassa turba, senza te lassa viver ne l'uso de l'antiche genti. Amiam, ché non ha tregua con gli anni umana vita, e si dilegua. Amiam, ché 'l Sol si muore e poi rinasce: a noi sua breve luce s'asconde, e 'l sonno eterna notte adduce. |
O bella età dell'oro, non perché nei fiumi scorreva il latte e il bosco produceva miele; non perché le terre davano i loro frutti senza essere toccate dall'aratro e i serpenti andavano senza ferocia o veleno; non perché allora il cielo era sempre terso e rideva sempre in una eterna primavera, mentre oggi alterna estate e inverno; non perché il legno di pino [delle navi] portò guerre o merci ai lidi stranieri;
ma solo perché quel vano nome senza significato, quell'idolo di errori e di inganni, quello che fu poi detto onore, dal popolo folle che lo rese tiranno della nostra natura, non mescolava il suo affanno fra le liete dolcezze della schiera degli amanti; e la sua dura legge non fu conosciuta da quelle anime abituate alla libertà, ma esse conobbero la legge aurea e felice che fu dettata dalla natura: "Se una cosa piace, allora è lecita". Allora gli Amorini intrecciavano dolci danze senza arco e torce, tra i fiori e i fiumi; i pastori e le ninfe sedevano mescolando alle parole vezzi e sussurri, e ai sussurri i baci che non si staccavano mai; la giovane vergine scopriva le sue fresche rose [le sue labbra] che ora tiene nascoste dal velo, e le rotondità acerbe e immature del seno; e spesso in una fonte o in un lago si vide l'amata che scherzava col suo amante. Tu, Onore, per primo copristi la fonte dei piaceri, negando l'acqua alla sete amorosa; tu insegnasti ai begli occhi di stare chiusi in sé e di celare le loro bellezze agli altri; tu raccogliesti i capelli sparsi al vento in una rete; tu rendesti ritrosi e schivi i dolci atti sensuali; mettesti il freno alle parole, la misura ai passi; è solo per opera tua, Onore, se oggi è un furto quello che fu un dono d'Amore. E le nostre pene e i nostri pianti sono le tue grandi imprese. Ma tu, signore dell'Amore e della Natura, tu dominatore dei re, cosa fai in questi luoghi isolati che non possono ospitare la tua grandezza? Vattene e turba il sonno agli uomini illustri e potenti: lascia che noi, folla disprezzabile e bassa, possiamo vivere qui senza di te, all'uso delle genti antiche. Amiamo, poiché la vita umana non si ferma con gli anni e si dilegua. Amiamo, poiché il sole muore e rinasce: la sua breve luce si nasconde a noi e il sonno ci porta una notte eterna. |
Interpretazione complessiva
- Metro: canzone di versi endecasillabi e settenari, formata da cinque stanze di 13 versi ciascuna più un congedo di tre versi (schema della rima: abC; abC; cdee; DfF; il congedo riprende lo schema XyY). La lingua è il fiorentino letterario secondo la proposta di Bembo, con la presenza di latinismi (v. 321, "mele"; v. 324, "angui", serpenti; v. 344, "lice"; v. 347, "faci", fiaccole). Anafora di "non" nella prima stanza, in cui l'autore spiega le false ragioni della bellezza dell'età dell'oro, mentre le vere ragioni sono esposte nella seconda stanza. Nelle stanze 4-5 il poeta si rivolge direttamente all'Onore con un'apostrofe.
- Il coro chiude l'atto I e viene concepito da Tasso come un momento lirico per commentare l'azione a imitazione della tragedia greca, in questo caso celebrando il mito classico dell'età dell'oro: essa è rimpianta non tanto per i motivi poetici tradizionali (il fatto che la natura offrisse il cibo spontaneamente, l'assenza di guerre o belve feroci), ma in quanto allora pastori e ninfe erano liberi di abbandonarsi all'amore senza preoccuparsi delle rigide leggi del decoro, che nel mondo di corte del XVI sec. ha messo il "freno" alle parole e imposto una "misura" ai passi, impedendo alle persone nobili di vivere liberamente la propria vita affettiva. Viene vagheggiato un mondo pastorale mitico in cui a dettare legge era solo l'Amore e non l'Onore, che infatti viene riservato "agl'illustri e potenti" e invitato a lasciare in pace i pastori, esclusi dalla dimensione sociale dell'ambiente di corte. Nel testo è presente una sottile e implicita polemica contro le restrizioni sociali della corte cinquecentesca, in cui anche per motivi di convenienza religiosa si era sottoposti a un rigido controllo che il poeta mal sopporta e dal quale è possibile solo un'evasione illusoria e momentanea, ad es. attraverso la favola pastorale dell'Aminta. L'idealizzazione della dimensione bucolica è presente anche nel poema e in particolare nell'episodio di Erminia tra i pastori, in cui è detto esplicitamente che la permanenza della giovane principessa in questo luogo appartato dalla guerra è temporanea e il suo travestimento in panni umili non copre la sua nobiltà di sangue regale, poiché chi è nato e vissuto all'interno della corte ne è in un certo senso prigioniero (► TESTO: Erminia tra i pastori).
- Il testo è fitto di rimandi alla poesia classica, specie nella descrizione dell'aetas aurea che riprende soprattutto Virgilio (Georgiche, I.125 ss.) e Ovidio (Metamorfosi, I.89 ss.) e poi nel riferimento agli "Amoretti" che danzavano senza usare l'arco o le fiaccole, gli attributi di Cupido e le armi da lui usate per far innamorare le persone (nell'età dell'oro non servivano, in quanto l'amore rispondeva alla legge di natura). I vv. 382-86, in cui l'autore invita a cedere all'amore data la brevità e la precarietà della vita umana, si rifanno soprattutto a Catullo (Liber, V.1 ss.), specie ai vv. soles occidere et redire possunt: nobis cum semel occidit breuis lux, nox est perpetua una dormienda ("i giorni possono tramontare e ritornare, ma quando la breve luce del giorno è per noi spenta, dobbiamo dormire una notte perpetua). Il tema del godimento delle gioie amorose è largamente presente nella tradizione poetica del XV-XVI sec. e verrà ripreso da Tasso anche nella Liberata, ma al fine di respingere le lusinghe amorose in quanto contrarie al dovere militare e religioso (specie nell'episodio di Rinaldo e Armida; ► TESTO: Il giardino di Armida).