Giacomino da Verona
I tormenti infernali
(De Babilonia civitate infernali, 89-140)
In questo brano tratto dal poemetto "De Babilonia civitate infernali" l'autore si sofferma a descrivere l'Inferno come un luogo orribile e puzzolente, popolato da draghi e serpenti e dove i dannati sono continuamente tormentati dai demoni, che spezzano loro le ossa con bastoni e hanno il classico aspetto dell'iconografia medievale, con la testa cornuta e fattezze animalesche. La rappresentazione prosegue con la descrizione di Belzebù nei panni di cuoco infernale, intento a cucinare per bene un dannato e a insaporirlo per offrirlo poi come pasto al re dell'Inferno, che per tutta risposta lo trova "poco cotto" e lo rispedisce indietro (la pagina è ingenuamente grottesca e la metafora culinaria anticipa certe descrizioni di Pulci nel "Morgante", specie nel racconto della battaglia di Roncisvalle).
► PERCORSO: La poesia religiosa
► SCHEDA: Il diavolo nell'immaginario medievale
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Mai no fo veçù unca per nexun tempo
logo né altra cosa cotanto puçolento, ké millo meia e plu da la longa se sento la puça e lo fetor ke d’entro quel poço enxo. Asai g’è làçó bisse, liguri, roschi e serpenti, vipere e basalischi e dragoni mordenti: a cui plui ke rasuri taia la lengue e li denti, e tuto ’l tempo manja e sempr’ è famolenti. Lì è li demonii cun li grandi bastoni, ke ge speça li ossi, le spalle e li galoni, li quali è cento tanto plu nigri de carboni, s’el no mento li diti de li sancti sermoni. Tant à orribel volto quella crudel compagna, k’el n’ave plu plaser per valle e per montagna esro scovai de spine da Roma enfin en Spagna enanço k’encontrarne un sol en la campagna: ch'i' çeta tutore, la sera e la doman, fora per la boca orribel fogo çamban, la testa igi à cornua e pelose le man, et urla como luvi e baia como can. Ma poi ke l’omo è lì e igi l’à en soa cura, en un’aqua lo meto k’è de sì gran fredura ke un dì ge par un anno, segundo la scriptura, enanço k’eli el meta en logo de calura. E quand ell’ è al caldo, al fredo el voravo esro, tanto ge pare ’l dur, fer, forto et agresto, dond el non è mai livro per nexun tempo adesso de planto e de grameça e de gran pena apresso. Staganto en quel tormento, sovra ge ven un cogo, ço è Balçabù, de li peçor del logo, ke lo meto a rostir, com’un bel porco, al fogo, en un gran spe’ de fer per farlo tosto cosro. E po’ prendo aqua e sal e caluçen e vin e fel e fort aseo e tosego e venin e sì ne faso un solso ke tant e bon e fin ca ognunca cristïan sì ’n guardo el Re divin. A lo re de l’inferno per gran don lo trameto, et el lo guarda dentro e molto cria al messo: "E’ no ge ne daria" ço diso "un figo seco, ké la carno è crua e ’l sango è bel e fresco. Mo tornagel endreo vïaçament e tosto, e dige a quel fel cogo k’el no me par ben coto, e k’el lo debia metro col cavo en çó stravolto entro quel fogo ch’ardo sempro mai çorno e noito. E stretament ancor dige da la mia parto k’el no me’l mando plui, mo sempro lì lo lasso, né no sia negligento né pegro en questo fato, k’el sì è ben degno d’aver quel mal et altro". De ço k’el g’e mandà no ge desplase ’l miga, mai en un fogo lo meto, ch’ardo de sì fer’ guisa ke quanta çent è al mondo ke soto lo cel viva, no ne poria amorçar pur sol una faliva. |
Non fu mai visto in nessun tempo un luogo o un'altra cosa altrettanto puzzolente, poiché da più di mille miglia di distanza si sente la puzza e il fetore che escono da quel pozzo.
Laggiù vi sono molte bisce, ramarri, rospi e serpenti, vipere e basilischi e dragoni che mordono, la cui lingua e i cui denti tagliano più dei rasoi e mangiano tutto il tempo e sono sempre affamati. Lì ci sono i diavoli con grandi bastoni, che [ai dannati] spezzano le ossa, le spalle e i fianchi, ed essi sono cento volte più neri del carbone, se non mentono i detti dei santi sermoni. Quella crudele compagnia ha un volto così orribile, che è più piacevole per valli e montagne essere frustati con spine da Roma fino alla Spagna, piuttosto di incontrarne uno solo nella campagna: perché essi gettano sempre, sera e mattina, fuori dalla bocca un orribile fuoco diabolico, e hanno la testa cornuta e le mani pelose, e urlano come lupi e abbaiano come cani. Ma non appena l'uomo è lì ed essi ce l'hanno in cura, lo mettono dentro un'acqua che è così fredda che un giorno gli sembra un anno, secondo la Sacra Scrittura, prima che lo mettano in un luogo caldo. E quando il dannato è al caldo, vorrebbe essere al freddo, tanto gli pare duro, fiero, difficile a sopportare, per cui egli non è mai libero in nessun tempo dal pianto e dalla sventura e da grandi pene. Mentre il dannato è in quel tormento, viene sopra di lui un cuoco, cioè Belzebù, uno dei peggiori del luogo, che lo mette ad arrostire sul fuoco come un bel porco, in un grande spiedo di ferro per farlo cuocere in fretta. E poi prende acqua e sale e fuliggine e vino e fiele e aceto forte, e tossico e veleno, e ne fa una salsa che è tanto buona e squisita che il Re divino ne preservi ogni cristiano. Lo trasmettono al re dell'Inferno come gran dono, e quello lo guarda dentro e grida forte al messo: "Non darei - dice- un fico secco per questo, perché la carne è cruda e il sangue è ancora fresco. Ma riportatelo indietro subito e presto, e dite a quel fellone di cuoco che non mi sembra ben cotto, e lo deve mettere col capo rivolto in giù dentro quel fuoco che arde sempre giorno e notte. E ditegli ancora precisamente da parte mia che non me lo mandi più, ma lo lasci sempre lì, e non sia negligente o pigro nel far questo, perché il dannato è ben degno di avere quel male e molto altro". Ciò che gli è comandato non gli dispiace affatto, anzi lo mette in un fuoco che arde in modo tale che tutta la gente che vive nel mondo sotto il cielo non ne potrebbe smorzare una sola favilla. |
Interpretazione complessiva
- Il testo originale è scritto in volgare veneto e contiene molti termini popolari, anche se non mancano latinismi come "unca" (umquam, "mai"), "scriptura", e tecnicismi come "basalischi" (sono serpenti velenosi). Il metro è la quartina di versi alessandrini (settenari doppi) monorima, anche se vi sono molte assonanze come nei vv. 1-4 (-ento, -empo, -enxo) e parecchi versi sono imperfetti.
- La descrizione dell'Inferno come luogo fetido e popolato da mostri e demoni è popolare e ingenua, tuttavia risponde all'esigenza medievale di comunicare a un pubblico di scarsa cultura il terrore dell'Aldilà come luogo di tormento, attraverso l'evidenza di immagini familiari (inclusa quella, grottesca ma elaborata, di Belzebù "cuoco infernale" che cucina a dovere un dannato e lo insaporisce con improbabili spezie, tra cui il comunissimo aseo, l'aceto). Tale rappresentazione popolare dell'Inferno rimarrà a lungo nella tradizione letteraria e ad essa si rifarà lo stesso Dante nella Commedia, ad esempio descrivendo la pena dei barattieri della quinta bolgia immersi nella pece bollente e paragonati a pezzi di carne che cuociono in un calderone, coi demoni impegnati a tenerli dentro come i "vassalli" dei cuochi (Inf., XXI, 55-57). Cfr. anche il Morgante del Pulci (XXVII, 53-56), in cui Lucifero è presentato come un mostro con tre bocche spalancate che ingoia i morti della battagia di Roncisvalle, a sua volta descritta come un "tegame" in cui ribolle del sangue (► TESTO: Il tegame di Roncisvalle).
- La presenza in gran quantità di serpenti e animali affini (come i draghi) nell'Inferno non è certo una sorpresa, dal momento che il serpente era animale diabolico per eccellenza e sotto tali sembianze si era mostrato ad Eva nel celebre episodio della Genesi (III). I serpenti compariranno ancora nell'Inferno dantesco, nella settima bolgia dei ladri (XXIV, XXV).