Letteratura italiana
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Angelo Poliziano


L'imitazione classica
(Epistolae)

Il passo riproduce pressoché interamente la lettera in cui Poliziano ribatte alla polemica dell'umanista romano e suo amico Paolo Cortese, il quale gli aveva rimproverato di non scegliere il solo Cicerone quale modello esclusivo per la prosa latina e di preferire invece una pluralità di fonti. Poliziano sostiene che rifarsi a un solo modello priva lo scrittore moderno della sua originalità e rivendica perciò il diritto di variare il più possibile i suoi riferimenti classici, per non rischiare di comportarsi come le scimmie e i pappagalli che imitano in modo pedestre e senza ovviamente creare qualcosa di nuovo.

► PERCORSO: L'Umanesimo
► AUTORE: Angelo Poliziano






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Tuttavia c’è una cosa, a proposito dello stile, in cui io dissento da te. A quel che mi sembra, tu non approvi se non chi riproduca Cicerone. A me sembra più rispettabile l’aspetto del toro o del leone che non quello della scimmia, anche se la scimmia rassomiglia di più all’uomo. Come ha detto Seneca, non sono simili tra loro quelli che si crede siano stati i massimi esponenti dell’eloquenza. Quintiliano deride coloro che credevano di essere i fratelli germani [1] di Cicerone per il fatto che finivano i loro periodi con le sue stesse parole. Orazio condanna coloro che sono imitatori e nient’altro che imitatori. [2] Quelli che compongono solamente imitando mi sembrano simili ai pappagalli che dicono cose che non intendono. Quanti scrivono in tal modo mancano di forza e di vita; mancano di energia, di affetto, di indole; sono sdraiati, dormono, russano. Non dicono niente di vero, niente di solido, niente di efficace. Tu non ti esprimi come Cicerone, dice qualcuno. Ebbene? Io non sono Cicerone; io esprimo me stesso. Vi sono poi certuni, caro Paolo, che vanno mendicando lo stile a pezzi, come il pane, e vivono alla giornata. Se non hanno innanzi un libro da cui rubacchiare, non sanno mettere assieme tre parole; ed anche quelle le contaminano con nessi rozzi e con vergognosa barbarie. La loro espressione è sempre tremante, vacillante, debole, mal curata, mal connessa; costoro io non posso soffrire; eppure hanno la sfacciataggine di giudicare dei dotti, di coloro il cui stile è quasi fecondato da una nascosta cultura, da un leggere continuo, da un lunghissimo studio.
Ma voglio ritornare a te, caro Paolo, che amo profondamente, a cui debbo molto, a cui attribuisco un grande ingegno: io vorrei che tu non ti lasciassi avvincere da codesta superstizione che ti impedisce di compiacerti di qualcosa che sia completamente tuo, che non ti permette di staccare mai gli occhi da Cicerone. Quando invece Cicerone ed altri buoni autori avrai letto abbondantemente, ed a lungo, e li avrai studiati, imparati, digeriti; quando avrai empito il tuo petto con la cognizione di molte cose, e ti deciderai finalmente a comporre qualcosa di tuo, vorrei che tu procedessi con le tue stesse forze, vorrei che tu fossi una buona volta te stesso, vorrei che tu abbandonassi codesta troppo ansiosa preoccupazione di riprodurre esclusivamente Cicerone, vorrei che tu rischiassi mettendo in giuoco tutte le tue capacità. Coloro i quali stanno attoniti a contemplare solo cedesti vostri ridicoli modelli non riescono mai, credimi, a renderli, e in qualche modo vengono spengendo l’impeto del loro ingegno e mettono ostacoli davanti a chi corre, e, per usare l’espressione plautina, quasi remore. [3] Come non può correre velocemente chi si preoccupa solo di porre il suo piede sulle orme altrui, così non potrà mai scrivere bene chi non ha il coraggio di uscire dalla via segnata. E ricordati infine che solo un ingegno infelice imita sempre, senza trarre mai nulla da sé. Addio.

[Traduzione di E. Garin, Milano-Napoli 1952]




[1]
Fratelli nati dagli
stessi genitori (qui è detto ironicamente).
[2] Poliziano cita i massimi esponenti della retorica latina, ovvero Cicerone e Quintiliano, oltre ad Orazio che nell'Ars poetica condanna l'imitazione pedissequa.
















[3] Si tratta di un'espressione, forse proverbiale, spesso usata da T. Maccio Plauto nelle sue commedie (III-II sec. a.C.).


Interpretazione complessiva

  • Poliziano ribatte alla polemica di Paolo Cortese ribadendo la necessità e l'opportunità di variare le fonti e i modelli cui ispirarsi, dal momento che il suo scopo non è quello di essere "ciceroniano", ma di esprimere se stesso: le argomentazioni dello scrittore riguardano solo in parte il criterio dell'imitazione e investono la sostanza stessa della creazione letteraria, che non potrà mai essere originale se si sforza unicamente di riprodurre meccanicamente un modello per quanto prestigioso. L'autore cita a sostegno della sua tesi gli autorevoli pareri di Seneca, di Quintiliano, di Orazio, mentre accusa gli imitatori scarsamente originali di comportarsi come scimmie e pappagalli, che riproducono ciò che vedono o sentono senza comprendere. Nell'ultima parte della lettera Poliziano sfuma la polemica e si rivolge con affetto all'amico Paolo, invitandolo di cuore a essere se stesso e ad affrontare l'avventura della composizione senza preoccuparsi di seguire le orme altrui, avendo il coraggio di "uscire dalla via segnata" (in tal modo la creazione letteraria acquista un valore di rischio, di "mettersi in gioco" che viceversa viene quasi annullato dal rifarsi a un solo modello, fosse anche il grande Cicerone).


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