Torquato Tasso
Silvia e Dafne
(Aminta, Atto I, scena I)
Dopo il prologo recitato dal dio Amore in persona, sotto le mentite spoglie di un pastore, l'azione si apre con la protagonista femminile Silvia impegnata in un dialogo con la matura compagna Dafne, che tenta invano di convincere la giovane a cedere all'amore del pastore Aminta. Silvia si dice non interessata all'amore e soddisfatta della sua vita consacrata al culto di Diana, mentre Dafne la ammonisce a non disprezzare le gioie amorose ora che è giovane e bella, poiché potrebbe pentirsi quando il suo fascino sarà sfiorito (è presente il motivo letterario dell'invito a godere della giovinezza, frequentissimo nella letteratura del XV-XVI sec. e nell'opera di Tasso).
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
ATTO I, SCENA I
DAFNE, SILVIA |
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DAFNE Vorrai dunque pur, Silvia, dai piaceri di Venere [1] lontana menarne tu questa tua giovinezza? Né 'l dolce nome di madre udirai, né intorno ti vedrai vezzosamente scherzar i figli pargoletti? Ah, cangia [2], cangia, prego, consiglio, pazzarella che sei. SILVIA Altri segua i diletti de l'amore, se pur v'è ne l'amor alcun diletto: me questa vita giova, e 'l mio trastullo è la cura de l'arco e de gli strali [3]; seguir le fere fugaci, e le forti atterrar combattendo; e, se non mancano saette a la faretra, o fere al bosco, non tem'io che a me manchino diporti. [4] DAFNE Insipidi diporti veramente, ed insipida vita: e, s'a te piace, è sol perché non hai provata l'altra. Così la gente prima, che già visse nel mondo ancora semplice ed infante, stimò dolce bevanda e dolce cibo l'acqua e le ghiande, ed or l'acqua e le ghiande sono cibo e bevanda d'animali, poi che s'è posto in uso il grano e l'uva. Forse, se tu gustassi anco una volta la millesima parte de le gioie che gusta un cor amato riamando, diresti, ripentita, sospirando: «Perduto è tutto il tempo, che in amar non si spende». O mia fuggita etate [5], quante vedove notti, quanti dì solitari ho consumati indarno, che si poteano impiegar in quest'uso, il qual più replicato è più soave! [6] Cangia, cangia consiglio, pazzarella che sei, ché 'l pentirsi da sezzo [7] nulla giova. SILVIA Quando io dirò, pentita, sospirando, queste parole che tu fingi ed orni come a te piace, torneranno i fiumi, a le lor fonti, e i lupi fuggiranno da gli agni, e 'l veltro le timide lepri, amerà l'orso il mare, e 'l delfin l'alpi. DAFNE Conosco la ritrosa fanciullezza: qual tu sei, tal io fui: così portava la vita e 'l volto, e così biondo il crine, e così vermigliuzza [8] avea la bocca, e così mista col candor la rosa ne le guancie pienotte e delicate. Era il mio sommo gusto [9] (or me n'avveggio, gusto di sciocca) sol tender le reti, ed invescar le panie, ed aguzzare il dardo ad una cote, e spiar l'orme e 'l covil de le fere: e, se talora vedea guatarmi da cupido amante, chinava gli occhi rustica e selvaggia, piena di sdegno e di vergogna, e m'era mal grata la mia grazia, e dispiacente quanto di me piaceva altrui: pur come fosse mia colpa e mia onta e mio scorno l'esser guardata, amata e desiata. Ma che non puote il tempo? e che non puote [10], servendo, meritando, supplicando, fare un fedele ed importuno amante? Fui vinta, io te 'l confesso, e furon l'armi del vincitore umiltà, sofferenza, pianti, sospiri, e dimandar mercede. [...] Così spero veder ch'anco il tuo Aminta pur un giorno domestichi la tua rozza salvatichezza, ed ammollisca questo tuo cor di ferro e di macigno. Forse ch'ei non è bello? o ch'ei non t'ama? o ch'altri lui non ama? o ch'ei si cambia per l'amor d'altri? over per l'odio tuo? forse ch'in gentilezza [11] egli ti cede? [...] SILVIA Faccia Aminta di sé e de' suoi amori quel ch'a lui piace: a me nulla ne cale [12]; e, pur che non sia mio, sia di chi vuole; ma esser non può mio, s'io lui non voglio; né, s'anco egli mio fosse, io sarei sua. DAFNE Onde nasce il tuo odio? SILVIA Dal suo amore. DAFNE Piacevol padre di figlio crudele. Ma quando mai dai mansueti agnelli nacquer le tigri? o dai bei cigni i corvi? O me inganni, o te stessa. SILVIA Odio il suo amore, ch'odia la mia onestate, ed amai lui, mentr'ei volse [13] di me quel ch'io voleva. |
[1] Dell'amore. [2] Cambia. [3] Il mio unico piacere sono l'arco e le frecce [la caccia]. [4] Piaceri, diletti. [5] O mia perduta giovinezza. [6] Che è tanto più dolce quanto più si ripete. [7] Tardivamente, in ultimo. [8] Rossa e vezzosa. [9] Era mio massimo piacere. [10] Non può (regge "fare" del v. 67). [11] In nobiltà. [12] A me non importa nulla. [13] Volle. |
Interpretazione complessiva
- Metro: versi settenari ed endecasillabi liberamente rimati, con prevalenza di endecasillabi. La lingua è il fiorentino letterario della proposta di Bembo, con presenza di alcuni latinismi (v. 45, "agni"; v. 58, "cùpido"; v. 65, "puote"). Il testo contiene alcune raffinatezze retoriche, come l'adynaton dei vv. 41-46 (Silvia elenca una serie di cose impossibili che accadranno prima che lei ami Aminta, evento altrettanto impossibile), o le replicazioni dei vv. 103-105 in cui è presente anche il poliptoto "sia", "esser", "fosse", "sarei" (Silvia usa lo stesso verbo coniugato in forme diverse). Interessante anche l'antitesi dei vv. 110-112, "odio/amore", "odia/onestate", e ancora il poliptoto "volse/voleva".
- Il dialogo tra la giovane ninfa Silvia e la più esperta e saggia Dafne è tutto giocato sul confronto tra le gioie dell'amore e la fedeltà al culto casto della dea Diana, che è uno dei topoi della letteratura amorosa classica, con la ninfa più anziana che tenta invano di spingere la fanciulla a non disprezzare il piacere dei sensi e ad accettare l'amore del pastore Aminta, che invece Silvia respinge volendosi mantenere pura e votata alla caccia. Nel suo discorso Dafne fa leva soprattutto sull'argomento della brevità della vita e della necessità di approfittare della giovinezza finché essa è presente, poiché il "pentirsi da sezzo", tardivamente, è fonte solo di rimpianti: il motivo è ricorrente sia nella letteratura greco-latina sia in quella del XV-XVI sec., da Lorenzo de' Medici a Poliziano sino ad Ariosto, specie attraverso l'immagine della "rosa" che va colta quando è nel pieno della fioritura (e come tale è presente anche nella Liberata di Tasso, ad es. nel discorso del pappagallo che, però, è da interpretare come lusinga demoniaca; ► TESTO: Il giardino di Armida). Qui l'abbandono gioioso ai sensi è ancora presentato come valore positivo e non da condannare, benché relegato in una dimensione pastorale mitica che è del tutto separata dalla realtà storica e sociale della corte.
- Da ricordare che la contrapposizione tra il culto di Diana-Artemide e quello di Venere-Afrodite era presente già nella letteratura del Trecento, specie nell'opera giovanile di Boccaccio in cui lo scrittore rivendicava i diritti dell'amore e celebrava elegantemente la raffinata corte napoletana, ad es. nella Caccia di Diana; anche nel Ninfale fiesolano i due protagonisti sono un pastore e una ninfa, con il giovane Ameto che, su consiglio di Venere, sorprende Mensola mentre fa il bagno in una fonte e la fa sua, situazione che verrà almeno in parte rispecchiata nell'Aminta (► TESTO: Africo e Mensola). Le ninfe torneranno come immagine di lusinga amorosa e "tentazione" diabolica nella Liberata, sia nell'episodio di Carlo e Ubaldo nel giardino di Armida, sia in quello della selva di Saron in cui esse fuoriescono dalla corteccia degli alberi e danzano intorno a Rinaldo per annunciare la venuta della falsa Armida, per distoglierlo dal proposito di abbattere le piante (lì la scena sarà descritta con metafore teatrali; ► TESTO: Rinaldo vince gli incanti della selva).