OPERA
Divina Commedia
La Divina Commedia (o più propriamente Commedia o Comedìa) è un poema didattico-allegorico scritto da Dante Alighieri (► AUTORE) tra il 1307 e il 1321, che racconta un viaggio compiuto dal poeta nei tre regni dell'Oltretomba (Inferno, Purgatorio, Paradiso) nell'arco di sette giorni nella primavera dell'anno 1300. All'inizio del viaggio il poeta-protagonista si smarrisce in una "selva oscura", dove incontra tre fiere allegoriche (una lonza, un leone, una lupa), finché è tratto in salvo dal poeta latino Virgilio che lo invita a seguirlo in un percorso di purificazione e ravvedimento morale che lo condurrà nei tre regni dell'Oltretomba cristiano. Virgilio sarà la guida di Dante durante la discesa all'Inferno e durante la salita nel Purgatorio, quindi nel Paradiso Terrestre subentrerà l'anima di Beatrice che accompagnerà Dante nell'ascesa del Paradiso. Giunto nell'Empireo (il cielo più elevato dove risiede la "candida rosa" dei beati) Beatrice lascerà il posto a S. Bernardo, che introdurrà Dante alla visione finale di Dio. La Commedia è divisa in tre Cantiche corrispondenti ai tre regni visitati da Dante (Inferno, Purgatorio, Paradiso), composte rispettivamente di 34, 33 e 33 Canti per un totale di 100. Ogni Canto è scritto in terzine di versi endecasillabi a rima concatenata, per un totale di 14.233 versi.
Il poema appartiene certamente al filone della poesia religiosa del XIII-XIV sec., ma è anche un'opera didattica, politica, dottrinale, oltre a costituire una forte denuncia dei mali e delle ingiustizie del mondo in cui Dante viveva (egli scrisse l'opera quando era in esilio da Firenze). Il titolo originale è Comedìa (Commedia, secondo la definizione degli studiosi moderni), mentre l'aggettivo Divina venne aggiunto dal Boccaccio nel suo Trattatello in laude di Dante e comparve in un'edizione del 1555 a cura di L. Dolce. È a tutt'oggi l'opera della letteratura italiana più famosa al mondo ed è stata tradotta nelle più svariate lingue di ogni cultura.
Il poema appartiene certamente al filone della poesia religiosa del XIII-XIV sec., ma è anche un'opera didattica, politica, dottrinale, oltre a costituire una forte denuncia dei mali e delle ingiustizie del mondo in cui Dante viveva (egli scrisse l'opera quando era in esilio da Firenze). Il titolo originale è Comedìa (Commedia, secondo la definizione degli studiosi moderni), mentre l'aggettivo Divina venne aggiunto dal Boccaccio nel suo Trattatello in laude di Dante e comparve in un'edizione del 1555 a cura di L. Dolce. È a tutt'oggi l'opera della letteratura italiana più famosa al mondo ed è stata tradotta nelle più svariate lingue di ogni cultura.
Se cerchi ulteriori approfondimenti, puoi dare un'occhiata al trailer del canale YouTube "Video Letteratura" |
|
Titolo, struttura, composizione
Il titolo del poema allude alla struttura del genere teatrale della commedia, in quanto l'opera inizia male (con Dante che si smarrisce nella "selva oscura" del peccato) e finisce bene (con l'arrivo all'Empireo e la contemplazione di Dio), inoltre c'è un riferimento alla teoria medievale degli stili (alto, medio e basso, corrispondenti a tragico, comico ed elegiaco), in quanto l'opera presenta una commistione di tutti e tre gli stili ma con una prevalenza di quello comico (la cosa è spiegata da Dante nell'Epistola XIII a Cangrande della Scala, dedicatoria del Paradiso e che funge da introduzione all'intero poema). Il titolo originale è dunque propriamente Comedìa, secondo quanto dichiara l'Incipit dell'opera (Incipit Comedia Dantis Alagherii, florentini natione non moribus), mentre l'aggettivo "divina" fu usato per la prima volta da Boccaccio nel suo Trattatello in laude di Dante e poi nell'edizione a stampa del 1555 di Ludovico Dolce, momento dal quale esso è entrato a far parte del titolo usato in tutte le edizioni moderne del poema. Non sappiamo con certezza quando Dante abbia composto la Commedia, ma sembra certo che l'inizio sia da collocare durante l'esilio (forse intorno al 1307) e che intorno al 1308-09 l'Inferno fosse già ultimato, mentre nel 1313-15 sarebbe stato completato il Purgatorio; il Paradiso fu composto negli ultimi anni di vita del poeta e portato a termine pochi mesi prima della morte, se bisogna dar credito all'aneddoto citato da Boccaccio nel Trattatello quando riferisce che l'ombra di Dante sarebbe apparsa in sogno al figlio Iacopo e gli avrebbe indicato la collocazione dei manoscritti con gli ultimi canti della terza Cantica, sino allora inediti. Certo il poema circolava ampiamente in tutta l'Italia del nord già da parecchi anni e a testimonianza della sua enorme diffusione vi è il numero altissimo di manoscritti che l'hanno tramandato (circa 700), il che ha reso praticamente impossibile qualunque tentativo di edizione critica dell'opera di cui, oltretutto, non si è conservato alcun autografo.
|
Il viaggio allegorico
Al centro del poema c'è il viaggio che Dante immagina di compiere in un momento storico determinato nei tre regni dell'Oltretomba, tuttavia esso ha anche un significato allegorico e rappresenta il percorso di redenzione che qualunque uomo può e deve affrontare per liberarsi dal peccato e raggiungere la felicità eterna in questa vita: l'allegoria ha un peso determinante nella struttura dell'opera e ne costituisce in un certo senso l'ossatura essenziale, per cui è impossibile coglierne il senso profondo prescindendo da essa. Dante è dunque il poeta fiorentino chiamato da Dio all'incredibile privilegio di visitare la dimensione ultraterrena da vivo per testimoniare al mondo le cose viste (la condizione delle anime dopo la morte, in base a quanto spiegato nell'Epistola XIII), ma è anche ogni uomo chiamato a compiere il percorso di purificazione in questa vita, per cui le tappe del viaggio corrispondono a momenti diversi di tale percorso che, in quanto tale, ha molti punti di contatto con l'itinerarium mentis ad Deum descritto da molti testi della letteratura medievale, specie quella omonima di S. Bonaventura da Bagnoregio. Nel poema, infatti, Dante si smarrisce all'inizio in una "selva oscura" che rappresenta il peccato, dal quale potrà redimersi intraprendendo un viaggio che avrà come guida prima il poeta latino Virgilio, allegoria della ragione umana dei filosofi antichi, poi Beatrice, allegoria invece della teologia e della grazia divina; Virgilio accompagnerà Dante sino alla cima del monte del Purgatorio, dove si trova l'Eden che è allegoria della felicità terrena e del pieno possesso delle virtù cardinali, quindi subentrerà Beatrice che guiderà Dante nel Paradiso celeste, figura della felicità eterna e delle virtù teologali, sino alla visione finale di Dio che consiste nella felicità ultima. In Inf., II viene spiegato che Virgilio è stato inviato in soccorso di Dante dalla stessa Beatrice, scesa dal Paradiso nel Limbo, il che allegoricamente indica che l'uomo può salvarsi in virtù della grazia e non con le sole proprie forze; del resto Virgilio non può scortare Dante più in alto dell'Eden e all'apparire di Beatrice il poeta latino scompare, a significare che la ragione umana è subordinata alla grazia e non è sufficiente a raggiungere a salvezza. Nel corso del viaggio anche altri personaggi incontrati da Dante possono assumere una valenza allegorica, come ad es. le tre fiere del Canto iniziale che sono le disposizioni peccaminose che respingono il poeta nel suo cammino (significato analogo hanno anche molte figure demoniache che si oppongono al suo passaggio all'Inferno), mentre Matelda, la donna che accoglie le anime nell'Eden, rappresenta probabilmente la condizione di innocenza dell'uomo prima del peccato originale. Naturalmente l'impianto allegorico dell'opera non esclude il significato letterale e "storico" dei luoghi e dei personaggi descritti, mentre è ovvio che molte delle anime incontrate da Dante non hanno alcun senso allegorico ma rispondono unicamente alla funzione di exempla dei peccati puniti o delle virtù premiate, secondo quanto spiegato nell'Epistola a Cangrande.
La cronologia del viaggio
Al di là del significato allegorico, Dante colloca l'immaginario viaggio nell'Oltretomba in un preciso momento storico e fornisce al lettore puntuali indicazioni temporali che permettono di ricostruirne la cronologia, collocando la vicenda nella primavera dell'anno 1300: il percorso nei tre regni ultraterreni dura in tutto circa una settimana, da collocarsi tra il 25 e il 31 marzo oppure, come è più probabile, tra l'8 e il 14 aprile, in coincidenza con la Pasqua cristiana. Dante chiarisce già in Inf., I che lo smarrimento nella "selva oscura" è avvenuto a metà del cammino della sua vita, quindi all'età di 35 anni (era credenza diffusa e poggiante su passi scritturali che la vita dell'uomo durasse 70 anni), e la scelta dell'anno 1300 per il viaggio allegorico è senz'altro simbolica, in quanto coincide col primo Giubileo della storia della Chiesa indetto da papa Bonifacio VIII per l'indulgenza dei peccati; sempre nello stesso Canto Dante spiega che la vicenda si svolge in primavera, non lontano dall'equinozio che era interpretato dai testi cristiani come momento legati a benefici influssi del sole. Fondamentale è poi l'indicazione del diavolo Malacoda di Inf., XXI, 112-114, quando spiega che il ponte roccioso che unisce la V alla VI Bolgia è crollato il giorno della morte di Cristo in seguito al terremoto che sconvolse la Terra: in realtà ad essere crollati sono tutti i ponti della Bolgia (il discorso del demone è ingannevole), ma ciò che conta è l'affermazione in base alla quale il giorno prima, cinque ore dopo quella presente, si sono compiuti esattamente 1266 anni dal momento del crollo; poiché secondo una tradizione che altrove Dante mostra di seguire la morte di Cristo sarebbe avvenuta nell'anno 34 dell'Era Volgare, se ne deduce che l'anno del viaggio è 1266+34 = 1300. Poiché inoltre la morte di Cristo risalirebbe, secondo il Vangelo di Luca, al mezzogiorno di venerdì, quando Malacoda parla ci troviamo alle sette del mattino del giorno seguente, ovvero di sabato: l'unico dubbio riguarda la data esatta, poiché il viaggio potrebbe essere iniziato il venerdì santo del 1300, ovvero l'8 aprile, oppure il giorno dell'anniversario "storico" della morte di Cristo, cioè il 25 marzo. A sostegno della prima ipotesi sta il fatto che in alcuni passi del poema (Inf., XX, 127; Purg., XXIII, 118-120) si dice che la notte in cui Dante si smarrì nella selva c'era il plenilunio, e com'è noto la Pasqua cristiana cade sempre la domenica successiva al primo plenilunio di primavera; resta indubbio che la Pasqua è il momento centrale della liturgia cristiana, poiché celebra la risurrezione di Cristo e simboleggia quel riscatto e quella redenzione dal peccato che è la meta finale del viaggio intrapreso da Dante nel poema, che perciò si colloca non casualmente proprio in quel periodo dell'anno.
In base a tale ricostruzione si può affermare che Dante si smarrisce nella "selva oscura" nella notte tra giovedì e venerdì santo, venendo poi soccorso da Virgilio la mattina del venerdì; la sera del venerdì i due poeti giungono alla porta dell'Inferno e la discesa nella voragine dura circa ventiquattr'ore, sino alla tarda sera del sabato. Quando i due oltrepassano il centro della Terra dov'è confitto Lucifero si ritrovano nell'emisfero opposto e "guadagnano" circa dodici ore (qui è ancora la mattina del sabato), impiegandone poi circa ventuno nella risalita della "natural burella" fino a sbucare sulla spiaggia del Purgatorio la mattina della domenica di Pasqua. L'ascesa lungo la montagna del Purgatorio dura tre giorni e mezzo, concludendosi nel primo pomeriggio di mercoledì. Quasi nessuna indicazione ci è fornita circa il viaggio in Paradiso, ma pare verosimile che esso duri un giorno e mezzo o due giorni, per cui il viaggio si conclude a mezzanotte di giovedì. È da osservare che il poeta dorme durante il viaggio solo nelle tre notti trascorse nel Purgatorio, in virtù della «legge della salita» (spiegata da Sordello in Purg., VII) che non consente ai penitenti, dunque neppure a Dante, di scalare il monte durante il buio. Superfluo notare che il viaggiatore non sente mai il bisogno di nutrirsi lungo il cammino, per l'evidente volontà divina che lo spinge a proseguire il suo "fatale andare" senza curarsi delle sue necessità fisiche.
In base a tale ricostruzione si può affermare che Dante si smarrisce nella "selva oscura" nella notte tra giovedì e venerdì santo, venendo poi soccorso da Virgilio la mattina del venerdì; la sera del venerdì i due poeti giungono alla porta dell'Inferno e la discesa nella voragine dura circa ventiquattr'ore, sino alla tarda sera del sabato. Quando i due oltrepassano il centro della Terra dov'è confitto Lucifero si ritrovano nell'emisfero opposto e "guadagnano" circa dodici ore (qui è ancora la mattina del sabato), impiegandone poi circa ventuno nella risalita della "natural burella" fino a sbucare sulla spiaggia del Purgatorio la mattina della domenica di Pasqua. L'ascesa lungo la montagna del Purgatorio dura tre giorni e mezzo, concludendosi nel primo pomeriggio di mercoledì. Quasi nessuna indicazione ci è fornita circa il viaggio in Paradiso, ma pare verosimile che esso duri un giorno e mezzo o due giorni, per cui il viaggio si conclude a mezzanotte di giovedì. È da osservare che il poeta dorme durante il viaggio solo nelle tre notti trascorse nel Purgatorio, in virtù della «legge della salita» (spiegata da Sordello in Purg., VII) che non consente ai penitenti, dunque neppure a Dante, di scalare il monte durante il buio. Superfluo notare che il viaggiatore non sente mai il bisogno di nutrirsi lungo il cammino, per l'evidente volontà divina che lo spinge a proseguire il suo "fatale andare" senza curarsi delle sue necessità fisiche.
La struttura dei tre regni dell'Oltretomba
Inferno
Dante si rifà alla cosmologia teorizzata da S. Tommaso d'Aquino nella Summa Theologiae e ripresa dal modello aristotelico-tolemaico, dunque immagina la Terra sferica e immobile al centro dell'universo, mentre i cieli sono sfere che ruotano concentricamente intorno ad essa, sino all'Empireo sede di Dio e dei beati. In questo modello l'Inferno è descritto come un'immensa voragine sotterranea che si spalanca nell'emisfero boreale al di sotto della città di Gerusalemme, restringendosi a forma di "imbuto" fino al centro della Terra dove è confitto Lucifero; non ci sono indicazioni circa la posizione della porta che Dante e Virgilio attraversano in Inf., III ma è ipotizzabile che essa sorga non lontano dalla città santa della Cristianità. Al di là della porta c'è un Vestibolo (detto anche "anti-inferno") che ospita gli ignavi, quindi il fiume Acheronte separa questi luoghi dall'Inferno vero e proprio, diviso in nove cerchi ognuno destinato a un peccato o a un gruppo di peccati particolari, a parte il primo cerchio (il Limbo) che ospita le anime dei bimbi morti senza battesimo e dei pagani virtuosi, esclusi dalla redenzione ma che non soffrono alcuna pena (tra essi vi è anche Virgilio). Il demone Caronte traghetta le anime dannate sull'Acheronte, mentre Minosse le giudica all'ingresso del secondo cerchio e decide in base alla giustizia divina in quale cerchio sono destinate. La topografia morale dell'Inferno è spiegata nel Canto XI e suddivide i cerchi in tre zone corrispondenti ai peccati di incontinenza (II-V), di violenza (VII), di frode (VIII-IX). Ecco una sintesi della struttura dei cerchi infernali:
Luoghi/cerchi
Vestibolo I cerchio (Limbo) II cerchio III cerchio IV cerchio V cerchio VI cerchio VII cerchio 1° girone 2° girone 3° girone VIII cerchio 1ª bolgia 2ª bolgia 3ª bolgia 4ª bolgia 5ª bolgia 6ª bolgia 7ª bolgia 8ª bolgia 9ª bolgia 10ª bolgia IX cerchio Caina Antenora Tolomea Giudecca |
Dannati
ignavi bambini morti senza battesimo, pagani virtuosi lussuriosi golosi avari e prodighi iracondi esesiarchi, epicurei violenti violenti contro il prossimo violenti contro se stessi violenti contro Dio fraudolenti contro chi non si fida mezzani, seduttori adulatori simoniaci indovini barattieri ipocriti ladri consiglieri fraudolenti seminatori di scisma falsari fraudolenti contro chi si fida traditori dei parenti traditori della patria traditori degli ospiti traditori dei benefattori |
Figure diaboliche
- - Minosse Cerbero Pluto Flegiàs demoni della città di Dite Minotauro, centauri Arpie - Gerione diavoli - - Malebranche - - - - - Lucifero |
Il quinto cerchio corrisponde alla palude dello Stige, fiume infernale, che circonda la città di Dite presidiata da demoni e all'interno della quale vi è il sesto cerchio; è discusso se esso faccia ancora parte dei peccati di incontinenza oppure sia separato dagli altri. Il settimo cerchio è diviso in tre gironi, corrispondenti al fiume Flegetonte in cui sono immersi gli assassini e i predoni, alla selva dei suicidi (in cui si trovano anche gli scialacquatori, violenti contro il proprio patrimonio) e al sabbione infuocato dove sono puniti i bestemmiatori, i sodomiti e gli usurai (violenti contro Dio nella persona divina, nella natura e nell'operosità umana). L'ottavo cerchio è diviso in dieci bolge (è detto infatti Malebolge), ciascuna destinata a una categoria di fraudolenti. Il nono cerchio corrisponde al lago ghiacciato di Cocito, quarto fiume infernale, ed è suddiviso in quattro zone concentriche destinate ad altrettante categorie di traditori; al centro è confitto Lucifero, che divora nelle sue tre bocche Giuda, Bruto e Cassio. Lucifero si trova esattamente al centro della Terra e dell'universo, mentre una "natural burella" (sorta di budello sotterraneo) collega quel punto con la spiaggia del Purgatorio, che sorge agli antipodi di Gerusalemme.
Tra il peccato punito e la pena inflitta c'è un rapporto simbolico detto di contrappasso, a volte molto evidente (i lussuriosi sono travolti dal vento infernale come in vita lo furono dalla passione; i violenti sono immersi nel sangue...) a volte più incerto (ad esempio il ghiaccio di Cocito); i peccati diventano via via più gravi man mano che si scende e ci si avvicina a Lucifero, criterio opposto a quello del Purgatorio. La collocazione dei peccatori nei vari cerchi è definitiva e nulla può cambiare il loro destino, cosa che vale anche per le anime del Limbo (detto così in quanto "lembo" estremo della voragine) che si struggono nel vano desiderio di salvezza; tra essi vi erano anche i patriarchi biblici, che furono portati in cielo da Cristo dopo la sua resurrezione (cfr. Inf., IV). Le figure demoniache appartengono sia alla tradizione biblico-cristiana sia a quella classica (Caronte, Minosse, Cerbero...), nel qual caso si può parlare di una "demonizzazione" di alcune divinità pagane legate alla dimensione dell'Oltretomba o interpretate dal pensiero cristiano come figura diaboli (ciò rientra nella rilettura in chiave religiosa del mondo classico).
Tra il peccato punito e la pena inflitta c'è un rapporto simbolico detto di contrappasso, a volte molto evidente (i lussuriosi sono travolti dal vento infernale come in vita lo furono dalla passione; i violenti sono immersi nel sangue...) a volte più incerto (ad esempio il ghiaccio di Cocito); i peccati diventano via via più gravi man mano che si scende e ci si avvicina a Lucifero, criterio opposto a quello del Purgatorio. La collocazione dei peccatori nei vari cerchi è definitiva e nulla può cambiare il loro destino, cosa che vale anche per le anime del Limbo (detto così in quanto "lembo" estremo della voragine) che si struggono nel vano desiderio di salvezza; tra essi vi erano anche i patriarchi biblici, che furono portati in cielo da Cristo dopo la sua resurrezione (cfr. Inf., IV). Le figure demoniache appartengono sia alla tradizione biblico-cristiana sia a quella classica (Caronte, Minosse, Cerbero...), nel qual caso si può parlare di una "demonizzazione" di alcune divinità pagane legate alla dimensione dell'Oltretomba o interpretate dal pensiero cristiano come figura diaboli (ciò rientra nella rilettura in chiave religiosa del mondo classico).
Una serie di brevi video con analisi e commento di alcuni canti dell'Inferno Dantesco, sul canale YouTube "Video Letteratura" |
|
Purgatorio
Luogo ultraterreno assente nella tradizione cristiana e creato ufficialmente dalla Chiesa solo nel 1274, il Purgatorio dantesco è una montagna altissima che sorge su un'isola posta al centro dell'emisfero australe della Terra, secondo Dante totalmente invaso dalle acque; è collegato al centro della Terra dalla "natural burella", lungo la quale Dante e Virgilio risalgono per uscire "a riveder le stelle". Custode del secondo regno è Catone l'Uticense, rappresentato come un patriarca biblico e scelto da Dante a dispetto del fatto di essere pagano e morto suicida; è lui presumibilmente ad accogliere le anime dei penitenti quando arrivano sulla spiaggia, condotte sulla nave dell'angelo nocchiero che le ha raccolte alla foce del Tevere. Le anime sostano nell'Antipurgatorio un tempo proporzionale a quanto indugiarono in vita a pentirsi, quindi accedono alla porta del Purgatorio vero e proprio (presidiata da un angelo armato di spada) e iniziano il percorso di purificazione; il Purgatorio è diviso in sette cornici in cui sono puniti i sette peccati capitali e ogni anima percorre l'intera ascesa, soffermandosi un tempo maggiore o minore nelle varie cornici a seconda dei peccati commessi (o anche saltandone alcune, se non si sono macchiati di quella colpa particolare). I peccati sono disposti dal più al meno grave man mano che si sale, con criterio opposto a quello infernale. Sulla cima del monte vi è l'Eden, dove le anime purificate sono accolte da Matelda (probabilmente simboleggia lo stato di innocenza primigenia dell'uomo) che poi le immerge nelle acque dei due fiumi del Paradiso Terrestre: il Lete cancella il ricordo dei peccati commessi, l'Eunoè rafforza la memoria del bene compiuto. Terminato questo rito, cui si sottopone anche Dante, le anime possono ascendere al Paradiso Celeste, dove ovviamente salgono direttamente le anime dei santi e dei fedeli particolarmente virtuosi, come nel caso di Beatrice. Ecco una sintesi della struttura del secondo regno:
Luoghi/Cornici
Antipurgatorio spiaggia 1° balzo 2° balzo valletta dei principi 1ª cornice 2ª cornice 3ª cornice 4ª cornice 5ª cornice 6ª cornice 7ª cornice Eden |
Penitenti
contumaci pigri a pentirsi morti violentemente principi negligenti superbi invidiosi iracondi accidiosi avari e prodighi golosi lussuriosi anime purificate |
Figure angeliche
angelo nocchiero angelo dell'umiltà angelo della carità angelo della mansuetudine angelo della sollecitudine angelo della giustizia angelo della temperanza angelo della castità Matelda |
Le anime dell'Antipurgatorio devono attendere un tempo variabile prima di accedere alla porta del Purgatorio, ad es. i contumaci (morti scomunicati) aspettano trenta volte il tempo trascorso dopo la scomunica, mentre gli altri si trattengono per quella che fu la durata della loro vita, ma le preghiere dei vivi possono abbreviare questo tempo così come quello da passare nelle varie cornici, fino ad annullarlo (Forese Donati, ad es., è passato direttamente alla sesta cornice grazie alle preghiere della moglie Nella). Le cornici sono collegate l'una all'altra da scale scavate entro la roccia, molto ripide e che si percorrono con una certa difficoltà, e all'ingresso di ogni cornice vengono mostrati a Dante esempi della virtù opposta a quella del peccato punito (il primo è sempre relativo a Maria Vergine), all'uscita invece esempi del peccato punito e gli esempi possono essere scolpiti su bassorilievi, recitati da voci aeree o dagli stessi penitenti, mostrati attraverso visioni estatiche. Esiste un rapporto di contrappasso tra peccato e pena inflitta, analogamente alle pene infernali, mentre una differenza rispetto al primo regno è che qui i penitenti si muovono da una cornice all'altra e completano il percorso di purificazione, sino ad arrivare all'Eden; quando un'anima compie il percorso l'intera montagna viene scossa da un terremoto e tutte le anime intonano a una voce il Gloria (la cosa avviene, ad es., nel caso di Stazio, alla fine del canto XIX). Le anime nelle varie cornici intonano dei Salmi e ciò fa parte della loro pena, mentre in base alla cosiddetta "legge della salita" enunciata da Sordello (canto VII) le anime non possono salire di notte, per cui anche Dante è costretto a fermarsi e a dormire. Prima di accedere all'Eden tutte le anime devono attraversare il fuoco purificatore della settima cornice e poi sono accolte da Matelda, che le immerge nei due fiumi del Lete e dell'Eunoè.
A differenza della discesa all'Inferno, qui Dante compie anch'egli un percorso di purificazione e infatti l'angelo della Porta incide con la spada sette "P" sulla sua fronte, come simbolo dei sette peccati capitali, che verranno via via cancellate dai vari angeli all'uscita di ogni cornice. Anche Dante deve attraversare il fuoco della settima cornice e viene immerso da Matelda nei due fiumi dell'Eden, per cui alla fine della Cantica egli è "puro e disposto a salire a le stelle".
A differenza della discesa all'Inferno, qui Dante compie anch'egli un percorso di purificazione e infatti l'angelo della Porta incide con la spada sette "P" sulla sua fronte, come simbolo dei sette peccati capitali, che verranno via via cancellate dai vari angeli all'uscita di ogni cornice. Anche Dante deve attraversare il fuoco della settima cornice e viene immerso da Matelda nei due fiumi dell'Eden, per cui alla fine della Cantica egli è "puro e disposto a salire a le stelle".
Paradiso
È formato dai nove cieli che ruotano come sfere concentriche attorno alla Terra immobile, secondo la cosmologia tomistica seguita da Dante nell'intero poema, ciascuno governato da una gerarchia angelica e riflettente sulla Terra un influsso astrale; il decimo cielo più esterno è l'Empireo, sede di Dio (anzi, coincidente con Lui e quindi infinito), degli angeli e dei beati. Questi risiedono normalmente proprio nell'Empireo dove formano la "candida rosa", una sorta di anfiteatro celeste in cui sono disposti secondo un complesso criterio (a sinistra di Maria i credenti in Cristo venturo, a destra i credenti in Cristo venuto), ma nella Cantica i beati si mostrano a Dante nei vari cieli di cui hanno subìto l'influsso in vita, ciò per ragioni di equilibrio compositivo e per maggiore chiarezza del lettore; le anime sono quindi suddivise in sette schiere che corrispondono ai primi sette cieli (dalla Luna a Saturno), ma non è detto che tutti i beati rientrino in questa suddivisione. Ogni schiera di beati gode di un grado di beatitudine diverso, per cui ad es. gli spiriti difettivi che appaiono nel primo cielo fruiscono del grado più basso, mentre gli spiriti contemplanti del cielo di Saturno di quello più alto, anche se ciò non suscita in loro alcun malcontento e, anzi, tutti i beati sono assolutamente appagati della beatitudine che ricevono. Ecco una sintesi della struttura del terzo regno:
Cieli
1° cielo della Luna 2° cielo di Mercurio 3° cielo di Venere 4° cielo del Sole 5° cielo di Marte 6° cielo di Giove 7° cielo di Saturno 8° cielo delle Stelle Fisse 9° cielo (Primo Mobile) 10° cielo (Empireo) |
Beati
spiriti difettivi spiriti operanti per la gloria spiriti amanti spiriti sapienti spiriti combattenti per la fede spiriti giusti spiriti contemplanti trionfo di Maria cori angelici sede di Dio, degli angeli e dei beati |
Gerarchie angeliche
angeli arcangeli principati potestà virtù dominazioni troni cherubini serafini tutti i cori angelici |
Dante si muove da un cielo all'altro ascendendo semplicemente ad essi, con un movimento innaturale verso l'alto che viene spiegato da Beatrice (Par., I) come la tensione della sua anima verso il proprio fine che è Dio; il poeta parla e dialoga con le varie anime, pone domande alla sua guida che gli risponde con argomenti teologici e tali spiegazioni costituiscono la parte essenziale della Cantica. Nel cielo delle Stelle Fisse c'è il trionfo di Maria e di Cristo, quindi Dante viene sottoposto a un esame su fede, speranza e carità da parte di S. Pietro, S. Giacomo e S. Giovanni, che egli supera brillantemente; nel Primo Mobile gli vengono mostrati i cori angelici e nell'Empireo il posto di Beatrice come guida viene rilevato da S. Bernardo di Chiaravalle, che illustra a Dante la disposizione dei beati nella "candida rosa" (Beatrice riprende il proprio seggio all'interno di essa). Proprio Bernardo intercede presso Maria affinché consenta a Dante di figgere il suo sguardo nella mente di Dio e con tale eccelsa visione si chiude la Cantica e il poema.
La rappresentazione poetica del Paradiso è altamente innovativa e, da un lato, Dante dichiara di ricordare assai poco delle cose viste, dall'altro si scusa dell'imperizia con cui tenterà di esprimere una traccia delle cose viste (è la poetica dell'indicibile di derivazione Cavalcantiana, qui riferita ad argomenti ben più elevati); il terzo regno viene quindi raffigurato in termini astratti e simbolici, per cui ad es. i beati sono mostrati come pure luci senza alcun aspetto umano (solo gli spiriti del primo cielo appaiono come figure evanescenti, simili a dei riflessi) e dal quarto cielo in poi essi formano figure geometriche di carattere simbolico, vale a dire due corone concentriche (spiriti sapienti), una croce (spiriti combattenti), una scritta e il simbolo dell'aquila (spiriti giusti), una scala che si erge verso l'alto (spiriti contemplanti). La stessa visione di Dio è descritta in termini fortemente stilizzati, ad es. con tre cerchi che nascono l'uno dall'altro a simboleggiare il mistero della Trinità e l'effigie umana dipinta con lo stesso colore nel secondo di essi, a indicare il mistero dell'incarnazione divina. Tale astrattezza della rappresentazione, unitamente alla complessità delle spiegazioni teologiche, hanno reso ardua la lettura della Cantica nel periodo moderno, quando al Paradiso è stato preferito largamente l'Inferno (solo in tempi relativamente recenti la critica ha rivalutato la Cantica più impegnata, sottolineando il carattere innovativo di essa e l'inevitabile distanza con la sensibilità e il gusto moderno).
La rappresentazione poetica del Paradiso è altamente innovativa e, da un lato, Dante dichiara di ricordare assai poco delle cose viste, dall'altro si scusa dell'imperizia con cui tenterà di esprimere una traccia delle cose viste (è la poetica dell'indicibile di derivazione Cavalcantiana, qui riferita ad argomenti ben più elevati); il terzo regno viene quindi raffigurato in termini astratti e simbolici, per cui ad es. i beati sono mostrati come pure luci senza alcun aspetto umano (solo gli spiriti del primo cielo appaiono come figure evanescenti, simili a dei riflessi) e dal quarto cielo in poi essi formano figure geometriche di carattere simbolico, vale a dire due corone concentriche (spiriti sapienti), una croce (spiriti combattenti), una scritta e il simbolo dell'aquila (spiriti giusti), una scala che si erge verso l'alto (spiriti contemplanti). La stessa visione di Dio è descritta in termini fortemente stilizzati, ad es. con tre cerchi che nascono l'uno dall'altro a simboleggiare il mistero della Trinità e l'effigie umana dipinta con lo stesso colore nel secondo di essi, a indicare il mistero dell'incarnazione divina. Tale astrattezza della rappresentazione, unitamente alla complessità delle spiegazioni teologiche, hanno reso ardua la lettura della Cantica nel periodo moderno, quando al Paradiso è stato preferito largamente l'Inferno (solo in tempi relativamente recenti la critica ha rivalutato la Cantica più impegnata, sottolineando il carattere innovativo di essa e l'inevitabile distanza con la sensibilità e il gusto moderno).
I personaggi del poema come exempla
La Commedia mostra soprattutto ai lettori la condizione delle anime dopo la morte (lo status animarum post mortem, come chiarito dall'Epistola XIII a Cangrande) e la scelta dei personaggi inclusi nelle schiere di dannati, penitenti e beati risponde anzitutto al criterio della notorietà, secondo la spiegazione offerta da Cacciaguida in Par., XVII: in questo senso Dante non fa distinzioni tra figure del mito o bibliche, personaggi letterari, della storia antica o moderna, poiché la scelta ricade su quei soggetti che sembrano più rappresentativi del peccato punito o della virtù premiata e la loro funzione è essenzialmente quella di exempla morali per il lettore che dovrà prenderli a modello per comportarsi rettamente nella vita terrena. Ciò spiega anche apparenti incongruenze circa il luogo di pena in cui sono collocati alcuni dannati o penitenti, poiché il criterio seguito non è la maggiore gravità del peccato compiuto ma l'esemplarità della loro figura, per cui la regina Didone non è inclusa tra i suicidi ma tra i lussuriosi del secondo cerchio dell'Inferno, così come Forese Donati appare tra i golosi della sesta cornice del Purgatorio anche se, forse, il suo peccato più grave era il furto (allo stesso modo tra i lussuriosi della settima cornice rientrano i poeti Guinizelli e Arnaut Daniel, in quanto "produttori" di quella letteratura amorosa che poteva spingere a compiere peccati carnali e non perché peccatori di lussuria essi stessi).
A volte la scelta dei personaggi è quasi ovvia e conferma quanto di essi conosceva il pubblico, nel bene e nel male, ma non mancano casi di dannazioni o salvezze clamorose che smentiscono le attese dei lettori, creando uno "scandalo" che vuol sottolineare soprattutto l'imperscrutabilità del giudizio divino: è il caso, ad es., dei papi simoniaci che Dante include nella terza bolgia dell'ottavo cerchio dell'Inferno, tra cui Niccolò III che predice la futura dannazione di Bonifacio VIII e Clemente V, ma anche di Guido da Montefeltro che si trova nell'ottava bolgia dei consiglieri fraudolenti a dispetto del suo essere francescano; addirittura si trova fra i traditori di Cocito Branca Doria, che nel 1300 era ancora vivo e di cui Dante afferma che un demone si è impossessato del suo corpo (il fatto, spiegato da Frate Alberigo, riguarda tutte le anime della Tolomea). Casi analoghi e opposti sono le salvezze imprevedibili di Catone l'Uticense, addirittura scelto come custode del Purgatorio, e di Manfredi di Svevia, tra le anime salve nonostante la scomunica e la pubblicistica guelfa contro di lui; allo stesso modo Dante colloca tra gli spiriti giusti del sesto cielo del Paradiso i pagani Rifeo e Traiano, fornendo poi la spiegazione teologica che giustifica la salvezza dell'imperatore romano (in ogni caso il giudizio divino è insondabile e ciò vale anche per la salvezza negata, ad es., ai pagani virtuosi e i bimbi non battezzati del Limbo).
In tutti gli altri casi la scelta ricade su personaggi noti a tutti come esempi di vizio punito o virtù premiata, sia nel caso di personaggi letterari o mitici (come Ulisse, condannato tra i consiglieri fraudolenti per l'inganno del cavallo di Troia e protagonista del "folle viaggio" oltre le colonne d'Ercole, episodio estraneo alla tradizione omerica), sia in quello di protagonisti della storia antica (come Carlo Magno, esaltato in quanto militante per la fede e creatore di un Impero cristiano) o della storia moderna (come Farinata degli Uberti, esponente del partito ghibellino e condannato tra gli epicurei del sesto cerchio dell'Inferno). Non mancano infine casi di assenze altrettanto sorprendenti, come quella dell'imperatore romano Augusto, che non rientra tra gli "spiriti magni" del Limbo, o di Guittone d'Arezzo, o ancora di importanti religiosi come S. Paolo e S. Domenico, più volte citati da Dante ma ignorati al momento della presentazione della "candida rosa" dei beati.
A volte la scelta dei personaggi è quasi ovvia e conferma quanto di essi conosceva il pubblico, nel bene e nel male, ma non mancano casi di dannazioni o salvezze clamorose che smentiscono le attese dei lettori, creando uno "scandalo" che vuol sottolineare soprattutto l'imperscrutabilità del giudizio divino: è il caso, ad es., dei papi simoniaci che Dante include nella terza bolgia dell'ottavo cerchio dell'Inferno, tra cui Niccolò III che predice la futura dannazione di Bonifacio VIII e Clemente V, ma anche di Guido da Montefeltro che si trova nell'ottava bolgia dei consiglieri fraudolenti a dispetto del suo essere francescano; addirittura si trova fra i traditori di Cocito Branca Doria, che nel 1300 era ancora vivo e di cui Dante afferma che un demone si è impossessato del suo corpo (il fatto, spiegato da Frate Alberigo, riguarda tutte le anime della Tolomea). Casi analoghi e opposti sono le salvezze imprevedibili di Catone l'Uticense, addirittura scelto come custode del Purgatorio, e di Manfredi di Svevia, tra le anime salve nonostante la scomunica e la pubblicistica guelfa contro di lui; allo stesso modo Dante colloca tra gli spiriti giusti del sesto cielo del Paradiso i pagani Rifeo e Traiano, fornendo poi la spiegazione teologica che giustifica la salvezza dell'imperatore romano (in ogni caso il giudizio divino è insondabile e ciò vale anche per la salvezza negata, ad es., ai pagani virtuosi e i bimbi non battezzati del Limbo).
In tutti gli altri casi la scelta ricade su personaggi noti a tutti come esempi di vizio punito o virtù premiata, sia nel caso di personaggi letterari o mitici (come Ulisse, condannato tra i consiglieri fraudolenti per l'inganno del cavallo di Troia e protagonista del "folle viaggio" oltre le colonne d'Ercole, episodio estraneo alla tradizione omerica), sia in quello di protagonisti della storia antica (come Carlo Magno, esaltato in quanto militante per la fede e creatore di un Impero cristiano) o della storia moderna (come Farinata degli Uberti, esponente del partito ghibellino e condannato tra gli epicurei del sesto cerchio dell'Inferno). Non mancano infine casi di assenze altrettanto sorprendenti, come quella dell'imperatore romano Augusto, che non rientra tra gli "spiriti magni" del Limbo, o di Guittone d'Arezzo, o ancora di importanti religiosi come S. Paolo e S. Domenico, più volte citati da Dante ma ignorati al momento della presentazione della "candida rosa" dei beati.
La Commedia come denuncia dei mali del mondo
Il poema nasce anzitutto dal forte sdegno dell'autore per i mali e le ingiustizie che caratterizzano il mondo in cui vive, dovuti essenzialmente all'avidità di guadagno che porta i potenti a calpestare le leggi e ad opprimere gli uomini onesti, e tale mancanza di giustizia viene denunciata a più riprese e a voce alta nella Commedia, con una forza che nasce dalla passione civile di Dante e dall'ingiusto esilio patito a causa delle persecuzioni politiche dei Guelfi Neri, di cui il poeta si sente esempio in prima persona. Tutto viene ricondotto da Dante alla cupidigia umana, non a caso condannata più volte come radice prima dei mali politici dell'Italia del Trecento (la lupa, allegoria di questo vizio, è infatti la più pericolosa delle tre fiere che respingono Dante verso la "selva oscura"), inoltre la mancata applicazione delle leggi che pure esistono ha ottenuto l'effetto di rovesciare la realtà e di far sì che i disonesti la facciano da padrone, mentre chi si è comportato in modo retto paga colpe non sue. Dante individua anche dei precisi responsabili di tale situazione e accusa soprattutto la mancanza di un governo centrale in Italia, che nella sua visione dovrebbe essere garantito dall'imperatore reo ai suoi occhi di non risiedere a Roma ma in Germania (Alberto d'Asburgo viene apertamente accusato in Purg., VI di abbandonare l'Italia "per cupidigia", per curare i suoi possedimenti tedeschi), per cui tale vuoto di potere ha creato uno stato di anarchia che ha favorito la frammentazione politica e le rivalità tra Guelfi e Ghibellini, entrambi condannati in Par., VI come corresponsabili del disordine e della confusione. Ugualmente condannata è la commistione di potere spirituale e temporale, per cui i papi ingeriscono nelle vicende politiche e creano a loro volta anarchia, spinti per lo più da sete di potere e cupidigia di ricchezze materiali (la polemica contro la corruzione ecclesiastica è parte essenziale del poema, specie del Paradiso) e in questo senso è viva la condanna del re francese Filippo IV il Bello, cui l'autore rimprovera l'appoggio dato ai Guelfi nella loro lotta contro i Ghibellini nonché l'aver portato ad Avignone la sede papale, ragion per cui il monarca viene duramente attaccato in più di un passo del poema (cfr. specialmente Purg. XXXII, in cui Filippo è mostrato con le fattezze di un malvagio gigante nella processione simbolica).
Dante non si limita ovviamente a una denuncia generica, ma punta il dito con forza contro personaggi di spicco che lui ritiene essere responsabili di questa situazione e si assume un rischio che acquista tanto maggior valore se si pensa alla sua triste e precaria condizione di esule (non a caso in Par., XVII egli espone i suoi dubbi a riguardo all'avo Cacciaguida, il quale lo esorta a rendere noto tutto ciò che ha visto nei tre regni senza omettere nulla, giacché solo i personaggi noti hanno valore esemplare e possono offrire modelli di comportamento morale ai lettori). Ciò è soprattutto evidente nella polemica contro la corruzione ecclesiastica, dal momento che Dante non ha timore ad includere ben tre papi tra i simoniaci dell'Inferno (Niccolò III che predice la dannazione di Bonifacio VIII e Clemente V), mentre in Par., XVIII si lancia in una durissima invettiva contro papa Giovanni XXII, accusato di revocare i benefici ecclesiastici per arricchirsi, e in Par., XXVII è S. Pietro a pronunciare una terribile requisitoria contro Bonifacio VIII, che profana addirittura la santità del suo sepolcro in Vaticano ("fatt’ha del cimitero mio cloaca / del sangue e della puzza", con riferimento alla corruzione che infanga e contamina i luoghi sacri). In quest'ottica viene valutato positivamente il tentativo dell'imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, pure andato fallito, di ristabilire l'autorità imperiale sui Comuni del nord Italia e ostacolato, tra gli altri, da papa Clemente V che lo ingannò con false promesse e in Par., XXX Beatrice mostra a Dante il seggio della "candida rosa" dei beati già riservato ad Arrigo, che morirà solo nel 1313, mentre il papa che lo ingannerà è già destinato alla dannazione tra i simoniaci della terza bolgia, dove andrà a tener compagnia a Bonifacio VIII e Niccolò III. La denuncia di Dante è certo l'aspetto maggiormente attuale di un'opera che, per altri versi, è lontana dalla nostra sensibilità moderna e rende ragione probabilmente del successo che essa ha avuto per tanto tempo nella nostra tradizione letteraria, contribuendo a creare il "mito" di Dante come fustigatore dei potenti e alto esempio morale, avvalorato anche dall'esilio che affrontò con fierezza e che fu parte essenziale nella sua volontà di colpire i mali del mondo, anche se la sua visione politica era per molti aspetti anacronistica e superata dai tempi.
Dante non si limita ovviamente a una denuncia generica, ma punta il dito con forza contro personaggi di spicco che lui ritiene essere responsabili di questa situazione e si assume un rischio che acquista tanto maggior valore se si pensa alla sua triste e precaria condizione di esule (non a caso in Par., XVII egli espone i suoi dubbi a riguardo all'avo Cacciaguida, il quale lo esorta a rendere noto tutto ciò che ha visto nei tre regni senza omettere nulla, giacché solo i personaggi noti hanno valore esemplare e possono offrire modelli di comportamento morale ai lettori). Ciò è soprattutto evidente nella polemica contro la corruzione ecclesiastica, dal momento che Dante non ha timore ad includere ben tre papi tra i simoniaci dell'Inferno (Niccolò III che predice la dannazione di Bonifacio VIII e Clemente V), mentre in Par., XVIII si lancia in una durissima invettiva contro papa Giovanni XXII, accusato di revocare i benefici ecclesiastici per arricchirsi, e in Par., XXVII è S. Pietro a pronunciare una terribile requisitoria contro Bonifacio VIII, che profana addirittura la santità del suo sepolcro in Vaticano ("fatt’ha del cimitero mio cloaca / del sangue e della puzza", con riferimento alla corruzione che infanga e contamina i luoghi sacri). In quest'ottica viene valutato positivamente il tentativo dell'imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, pure andato fallito, di ristabilire l'autorità imperiale sui Comuni del nord Italia e ostacolato, tra gli altri, da papa Clemente V che lo ingannò con false promesse e in Par., XXX Beatrice mostra a Dante il seggio della "candida rosa" dei beati già riservato ad Arrigo, che morirà solo nel 1313, mentre il papa che lo ingannerà è già destinato alla dannazione tra i simoniaci della terza bolgia, dove andrà a tener compagnia a Bonifacio VIII e Niccolò III. La denuncia di Dante è certo l'aspetto maggiormente attuale di un'opera che, per altri versi, è lontana dalla nostra sensibilità moderna e rende ragione probabilmente del successo che essa ha avuto per tanto tempo nella nostra tradizione letteraria, contribuendo a creare il "mito" di Dante come fustigatore dei potenti e alto esempio morale, avvalorato anche dall'esilio che affrontò con fierezza e che fu parte essenziale nella sua volontà di colpire i mali del mondo, anche se la sua visione politica era per molti aspetti anacronistica e superata dai tempi.
Il poema come visione e profezia
Dante compone il poema in forma di "visione" e in ciò si allinea a una lunga tradizione precedente, che risale alle numerose visiones della letteratura mediolatina e ha un precedente recente nei poemi di Giacomino da Verona sull'Inferno e il Paradiso, anche se la Commedia non si presenta come descrizione di un'esperienza di tipo estatico ma come cronaca di un viaggio, compiuto dall'autore in carne ed ossa in un momento storicamente determinato (sul punto Dante è molto chiaro e in vari momenti dell'opera ribadisce l'assoluta veridicità dell'esperienza vissuta). La "visione" è dunque la sostanza delle cose viste dal viaggiatore Dante durante il percorso cui è stato ammesso per un eccezionale privilegio divino, in virtù della sua capacità poetica e con la missione di riferire ogni cosa una volta tornato sulla Terra, come chiarito dall'avo Cacciaguida nell'incontro di Par., XVII, e questo rende la Commedia un'opera profondamente diversa dalle altre scritte da autori precedenti, quasi una sorta di "poema ispirato" (non a caso Dante parla di "poema sacro" in Par., XXV) e scritto sotto dettatura divina, a indicare l'assoluto valore di "rivelazione" che il testo assume come testimonianza dello "stato delle anime dopo la morte", al fine di indurre i lettori a comportamenti morali sull'esempio dei vizi puniti e delle virtù premiate. Dante ovviamente non rinuncia ai suoi diritti di "narratore", mantiene la sua identità di poeta-personaggio per tutto il racconto e, in quanto tale, esprime giudizi personali sulle cose e i personaggi visti, talvolta si scontra persino con alcune figure di dannati con cui è coinvolto a livello personale (è il caso di Filippo Argenti e di Bocca degli Abati, rispettivamente in Inf., VIII, XXXII), tuttavia è anche fedele testimone delle cose che gli sono mostrate per volontà divina e in questo mantiene una certa neutralità, talvolta asserendo la veridicità di quanto ha visto con solenni formule di giuramento (cfr. ad es. Inf., XVI, quando giura di aver realmente visto il mostro Gerione "per le note / di questa comedìa") o affermando con orgogliosa auto-coscienza l'assoluta novità dell'argomento trattato, specie nell'affrontare la descrizione mai tentata prima del Paradiso (cfr. specialmente Par., II, quando dichiara che l' "acqua" metaforica del terzo regno e che lui solca con la "nave" dell'ingegno poetico "già mai non si corse").
In questo atteggiamento rientra anche l'uso frequente di passi profetici, in cui vari personaggi autorevoli che Dante incontra e di cui lui riferisce la parole predicono eventi futuri che riguardano variamente l'ordine morale o la politica e preannunciano un prossimo e imprecisato rinnovamento ad opera di qualche personaggio enigmatico: sono le profezie più oscure del poema, a cominciare da quella del "veltro" (cane da caccia) attribuita a Virgilio in Inf., I che profetizza la venuta di un personaggio destinato a cacciare la lupa, ovvero l'avarizia, dal mondo (variamente interpretato come Cangrande della Scala, un papa, un politico...), oppure quella del non meno misterioso "DXV" fatta da Beatrice in Purg., XXXIII, secondo cui tale personaggio ucciderà la meretrice che simboleggia la curia papale corrotta e anch'esso identificato con Cangrande della Scala ed altri personaggi del tempo. Il carattere vago e indeterminato di queste profezie è dovuto al fatto che esse auspicavano un qualche rivolgimento politico-morale in grado di ristabilire la giustizia nel mondo, calpestata secondo Dante da politici e uomini di Chiesa corrotti, anche se certamente il rinnovamento doveva venire dall'affermarsi del potere imperiale identificato prima con Arrigo VII di Lussemburgo e poi col vicario imperiale Cangrande, del quale l'avo Cacciaguida in Par., XVII preconizza grandi imprese anche se ordina a Dante di non riferire tutte le sue parole (la profezia, anche se riferita stavolta a un personaggio concreto, non è meno vaga delle precedenti). A queste previsioni il poeta ne affianca altre che vengono definite post eventum, riferite cioè ad avvenimenti posteriori al 1300 (anno dell'immaginaria visione) ma precedenti al periodo di composizione dell'opera, riguardanti per lo più l'esilio di Dante e la vittoria dei Neri a Firenze, ma anche ad es. la futura dannazione di alcuni papi, come Bonifacio VIII e Clemente V (che Niccolò III dice di aspettare dopo di lui tra i simoniaci in Inf., XIX e il cui destino verrà ribadito da Beatrice in Par., XXX), anche se il papa francese, essendo morto solo nel 1314, poteva forse essere ancora vivo quando Dante scrisse di lui nel passo infernale o forse il poeta corresse i suoi versi in un secondo momento. Il tono profetico è in linea con lo stile sentenzioso e morale delle "visioni" ed aggiunge una certa solennità all'esempio morale fornito dai vari personaggi che Dante incontra nel viaggio, inoltre è evidente che il poeta nutre un'assoluta e incrollabile fiducia in un prossimo evento capace di estirpare dal mondo l'ingiustizia che lui stesso denuncia nel suo poema, assumendosi un rischio che conferisce maggior valore al linguaggio quasi "sacrale" che lui adopera nell'indicare ai lettori la giusta strada da compiere.
In questo atteggiamento rientra anche l'uso frequente di passi profetici, in cui vari personaggi autorevoli che Dante incontra e di cui lui riferisce la parole predicono eventi futuri che riguardano variamente l'ordine morale o la politica e preannunciano un prossimo e imprecisato rinnovamento ad opera di qualche personaggio enigmatico: sono le profezie più oscure del poema, a cominciare da quella del "veltro" (cane da caccia) attribuita a Virgilio in Inf., I che profetizza la venuta di un personaggio destinato a cacciare la lupa, ovvero l'avarizia, dal mondo (variamente interpretato come Cangrande della Scala, un papa, un politico...), oppure quella del non meno misterioso "DXV" fatta da Beatrice in Purg., XXXIII, secondo cui tale personaggio ucciderà la meretrice che simboleggia la curia papale corrotta e anch'esso identificato con Cangrande della Scala ed altri personaggi del tempo. Il carattere vago e indeterminato di queste profezie è dovuto al fatto che esse auspicavano un qualche rivolgimento politico-morale in grado di ristabilire la giustizia nel mondo, calpestata secondo Dante da politici e uomini di Chiesa corrotti, anche se certamente il rinnovamento doveva venire dall'affermarsi del potere imperiale identificato prima con Arrigo VII di Lussemburgo e poi col vicario imperiale Cangrande, del quale l'avo Cacciaguida in Par., XVII preconizza grandi imprese anche se ordina a Dante di non riferire tutte le sue parole (la profezia, anche se riferita stavolta a un personaggio concreto, non è meno vaga delle precedenti). A queste previsioni il poeta ne affianca altre che vengono definite post eventum, riferite cioè ad avvenimenti posteriori al 1300 (anno dell'immaginaria visione) ma precedenti al periodo di composizione dell'opera, riguardanti per lo più l'esilio di Dante e la vittoria dei Neri a Firenze, ma anche ad es. la futura dannazione di alcuni papi, come Bonifacio VIII e Clemente V (che Niccolò III dice di aspettare dopo di lui tra i simoniaci in Inf., XIX e il cui destino verrà ribadito da Beatrice in Par., XXX), anche se il papa francese, essendo morto solo nel 1314, poteva forse essere ancora vivo quando Dante scrisse di lui nel passo infernale o forse il poeta corresse i suoi versi in un secondo momento. Il tono profetico è in linea con lo stile sentenzioso e morale delle "visioni" ed aggiunge una certa solennità all'esempio morale fornito dai vari personaggi che Dante incontra nel viaggio, inoltre è evidente che il poeta nutre un'assoluta e incrollabile fiducia in un prossimo evento capace di estirpare dal mondo l'ingiustizia che lui stesso denuncia nel suo poema, assumendosi un rischio che conferisce maggior valore al linguaggio quasi "sacrale" che lui adopera nell'indicare ai lettori la giusta strada da compiere.
Il rapporto con la cultura classica
I riferimenti al mondo classico e alla cultura latina sono largamente presenti nell'opera, anche se la visione che Dante ha di tale tradizione è ancora profondamente legata al Medioevo e parte dal presupposto che gli autori antichi avessero intravisto alcune verità del Cristianesimo esprimendole in forma velata nelle loro opere, dunque il compito degli scrittori moderni era quello di interpretare i significati "latenti" dei loro scritti e spiegarli in modo chiaro ai lettori perché potessero trarne insegnamento morale. Questa "cristianizzazione" dei testi classici è un atteggiamento ampiamente diffuso nella cultura del Due-Trecento e spiega, ad es., perché la filosofia di Aristotele era stata integrata nel pensiero cristiano da S. Tommaso d'Aquino, ma anche perché autori come Virgilio e Ovidio erano stati sottoposti a una profonda esegesi da parte degli autori medievali, alla ricerca di significati "cristiani" nelle loro opere (le Metamorfosi di Ovidio, in particolare, erano un repertorio ricchissimo di miti che venivano piegati a una lettura cristiana, quasi sempre del tutto forzata, e lo stesso vale ovviamente per l'Eneide di Virgilio). Dante si allinea perfettamente a questa tradizione e infatti disegna un Oltretomba cristiano modellato sul sistema aristotelico-tolemaico messo a punto nel Duecento, in cui tra l'altro l'Inferno contiene numerosi elementi dell'Ade pagano (i fiumi infernali, varie figure demoniache...), inoltre sceglie come guida per i due terzi del viaggio proprio quel Virgilio che la cultura medievale interpretava come saggio del mondo antico e anche come "mago e profeta" del Cristianesimo, soprattutto per l'errata lettura dell'Egloga IV in cui il puer di cui si annunciava la nascita sembrava un riferimento a Cristo (e invece il poemetto era dedicato al figlio nascituro di Asinio Pollione, illustre protettore del poeta latino). Lo stesso principio spinge Dante a includere nella rappresentazione dell'Inferno tutta una serie di personaggi della mitologia pagana che, in quanto mostruosi o legati alla sfera dell'Oltretomba, vengono "demonizzati" e assimilati alle altre figure diaboliche di origine cristiana (è il caso di Caronte, Minosse, Cerbero, il Minotauro e molti altri, sottoposti non di rado a una radicale trasformazione la cui origine non è sempre chiara), mentre le divinità dell'Olimpo possono essere invocate come raffigurazione del Dio cristiano, come accade con Giove ("sommo Giove" è definito Dio in Purg., VI) e con Apollo (la cui ispirazione poetica è invocata in Par., I, come figura dell'ispirazione divina). Clamoroso è poi il caso di Catone l'Uticense, il personaggio pagano che morì suicida a Utica dopo la sconfitta subìta ad opera di Cesare e che a dispetto di tutto ciò non solo è considerato salvo da Dante, ma addirittura posto a custodia del Purgatorio (Dante si accoda alla tradizione medievale che interpretava Catone come esempio morale e di lotta per la libertà), così come quello del poeta latino Stazio, l'autore pagano della Tebaide che Dante trasforma in poeta cristiano attingendo forse a una leggenda a noi ignota e che addirittura include tra le anime salve del Purgatorio, attribuendo la sua presunta conversione all'influenza dell'opera di Virgilio che Stazio considera come un maestro (► SCHEDA: Stazio poeta "cristiano"). Questo aspetto è ovviamente quello che forse allontana maggiormente Dante dalla visione moderna poi affermatasi con l'Umanesimo e già anticipata da un poeta del Trecento quale Petrarca, il quale proporrà una lettura dei testi classici di tipo "scientifico" e basata sulla corretta interpretazione del loro significato, accompagnata oltretutto da una maggiore padronanza del latino classico come strumento linguistico (è noto che Dante ne avesse una conoscenza imperfetta e ciò è fonte non di rado di letture errate di alcuni passi antichi, che in qualche caso portano a clamorosi fraintendimenti). Dante è autore del Medioevo e in nessun caso si può considerare uno scrittore pre-umanista, per cui la modernità dell'opera dantesca risiede in altri elementi quali la denuncia dei mali e delle ingiustizie oppure la testimonianza morale, non certo nel rapporto col mondo antico che, come si è detto, propone una distorsione dei significati originali che è incompatibile con l'atteggiamento critico e razionalista della letteratura moderna.
Simmetrie nella struttura dell'opera
Dante è autore del Medioevo e condivide con la sua epoca il gusto per le simmetrie e le corrispondenze numeriche tipiche delle grandi costruzioni architettoniche, per cui non sorprende che ad esempio il numero tre (corrispondente alla Trinità e perciò considerato perfetto) costituisca l'ossatura di tutto il poema: le Cantiche sono tre, ciascuna comprende 33 canti (più il canto I dell'Inferno che fa da proemio all'intera opera, per un totale di 100) e ogni canto è diviso in terzine a rima concatenata, per cui si può parlare di un "ritmo ternario" che caratterizza tutta la Commedia (in questo senso l'opera rappresenta un caso unico nella letteratura italiana). Naturalmente sono presenti altri riferimenti a numeri simbolici della liturgia cristiana, come il sette (numero delle cornici del Purgatorio e dei cieli del Paradiso corrispondenti ai pianeti), il dieci (le zone dell'Inferno incluso il Vestibolo, le bolge dell'ottavo cerchio, il numero complessivo dei cieli) e anche il nove (i cerchi infernali, le zone del Purgatorio incluso l'Antipurgatorio e l'Eden, i cieli del Paradiso governati dalle gerarchie angeliche). Inoltre il sesto canto di ogni Cantica è di argomento politico, secondo una gradazione crescente (Firenze nell'Inferno, l'Italia nel Purgatorio, l'Impero nel Paradiso), mentre ciascuna cantica termina con la parola "stelle", con evidente riferimento alla meta finale del viaggio, ovvero l'Empireo. Alcuni commentatori hanno individuato simmetrie ancor più complesse nell'architettura del poema, anche se in questa sede conviene limitarsi a quelle più evidenti e riconducibili alla volontà del poeta (è fin troppo facile, del resto, individuare presunte corrispondenze in un'opera così vasta, non essendoci spesso riscontri oggettivi).
Il numero dei versi di ogni canto è variabile, per quanto nessuno è inferiore a 115 e nessuno superiore a 160, per un totale di 14.233 endecasillabi che fanno del poema una delle opere mediamente lunghe della nostra letteratura (ma nettamente inferiore per mole ai poemi del Cinquecento e Seicento, come Orlando furioso e Adone). Altre simmetrie sono ravvisabili nella struttura interna delle Cantiche, per cui ad es. l'Inferno descrive la parte "alta" della voragine nei primi 17 canti e il "basso Inferno" nei restanti 17, mentre le tre notti trascorse da Dante nel Purgatorio corrispondono ai canti IX, XVIII e XXVII della seconda Cantica (non casualmente, il nove e due suoi multipli). Analogamente, il canto centrale del Paradiso (XVII) è dedicato alla conclusione dell'episodio dell'incontro con l'avo Cacciaguida, che imita quello di Enea e Anchise nell'Eneide e contiene l'enunciazione della "missione poetica" di Dante, mentre la descrizione della "candida rosa" dell'Empireo e della visione di Dio occupa i canti XXXI-XXXIII, ovvero gli ultimi tre della Cantica e del poema.
Altre corrispondenze non legate ai numeri riguardano la disposizione di personaggi ed episodi, per cui ad es. Francesca è il primo dannato con cui Dante parla (Inf., V) e Arnaut Daniel l'ultimo penitente incontrato (Purg., XXVI), entrambi lussuriosi e coinvolti in un discorso intorno alla letteratura amorosa; in Inf., XXVII Dante incontra Guido da Montefeltro, la cui dannazione può essere sorprendente essendo lui francescano, mentre in Purg., V incontra il figlio Bonconte, al contrario del padre salvo contro ogni aspettativa (un'ulteriore analogia sta nel "contrasto" tra il diavolo e S. Francesco per l'anima di Guido, vinto dal diavolo, e quello tra il diavolo e l'angelo per Bonconte, vinto dall'angelo). In Purg., XII le iniziali di una serie di terzine che descrivono gli esempi di superbia punita formano l'acrostico VOM ("uomo"), anch'esso rientrante nel gusto tutto medievale per i giochi verbali, mentre il canto XIX delle prime due Cantiche presenta un'analogia tematica, in quanto nell'Inferno si parla dei papi simoniaci e dannati, nel Purgatorio il protagonista è il papa avaro, ma pentito e salvo, Adriano V (e in Par., XIX si parlerà nuovamente di salvezza e dei principi cristiani corrotti, quasi a chiudere idealmente il cerchio della polemica).
Da ricordare, infine, che il numero 100 dei canti complessivi verrà imitato da Boccaccio nelle 100 novelle del Decameron, che però sarà un'opera totalmente diversa per concezione e lontanissima dalle caratteristiche "medievali" della Commedia.
Il numero dei versi di ogni canto è variabile, per quanto nessuno è inferiore a 115 e nessuno superiore a 160, per un totale di 14.233 endecasillabi che fanno del poema una delle opere mediamente lunghe della nostra letteratura (ma nettamente inferiore per mole ai poemi del Cinquecento e Seicento, come Orlando furioso e Adone). Altre simmetrie sono ravvisabili nella struttura interna delle Cantiche, per cui ad es. l'Inferno descrive la parte "alta" della voragine nei primi 17 canti e il "basso Inferno" nei restanti 17, mentre le tre notti trascorse da Dante nel Purgatorio corrispondono ai canti IX, XVIII e XXVII della seconda Cantica (non casualmente, il nove e due suoi multipli). Analogamente, il canto centrale del Paradiso (XVII) è dedicato alla conclusione dell'episodio dell'incontro con l'avo Cacciaguida, che imita quello di Enea e Anchise nell'Eneide e contiene l'enunciazione della "missione poetica" di Dante, mentre la descrizione della "candida rosa" dell'Empireo e della visione di Dio occupa i canti XXXI-XXXIII, ovvero gli ultimi tre della Cantica e del poema.
Altre corrispondenze non legate ai numeri riguardano la disposizione di personaggi ed episodi, per cui ad es. Francesca è il primo dannato con cui Dante parla (Inf., V) e Arnaut Daniel l'ultimo penitente incontrato (Purg., XXVI), entrambi lussuriosi e coinvolti in un discorso intorno alla letteratura amorosa; in Inf., XXVII Dante incontra Guido da Montefeltro, la cui dannazione può essere sorprendente essendo lui francescano, mentre in Purg., V incontra il figlio Bonconte, al contrario del padre salvo contro ogni aspettativa (un'ulteriore analogia sta nel "contrasto" tra il diavolo e S. Francesco per l'anima di Guido, vinto dal diavolo, e quello tra il diavolo e l'angelo per Bonconte, vinto dall'angelo). In Purg., XII le iniziali di una serie di terzine che descrivono gli esempi di superbia punita formano l'acrostico VOM ("uomo"), anch'esso rientrante nel gusto tutto medievale per i giochi verbali, mentre il canto XIX delle prime due Cantiche presenta un'analogia tematica, in quanto nell'Inferno si parla dei papi simoniaci e dannati, nel Purgatorio il protagonista è il papa avaro, ma pentito e salvo, Adriano V (e in Par., XIX si parlerà nuovamente di salvezza e dei principi cristiani corrotti, quasi a chiudere idealmente il cerchio della polemica).
Da ricordare, infine, che il numero 100 dei canti complessivi verrà imitato da Boccaccio nelle 100 novelle del Decameron, che però sarà un'opera totalmente diversa per concezione e lontanissima dalle caratteristiche "medievali" della Commedia.
Plurilinguismo e pluristilismo del poema
Dante usa il fiorentino come base linguistica di tutte le sue opere volgari e la Commedia non fa eccezione, nonostante il giudizio severo che contro la sua lingua materna l'autore aveva pronunciato nel De vulgari eloquentia in cui, tra l'altro, aveva aspramente criticato i toscani in generale per la loro pretesa di possedere il "volgare illustre" (tale apparente contraddizione spiega i molti dubbi sulla paternità dantesca del trattato, sollevati specialmente in epoca rinascimentale; ► SCHEDA: Il De vulgari eloquentia). Benché ignoriamo se e per quale motivo Dante abbia cambiato la sua posizione, è innegabile che il volgare fiorentino sia la lingua dominante nel poema, in cui addirittura l'autore usa alcuni di quei termini vernacolari che aveva condannato nel trattato latino (come introcque, usato in Inf., XX), ma è altrettanto evidente che su tale base il poeta innesta vocaboli derivanti da altre lingue e da altre tradizioni, per cui gli studiosi moderni hanno parlato di plurilinguismo dantesco in opposizione con il monolinguismo di Petrarca, che indirizzerà la sua ricerca in una direzione del tutto diversa da quella del poeta precedente. Dante nella Commedia ricorre soprattutto a prestiti dal francese e dal provenzale, lingua quest'ultima che conosce assai bene avendo egli letto le opere dei trovatori occitanici (in Purg., XXVI Arnaut Daniel pronuncia persino alcune parole in perfetta lingua d'oc), ma sono largamente presenti anche latinismi (derivati e puri, specie nel Paradiso per la necessità di usare termini della filosofia scolastica) e persino, secondo alcuni, termini derivati dall'arabo, mentre non è raro che il poeta caratterizzi alcuni personaggi attribuendo loro delle parole con una patina che noi definiremmo "dialettale" (come nel caso di Bonagiunta, che in Purg., XXIV usa il termine lucchese "issa" per dire "ora"). La lingua del poema è dunque il prodotto di uno sperimentalismo e di un eclettismo che non ha altri esempi nella letteratura del tempo e che arriva a creare linguaggi inesistenti per caratterizzare in senso negativo determinate figure, come il caso celebre di Pluto che all'inizio di Inf., VII pronuncia la frase "Pape Satàn, pape Satàn aleppe!" (che è stata variamente interpretata dai commentatori) o quello altrettanto notevole di Nembrod che in Inf., XXXI esprime parole incomprensibili a significare la confusione linguistica che proprio lui, secondo una tradizione seguita da Dante e da altri, aveva contribuito a creare con la costruzione della torre di Babele. Da ricordare inoltre che non sono pochi i neologismi appositamente creati dal poeta per esprimere particolari significati specialmente nella terza Cantica, come i termini "immillare", "incinquare", o addirittura "intuare" e "inmiare" per indicare la capacità di leggere nella mente dell'interlocutore, per tacere di quei vocaboli che non sono attestati altrove e il cui significato appare oscuro ai commentatori (basti citare la parola "ramogna" di Purg., XI, vera crux interpretativa dei critici moderni).
Una varietà analoga si ritrova poi anche nello stile seguito da Dante nel poema, dal momento che la Commedia presenta certo una prevalenza del registro "medio" che corrisponde appunto al "comico" cui allude il titolo, ma alternandolo a quello elevato e "tragico" di tanti passi del poema (specie nella terza Cantica, ma anche nelle prime due) e a quello più basso ed "elegiaco", cosa che ha indotto a parlare di pluristilismo dell'opera dantesca in maniera simile alla lingua. Dante adatta lo stile ai personaggi e alle situazioni presentate, per cui il registro è spesso aspro e apertamente volgare nell'Inferno (cfr. XVIII, "merda", "unghie merdose"; XXI, "ed elli avea del cul fatto trombetta"; XXIV, il gesto blasfemo di Vanni Fucci), dove però non mancano momenti di intenso lirismo e di impegno retorico (cfr. V, il discorso di Francesca; XXXIII, il racconto di Ugolino), mentre asprezze verbali sono presenti anche nel Paradiso, per cui basterà citare il discorso di Cacciaguida (XVII, "e lascia pur grattar dov'è la rogna") o quello di S. Pietro contro Bonifacio VIII (XXVII, "fatt’ha del cimitero mio cloaca / del sangue e de la puzza", con riferimento al fatto che il papa corrotto ha trasformato il Vaticano in una specie di latrina). Se la terza Cantica è quella in cui spesso il linguaggio raggiunge le vette della costruzione retorica, come negli episodi più celebri di Giustiniano (VI) o del panegirico di S. Francesco (XI), il Purgatorio è invece la parte dell'opera in cui spesso lo stile è più vicino al quotidiano, come nell'episodio famoso dell'incontro con Casella sulla spiaggia (II) in cui sembra di assistere alla rimpatriata di due vecchi amici, o quello più scanzonato e ironico dell'incontro con Belacqua (IV), a significare la maggiore serenità di questo regno dell'Oltretomba rispetto al carattere terribile e disperato dell'Inferno da poco abbandonato. La stessa varietà si registra per quanto riguarda gli stili poetici, poiché Dante sfrutta nel poema tutta l'esperienza maturata negli anni precedenti e passa perciò dallo Stilnovo "scolastico" dell'incontro Beatrice-Virgilio (Inf., II), allo stile della poesia comica nella rissa Sinone-Mastro Adamo (Inf., XXX) o nella descrizione dei traditori di Cocito (XXXII, dove peraltro egli invoca le rime "aspre e chiocce" già usate nelle "Petrose"), mentre l'intonazione da cantico religioso prevale in molti episodi del Paradiso, assieme allo stile solenne e fitto di richiami scritturali della descrizione della "candida rosa", fino alla visione finale di Dio. Sotto questo aspetto l'opera rappresenta un unicum nella letteratura italiana di ogni tempo e tale straordinaria varietà spiega in gran parte lo straordinario successo che il poema ha sempre riscosso tra i lettori non solo italiani, anche se va riconosciuto che il plurilinguismo della Commedia non piacque in età rinascimentale agli intellettuali che discutevano della questione della lingua e che a Dante preferirono il fiorentino meno vario e più "normalizzato" di Petrarca, conformemente alla loro mentalità che ricercava la norma e la regolarità in ogni aspetto della letteratura e dell'arte e che perciò non poteva apprezzare fino in fondo la multiformità dell'opera dantesca.
Una varietà analoga si ritrova poi anche nello stile seguito da Dante nel poema, dal momento che la Commedia presenta certo una prevalenza del registro "medio" che corrisponde appunto al "comico" cui allude il titolo, ma alternandolo a quello elevato e "tragico" di tanti passi del poema (specie nella terza Cantica, ma anche nelle prime due) e a quello più basso ed "elegiaco", cosa che ha indotto a parlare di pluristilismo dell'opera dantesca in maniera simile alla lingua. Dante adatta lo stile ai personaggi e alle situazioni presentate, per cui il registro è spesso aspro e apertamente volgare nell'Inferno (cfr. XVIII, "merda", "unghie merdose"; XXI, "ed elli avea del cul fatto trombetta"; XXIV, il gesto blasfemo di Vanni Fucci), dove però non mancano momenti di intenso lirismo e di impegno retorico (cfr. V, il discorso di Francesca; XXXIII, il racconto di Ugolino), mentre asprezze verbali sono presenti anche nel Paradiso, per cui basterà citare il discorso di Cacciaguida (XVII, "e lascia pur grattar dov'è la rogna") o quello di S. Pietro contro Bonifacio VIII (XXVII, "fatt’ha del cimitero mio cloaca / del sangue e de la puzza", con riferimento al fatto che il papa corrotto ha trasformato il Vaticano in una specie di latrina). Se la terza Cantica è quella in cui spesso il linguaggio raggiunge le vette della costruzione retorica, come negli episodi più celebri di Giustiniano (VI) o del panegirico di S. Francesco (XI), il Purgatorio è invece la parte dell'opera in cui spesso lo stile è più vicino al quotidiano, come nell'episodio famoso dell'incontro con Casella sulla spiaggia (II) in cui sembra di assistere alla rimpatriata di due vecchi amici, o quello più scanzonato e ironico dell'incontro con Belacqua (IV), a significare la maggiore serenità di questo regno dell'Oltretomba rispetto al carattere terribile e disperato dell'Inferno da poco abbandonato. La stessa varietà si registra per quanto riguarda gli stili poetici, poiché Dante sfrutta nel poema tutta l'esperienza maturata negli anni precedenti e passa perciò dallo Stilnovo "scolastico" dell'incontro Beatrice-Virgilio (Inf., II), allo stile della poesia comica nella rissa Sinone-Mastro Adamo (Inf., XXX) o nella descrizione dei traditori di Cocito (XXXII, dove peraltro egli invoca le rime "aspre e chiocce" già usate nelle "Petrose"), mentre l'intonazione da cantico religioso prevale in molti episodi del Paradiso, assieme allo stile solenne e fitto di richiami scritturali della descrizione della "candida rosa", fino alla visione finale di Dio. Sotto questo aspetto l'opera rappresenta un unicum nella letteratura italiana di ogni tempo e tale straordinaria varietà spiega in gran parte lo straordinario successo che il poema ha sempre riscosso tra i lettori non solo italiani, anche se va riconosciuto che il plurilinguismo della Commedia non piacque in età rinascimentale agli intellettuali che discutevano della questione della lingua e che a Dante preferirono il fiorentino meno vario e più "normalizzato" di Petrarca, conformemente alla loro mentalità che ricercava la norma e la regolarità in ogni aspetto della letteratura e dell'arte e che perciò non poteva apprezzare fino in fondo la multiformità dell'opera dantesca.
L'influenza culturale della Commedia
Il poema dantesco cominciò a circolare prestissimo nell'Italia del Trecento e apparve subito un assoluto capolavoro, tanto che la tradizione manoscritta ci ha trasmesso qualcosa come 700 codici (ma non l'autografo dell'autore) e ha reso impossibile qualunque edizione critica del testo, anche perché molti passi erano recitati a memoria da lettori più o meno eruditi e venivano inevitabilmente storpiati, come del resto attesta una delle Trecentonovelle di F. Sacchetti (la 114, in cui Dante litiga con un fabbro che, appunto, recitava i suoi versi in modo impreciso). A metà del XIV sec. risale il Trattatello in laude di Dante di Boccaccio, la prima biografia "ufficiale" del poeta infarcita di elementi aneddotici e leggendari, che contribuì tuttavia a costruire il "mito" di Dante come poeta immortale e votato alla fama (è qui che Boccaccio aggiunge al poema l'aggettivo Divina poi rimasto parte integrante del titolo) ed è innegabile che il successo del poema è rimasto inalterato sino alle soglie dell'età moderna, pur con gli alti e bassi che hanno segnato il rapporto della cultura italiana con il grande autore fiorentino (per un maggiore approfondimento sul punto, ► AUTORE: Dante Alighieri). Oggi la Commedia è giustamente considerata come l'opera di gran lunga più importante di tutta la nostra tradizione letteraria e rientra come lettura obbligatoria nei programmi scolastici di molti indirizzi di studio, mentre molte espressioni derivanti da passi danteschi si sono imposte nell'uso comune e sono diventate quasi idiomatiche, a volte al di là del loro effettivo significato (si pensi, per fare solo qualche esempio, a frasi quali perdere il ben dell'intelletto, gran rifiuto, guarda e passa, amor ch'a nullo amato amar perdona, fatti non foste a viver come bruti, libertà va cercando ch'è sì cara, ecc.). È interessante inoltre osservare come il successo dei versi del poema sia dovuto, in molti casi, alla mediazione culturale di alcuni interpreti di eccezione, tra cui poeti e scrittori che hanno reinterpretato e rilanciato l'opera di Dante (il nome di Eugenio Montale è forse quello più importante nel Novecento), ma in molti altri casi la diffusione dell'opera è avvenuta spontaneamente grazie alla passione dei lettori comuni, sui quali il poema continua ad esercitare un fascino tutto particolare che, spesso, è totalmente slegato dallo studio o dall'ambiente scolastico e nasce dall'interesse personale, dalla vicinanza con gli elementi sentiti più attuali del messaggio dell'autore trecentesco.
Tale diffusione è avvenuta nel corso dei secc. XIX-XX anche fuori d'Italia e si può dire che la Commedia sia l'opera italiana in assoluto più nota al mondo, oggetto tra l'altro di un numero impressionante di traduzioni nelle più svariate lingue: tradotta già in latino nel corso del XV sec., ci sono state traduzioni in esperanto e nelle principali lingue moderne (soprattutto inglese, francese, spagnolo), ma anche in molti dialetti italiani tra cui il sardo, il lombardo, il piemontese, e non sono mancate neppure versioni in prosa per facilitare la comprensione (per approfondire si veda il sito Dantepoliglotta.it, contenente un repertorio assai ricco di materiale sulle traduzioni dantesche). Altrettanto variegata la galassia dei commenti e delle parafrasi del testo, specie sul web dove molti siti (professionali e non) offrono materiale didattico e spunti di riflessione sul valore attuale dell'opera dantesca, un panorama assai vasto che si affianca alle istituzioni ufficiali che si occupano della Commedia (a cominciare dalla Società Dantesca Italiana con sede a Firenze) e che testimonia la straordinaria vitalità di un'opera davvero immortale, anche se non sempre supportata dalla piena comprensione data la complessità del testo.
Tale diffusione è avvenuta nel corso dei secc. XIX-XX anche fuori d'Italia e si può dire che la Commedia sia l'opera italiana in assoluto più nota al mondo, oggetto tra l'altro di un numero impressionante di traduzioni nelle più svariate lingue: tradotta già in latino nel corso del XV sec., ci sono state traduzioni in esperanto e nelle principali lingue moderne (soprattutto inglese, francese, spagnolo), ma anche in molti dialetti italiani tra cui il sardo, il lombardo, il piemontese, e non sono mancate neppure versioni in prosa per facilitare la comprensione (per approfondire si veda il sito Dantepoliglotta.it, contenente un repertorio assai ricco di materiale sulle traduzioni dantesche). Altrettanto variegata la galassia dei commenti e delle parafrasi del testo, specie sul web dove molti siti (professionali e non) offrono materiale didattico e spunti di riflessione sul valore attuale dell'opera dantesca, un panorama assai vasto che si affianca alle istituzioni ufficiali che si occupano della Commedia (a cominciare dalla Società Dantesca Italiana con sede a Firenze) e che testimonia la straordinaria vitalità di un'opera davvero immortale, anche se non sempre supportata dalla piena comprensione data la complessità del testo.
Miniature e illustrazioni
Il successo del poema nei secoli è legato anche alle molte illustrazioni che ne hanno accompagnato le varie edizioni, dalle miniature dei manoscritti del XIV-XV sec. fino alle opere di disegnatori e incisori dell'età moderna, ciascuno dei quali ha reinterpretato a modo suo il messaggio della Commedia aggiungendo spesso un tocco artistico (tra essi vi sono infatti anche pittori di primissimo livello). Tra i miniatori dei primi secoli si possono citare il senese Giovanni di Paolo, attivo nel Quattrocento e autore delle illustrazioni del Paradiso dell'edizione manoscritta commissionata nel 1450 ca. da re Alfonso d'Aragona, nonché Priamo della Quercia, fratello del più celebre Jacopo e a cui si devono alcune importanti miniature delle prime due Cantiche del poema. Alla fine del secolo anche Sandro Botticelli realizzò 92 disegni sulla Commedia su incarico dei Medici, tra cui è rimasta celebre la rappresentazione della voragine infernale; da ricordare anche il pittore fiammingo Giovanni Stradano (vero nome Jan Van der Straet), pittore fiammingo del XVI sec. vissuto a lungo a Firenze dove collaborò con G. Vasari e realizzò alcune illustrazioni dell'opera dantesca, oggi conservate nella biblioteca Medicea Laurenziana. In età moderna merita invece una citazione particolare il poeta inglese William Blake (1757-1827), che fu anche incisore e che realizzò alcune importanti illustrazioni della Commedia (nel 1825, non portate a termine) caratterizzate dalla presenza di colori vivaci, non sempre apprezzate dai contemporanei che non capirono la sua anticipazione del simbolismo ottocentesco; decisamente più tradizionali ma anche più cupi i disegni del francese Gustave Doré (1832-1883), che illustrò l'opera nel 1861 e dedicò la sua attenzione anche ad altri testi letterari o religiosi, tra cui spiccano la Bibbia, il Paradiso perduto di Milton e il Furioso di L. Ariosto.
Negli anni più vicini a noi la Commedia è stata oggetto di studio da parte di pittori e artisti di fama, tra cui val la pena di menzionare soprattutto il pittore spagnolo Salvador Dalì (1904-1989), autore di cento tavole illustrative del poema (nell'ediz. fiorentina del 1964) in cui gli episodi dell'opera sono reinterpretati in chiave spesso fantastica, con risultati apprezzabilissimi sul piano estetico. Tra gli artisti italiani sono degni di nota Amos Nattini (1892-1985), che curò un'edizione monumentale del poema in tre volumi (1923-1941) con una tavola per canto, di cui quelle relative all'Inferno furono esposte a Parigi nella primavera del 1931, mentre in anni più recenti il pittore sardo Aligi Sassu (1912-2000) ha realizzato centotredici tavole della Commedia, dopo che negli anni Quaranta l'artista aveva già illustrato i Promessi sposi riscuotendo un notevole apprezzamento.
Negli anni più vicini a noi la Commedia è stata oggetto di studio da parte di pittori e artisti di fama, tra cui val la pena di menzionare soprattutto il pittore spagnolo Salvador Dalì (1904-1989), autore di cento tavole illustrative del poema (nell'ediz. fiorentina del 1964) in cui gli episodi dell'opera sono reinterpretati in chiave spesso fantastica, con risultati apprezzabilissimi sul piano estetico. Tra gli artisti italiani sono degni di nota Amos Nattini (1892-1985), che curò un'edizione monumentale del poema in tre volumi (1923-1941) con una tavola per canto, di cui quelle relative all'Inferno furono esposte a Parigi nella primavera del 1931, mentre in anni più recenti il pittore sardo Aligi Sassu (1912-2000) ha realizzato centotredici tavole della Commedia, dopo che negli anni Quaranta l'artista aveva già illustrato i Promessi sposi riscuotendo un notevole apprezzamento.
Il poema al cinema, in televisione e in teatro
In età moderna notevole è stato l'interesse che i mass-media e le nuove forme artistiche hanno riservato all'opera dantesca, a cominciare ovviamente dal cinema che sin dagli albori ha realizzato alcune trasposizioni, se non del poema nel suo complesso, almeno di singoli episodi: da citare pellicole come Il conte Ugolino (diretta nel 1908 da G. De Liguoro), o Francesca da Rimini (realizzata nel 1910 da U. Falena), o ancora Dante e Beatrice (1912, di M. Caserini), mentre in anni più recenti E. Pratelli realizzò Pia de' Tolomei, film ispirato al personaggio del canto V del Purgatorio (1941). La RAI trasmise nel 1965, in occasione del settimo centenario della nascita del grande poeta, lo sceneggiato televisivo Vita di Dante (per la regia di V. Cottafavi), con G. Albertazzi nei panni del protagonista e una giovanissima L. Goggi in quelli di Beatrice, serie dedicata alla biografia dell'autore che riscosse un notevole successo di pubblico e critica (l'opera non era dedicata alla Commedia in particolare).
La televisione ha soprattutto realizzato letture e commenti critici del poema, tra cui merita citare soprattutto la trasmissione della RAI andata in onda nel 1989 e che proponeva la lettura dei canti della Commedia da parte di alcuni grandi attori (G. Albertazzi, G. Sbragia e E. M. Salerno, che lessero rispettivamente Inferno, Purgatorio e Paradiso), ognuna preceduta da un'introduzione di G. Petrocchi e seguita dal commento di alcuni importanti critici italiani. Da ricordare anche la trasmissione Gassman legge Dante, andata in onda su Rai 1 nell'autunno 1993 per la regia di Rubino Rubini, in cui il grande attore ha recitato 34 canti dell'Inferno, 4 del Purgatorio e 2 del Paradiso premettendo ad ognuno un breve commento (il programma, complice una collocazione di palinsesto non ideale, non realizzò grandi ascolti; ► VIDEO: Gassman legge Dante). In anni più vicini a noi ha invece riscosso un notevole successo di pubblico Tutto Dante di Roberto Benigni, nato nel 2006 dapprima come spettacolo teatrale e dedicato alla lettura e al commento di singoli canti della Commedia, successivamente approdato in TV e trasmesso da RAI 1 con notevoli ascolti, mentre già nel 2002 alla lettura del canto XXXIII del Paradiso era stata dedicata una prima serata (sempre su RAI 1) premiata da un grande successo di pubblico. Per quanto riguarda le trasposizioni teatrali, si può citare l'opera musicale La divina commedia che ha debuttato a Roma nel 2007 e che si è servita per la realizzazione scenica degli effetti speciali del premio Oscar Carlo Rambaldi, il creatore di King Kong ed E.T.
La televisione ha soprattutto realizzato letture e commenti critici del poema, tra cui merita citare soprattutto la trasmissione della RAI andata in onda nel 1989 e che proponeva la lettura dei canti della Commedia da parte di alcuni grandi attori (G. Albertazzi, G. Sbragia e E. M. Salerno, che lessero rispettivamente Inferno, Purgatorio e Paradiso), ognuna preceduta da un'introduzione di G. Petrocchi e seguita dal commento di alcuni importanti critici italiani. Da ricordare anche la trasmissione Gassman legge Dante, andata in onda su Rai 1 nell'autunno 1993 per la regia di Rubino Rubini, in cui il grande attore ha recitato 34 canti dell'Inferno, 4 del Purgatorio e 2 del Paradiso premettendo ad ognuno un breve commento (il programma, complice una collocazione di palinsesto non ideale, non realizzò grandi ascolti; ► VIDEO: Gassman legge Dante). In anni più vicini a noi ha invece riscosso un notevole successo di pubblico Tutto Dante di Roberto Benigni, nato nel 2006 dapprima come spettacolo teatrale e dedicato alla lettura e al commento di singoli canti della Commedia, successivamente approdato in TV e trasmesso da RAI 1 con notevoli ascolti, mentre già nel 2002 alla lettura del canto XXXIII del Paradiso era stata dedicata una prima serata (sempre su RAI 1) premiata da un grande successo di pubblico. Per quanto riguarda le trasposizioni teatrali, si può citare l'opera musicale La divina commedia che ha debuttato a Roma nel 2007 e che si è servita per la realizzazione scenica degli effetti speciali del premio Oscar Carlo Rambaldi, il creatore di King Kong ed E.T.