Torquato Tasso
Lettera a Scipione Gonzaga
(Lettere)
Scritta nel maggio 1579 a pochi mesi dall'inizio della prigionia a Sant'Anna e indirizzata a Scipione Gonzaga, amico del poeta nonché insigne letterato del tardo Cinquecento, la lettera è un disperato appello di Tasso che chiede al suo illustre protettore di intercedere presso alcuni principi (specie il duca di Savoia, da cui già aveva sperato un aiuto) affinché rendano possibile la sua liberazione e pongano fine a uno stato di miseria e di terribile abbrutimento fisico e psicologico. Interessante l'accenno allusivo a una donna amata da Tasso e che, se lo vedesse in tali condizioni, avrebbe pietà di lui, nella quale si può forse riconoscere Eleonora d'Este, la sorella del duca Alfonso.
► PERCORSO: La Controriforma
► AUTORE: Torquato Tasso
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► AUTORE: Torquato Tasso
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Oi me! misero me! Io aveva disegnato [1] di scrivere, oltre due poemi eroici di nobilissimo ed onestissimo argomento, quattro tragedie, de le quali aveva già formata la favola, e molte opere in prosa, e di materia bellissima e giovevolissima a la vita de gli uomini; e d’accoppiare con la filosofia l’eloquenza in guisa che [2] rimanesse di me eterna memoria nel mondo: e m’aveva proposto un fine di gloria e d’onore altissimo. Ma ora, oppresso dal peso di tante sciagure, ho messo in abbandono ogni pensiero di gloria e d’onore; ed assai felice d’esser mi parrebbe se senza sospetto potessi trarmi la sete da la quale continuamente son travagliato, e se, com’uno di questi uomini ordinari [3], potessi in qualche povero albergo menar la mia vita in libertà; se non sano, che più non posso essere, almeno non così angosciosamente infermo; se non onorato, almeno non abbominato [4]; se non con le leggi de gli uomini, con quelle de’ bruti almeno, che ne’ fiumi e ne’ fonti liberamente spengono la sete, de la quale (e mi giova il replicarlo) tutto sono acceso. Né già tanto temo la grandezza del male, quanto la continuazione c’orribilmente dinanzi al pensiero mi s’appresenta: massimamente conoscendo ch’in tale stato non sono atto né a lo scrivere né a l’operare. E ’l timor di continua prigionia molto accresce la mia mestizia; e l’accresce l’indegnità che mi conviene usare; e lo squallore de la barba e de le chiome e de gli abiti, e la sordidezza e ’l succidume [5] fieramente m’annoiano; e sovra tutto m’affligge la solitudine, mia crudele e natural nimica, da la quale anco nel mio buono stato era talvolta così molestato, che in ore intempestive m’andava cercando o andava ritrovando compagnia. E son sicuro, che se colei [6] che così poco a la mia amorevolezza ha corrisposto, in tale stato ed in tale afflizione mi vedesse, avrebbe alcuna compassione di me. Or quanto più crederò, generosissimo signore, che voi, udendo le mie miserie, siate per averne alcuna pietà? Sovvengavi [7] che l’amico deve amare anzi [8] l’utile e l’onor de l’amico, che ’l proprio utile e che ’l proprio onore (parlo di quell’onore di cui son vaghi gli ambiziosi), e che solo per sé maggior parte de l’onestà deve desiderare: ma è onesto che m’aiutiate; ed aiutandomi, di tutta onestà sarete possessore. E se preporrete questa onestà al vostro utile, non solo a’ principi presenti meriterete d’essere anteposto, ma a quel Scipione [9], al qual così nel nome come nel valore v’assomigliate: ché già non merita lode Scipione d’aver preposto il fratello a l’amico, quando, ricercando l’uno e l’altro la provincia de l’Asia, egli, perchè non a Lelio ma a Scipione suo minor fratello fosse data, s’offerse di voler seguirlo per legato ne la guerra. E forse non fu quel Scipione famoso ne l’amicizia, perché la gloriosa e perfetta amicizia fu fra l’Emiliano Scipione e fra Lelio cognominato il Saggio, non tra gli avi loro, che furono nondimeno grandissimi amici. [10] Ma potrete affermar ragionevolmente, che se voi siete Scipione, io non son però Lelio; e che s’amico vi sono stato, io non merito d’esser più tale. Né io voglio negare che in gran parte il vero non dichiate. Ma voi anco non potete negare di non avermi, volendomi giovare, gravemente offeso, e di non aver porta alcuna occasione ed alcuna quasi necessità a i miei errori; sì che sarebbe opera degna de la vostra virtù, che se contra il vostro volere m’avete nociuto, volontariamente mi giovaste, e che non voleste che i miei falli e la vostra (siami lecito a dirlo) poco considerata amorevolezza fosse stata materia de la mia miseria e de’ vostri comodi; i quali io desidero anco in parte col mio discomodo, ma non già con alcuna mia infelicità. E s’io Lelio non sono, posso col vostro favore divenire. E più gloria è nel regno de gli eletti D’un penitente core, e più si stima Che di novantanove altri perfetti. [11] Vi prego dunque, illustrissimo signore, che come l’ape, cogliendo da più fiori l’umor più dolce di ciascuno e lasciando le parti più grosse, ne forma il mele [12]; così voi, raccogliendo dal favor del duca di Savoia, e del duca e del principe di Mantova [13], e del signor don Pietro [14], e de gli altri principi tutti, e particolarmente de’ miei signori [15], se non tutto, qualche parte almeno di quel che c’è di buono, e lasciando il cattivo tutto, o almeno grandissima parte d’esso; formiate il mele de la vostra grazia, che con mio piacere e contentezza, e con vostra sodisfazione ed onore sia gustato da me, dopo il fele e l’assenzio e ’l veleno di tanti affanni, che così longamente ho bevuto, e c’ora di continuo beo in questa dolorosa prigione. E se non mele, ma ambrosia o nettare volete porgermi, potrete innalzarvi più su al favor d’alcun sovrano principe, e le mie presenti e le mie passate amaritudini raddolcirne. Di prigione in Sant’Anna, questo mese di maggio, l’anno 1579. |
[1] Avevo progettato. [2] In modo che. [3] Uomini umili, non nobili. [4] Non disprezzato. [5] Il sudiciume. [6] Probabile accenno a Eleonora d'Este, sorella del duca Alfonso II. [7] Ricordatevi. [8] Prima che. [9] Scipione l'Africano (235-183 a.C.), che volle affidare il comando nella guerra contro Antioco al fratello Lucio. [10] Scipione Emiliano e Gaio Lelio, quest'ultimo protagonista del dialogo ciceroniano Laelius de amicitia. [11] Petrarca, Canzoniere 26, 11-14 (la citazione è imperfetta). [12] Il miele. [13] Guglielmo Gonzaga, suocero di Alfonso II d'Este. [14] Pietro de' Medici, figlio del duca Cosimo I. [15] Gli Este, signori di Ferrara. |
Interpretazione complessiva
- Nel passo, che riproduce le righe finali della lunga lettera, Tasso si rivolge all'amico Scipione Gonzaga con toni drammatici e risentiti, lamentando l'abbrutimento fisico e psicologico cui è costretto nella dura prigionia a Sant'Anna, lo squallore in cui si trova, nonché la sete che lo tormenta giorno e notte senza che lui possa estinguerla (era uno dei disturbi di cui soffriva durante le sue terribili crisi psichiche). Il poeta si dice disperato di poter riacquistare la salute mentale e si dichiara impotente a realizzare i suoi progetti letterari, augurandosi di poter solamente riacquistare la libertà e vivere come un uomo qualunque, lontano dallo splendore delle corti e non "abbominato" da tutti gli altri. Tasso fa riferimento anche a una donna, di cui non precisa l'identità, che non avrebbe corrisposto il suo amore e che ora, se lo vedesse in simili condizioni, avrebbe pietà di lui (sembra un'allusione a Eleonora d'Este, la sorella minore del duca Alfonso di cui, si disse, Tasso fu innamorato e alla quale dedicò alcune rime). Tasso fa appello all'antica amicizia di Scipione, che fu anche tra i "revisori" della Gerusalemme liberata durante la sua travagliata gestazione, e manifesta un certo risentimento per il contegno del Gonzaga che, a suo dire, dovrebbe anteporre il loro legame al proprio "utile" e intercedere in suo favore presso la corte estense per sollecitare la sua liberazione, cosa che avrebbe sinora fatto in modo troppo tiepido. Va ricordato che Scipione sarà tra gli artefici della liberazione di Tasso nel 1586, quando il poeta verrà affidato al cognato di Alfonso II, Vincenzo Gonzaga.
- Tasso usa un duplice riferimento classico per sottolineare la sua amicizia con Scipione, ovvero Scipione l'Africano di cui l'amico condivide il nome e il valore (evidente captatio benevolentiae) ma che potrebbe superare in quanto il vincitore di Annibale preferì il fratello Lucio a Lelio nel comando della guerra siriaca, mentre molto più uniti furono Scipione Emiliano e Lelio Sapiente, la cui amicizia fu celebrata da Cicerone nel dialogo Laelius de amicitia. La lettera è fitta di echi letterari e in questo breve brano c'è anche la citazione del sonetto 26 di Petrarca (Più di me lieta non si vede a terra), per dire che nel regno dei cieli è più stimato il cuore di chi si pente che altri novantanove già santi (Tasso chiede scusa all'amico dei suoi "falli", pur mostrandosi come detto risentito nei suoi confronti). Interessante anche la metafora dell'ape che, suggendo il nettare da vari fiori, ne produce il miele, che ricorda vagamente le discussioni degli umanisti del XV sec. sull'imitazione classica.