Niccolò Machiavelli
L'esempio di Cesare Borgia
(Il principe, VII)
Il capitolo è strettamente legato al precedente, in cui l'autore ha proposto esempi di condottieri divenuti sovrani con virtù e armi proprie, mentre qui è descritta la parabola di Cesare Borgia (il famoso duca Valentino) che creò un proprio dominio aiutato dalla fortuna e dall'appoggio del padre, papa Alessandro VI: l'azione del personaggio, che Machiavelli conobbe personalmente, è in generale elogiata, ma il duca sbagliò nell'affidarsi totalmente alla buona sorte e non previde le circostanze sfavorevoli che potevano causare la sua rovina, come la morte del padre e l'elezione a nuovo pontefice di Giulio II, nemico giurato della sua famiglia. In tutto il passo è evidente l'ammirazione dell'autore per la figura del Valentino, che pure si macchiò di gravi delitti, e traspare il grande interesse verso i principati "nuovi", che vengono cioè creati dal nulla grazie alle conquiste di un valente condottiero che è abile a forgiare il proprio destino.
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Niccolò Machiavelli
► OPERA: Il principe
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Niccolò Machiavelli
► OPERA: Il principe
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CAPITOLO VII
De principatibus novis qui alienis armis et fortuna acquiruntur. [1] Coloro e’ quali solamente per fortuna diventano, di privati, principi, con poca fatica diventano, ma con assai si mantengono; e non hanno alcuna difficultà fra via, perché vi volano; ma tutte le difficultà nascono quando e’ sono posti. [2] E questi tali sono quando è concesso ad alcuno uno stato o per danari o per grazia di chi lo concede: come intervenne a molti in Grecia, nelle città di Ionia e di Ellesponto, dove furono fatti principi da Dario, acciò [3] le tenessino per sua securtà e gloria; come erano fatti ancora quegli imperadori che, di privati, per corruzione de’ soldati, pervenivano allo imperio. Questi stanno semplicemente in sulla voluntà e fortuna di chi lo ha concesso loro, che sono dua cose volubilissime e instabili; e non sanno e non possono tenere quel grado. Non sanno, perché, se non è uomo di grande ingegno e virtù, non è ragionevole che, sendo sempre vissuto in privata fortuna [4], sappi comandare; non possono, perché non hanno forze che li possino essere amiche e fedeli. Di poi, gli stati che vengano subito [5], come tutte le altre cose della natura che nascono e crescono presto, non possono avere le barbe e corrispondenzie loro [6]; in modo che el primo tempo avverso le spegne; se già quelli tali, come è detto, che sì de repente sono diventati principi, non sono di tanta virtù che quello che la fortuna ha messo loro in grembo, e’ sappino subito prepararsi a conservarlo, e quelli fondamenti che gli altri hanno fatti avanti che diventino principi, li faccino poi. Io voglio all’uno e all’altro di questi modi detti, circa il diventare principe per virtù o per fortuna, addurre dua esempli stati ne’ dì della memoria nostra [7]: e questi sono Francesco Sforza [8] e Cesare Borgia. [9] Francesco, per li debiti mezzi e con una grande sua virtù, di privato diventò duca di Milano; e quello che con mille affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne. Dall’altra parte Cesare Borgia, chiamato dal vulgo duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna del padre, e con quella lo perdé; nonostante che per lui [10] si usassi ogni opera e facessi tutte quelle cose che per uno prudente e virtuoso uomo si doveva fare per mettere le barbe sue in quelli stati che l’arme e fortuna di altri gli aveva concessi. Perché, come di sopra si disse, chi non fa e’ fondamenti prima, li potrebbe con una gran virtù farli poi, ancora che [11] si faccino con disagio dello architettore e periculo dello edifizio. Se, adunque, si considerrà tutti e’ progressi del duca, si vedrà lui aversi fatti gran fondamenti alla futura potenzia; li quali non iudico superfluo discorrere, perché io non saprei quali precetti mi dare migliori a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sua: e se gli ordini suoi non li profittorono [12], non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna. Aveva Alessandro VI, nel volere fare grande el duca suo figliuolo, assai difficultà presenti e future. Prima, e’ non vedeva via di poterlo fare signore di alcuno stato che non fussi stato di Chiesa; e volgendosi a tôrre [13] quello della Chiesa, sapeva che el duca di Milano e Viniziani non gnene consentirebbano [14]; perché Faenza e Rimino erano di già sotto la protezione de’ Viniziani. Vedeva, oltre di questo, l’arme di Italia [15], e quelle in spezie di chi si fussi possuto servire, essere in le mani di coloro che dovevano temere la grandezza del papa: e però non se ne poteva fidare, sendo tutte negli Orsini e Colonnesi e loro complici. Era, adunque, necessario che si turbassino quegli ordini, e disordinare li stati di coloro per potersi insignorire securamente di parte di quelli. Il che li fu facile, perché trovò e’ Viniziani che, mossi da altre cagioni, si erono volti a fare ripassare e’ Franzesi in Italia; il che non solamente non contradisse, ma lo fe’ più facile con la resoluzione del matrimonio antiquo del re Luigi. [16] Passò, adunque, il re in Italia con lo aiuto de’ Viniziani e consenso di Alessandro; né prima fu in Milano, che il papa ebbe da lui gente per la impresa di Romagna; la quale gli fu consentita per la reputazione del re. Acquistata, adunque, el duca la Romagna, e sbattuti e’ Colonnesi, volendo mantenere quella e procedere più avanti, lo impedivano dua cose: l’una, l’arme sua che non gli parevano fedeli, l’altra, la volontà di Francia: cioè che l’arme Orsine [17], delle quali s’era valuto, gli mancassino sotto, e non solamente l’impedissino lo acquistare ma gli togliessino lo acquistato, e che il re ancora non li facessi el simile. Degli Orsini ne ebbe uno riscontro quando dopo la espugnazione di Faenza, assaltò Bologna, che li vidde andare freddi in quello assalto: e circa il re, conobbe l’animo suo quando, preso il ducato di Urbino, assaltò la Toscana; dalla quale impresa el re lo fece desistere. Onde che il duca deliberò non dependere più dalle arme e fortuna di altri. E la prima cosa, ’ndebolì le parti Orsine e Colonnese in Roma; perché tutti gli aderenti loro che fussino gentili uomini, se li guadagnò, faccendoli suoi gentili uomini e dando loro grandi provvisioni [18]; e onorolli, secondo le loro qualità, di condotte e di governi; in modo che in pochi mesi negli animi loro l’affezione delle parti si spense, e tutta si volse nel duca. Dopo questa, aspettò la occasione di spegnere e’ capi Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna; la quale li venne bene, e lui la usò meglio. Perché, avvedutisi gli Orsini, tardi, che la grandezza del duca e della Chiesa era la loro ruina, feciono una dieta alla Magione, nel Perugino [19]; da quella nacque la rebellione di Urbino e li tumulti di Romagna e infiniti periculi del duca; li quali tutti superò con lo aiuto de’ Franzesi. E ritornatogli la reputazione, né si fidando di Francia né di altre forze esterne, per non le avere a cimentare, si volse agli inganni. E seppe tanto dissimulare l’animo suo, che gli Orsini medesimi, mediante el signor Paulo [20], si riconciliorono seco; con il quale el duca non mancò d’ogni ragione di offizio per assicurarlo, dandogli danari, veste e cavalli; tanto che la simplicità loro li condusse a Sinigaglia nelle sue mani. [21] Spenti, adunque, questi capi, e ridotti li partigiani loro amici sua, aveva il duca gittati assai buoni fondamenti alla potenzia sua, avendo tutta la Romagna con il ducato di Urbino, parendogli, massime [22], aversi acquistata amica la Romagna e guadagnatosi tutti quelli popoli, per avere cominciato a gustare el bene essere loro. E perché questa parte è degna di notizia e da essere imitata da altri, non la voglio lasciare indrieto. Preso che ebbe il duca la Romagna, e trovandola suta comandata [23] da signori impotenti, li quali più presto avevano spogliato e’ loro sudditi che corretti, e dato loro materia di disunione, non di unione, tanto che quella provincia era tutta piena di latrocinii, di brighe e di ogni altra ragione di insolenzia, iudicò fussi necessario, a volerla ridurre pacifica e obediente al braccio regio, darli buon governo. Però vi prepose messer Remirro de Orco [24], uomo crudele ed espedito [25], al quale dette pienissima potestà. Costui in poco tempo la ridusse pacifica e unita, con grandissima reputazione. Di poi iudicò el duca non essere necessario sì eccessiva autorità, perché dubitava non [26] divenissi odiosa; e preposevi uno iudicio civile nel mezzo della provincia, con uno presidente eccellentissimo, dove ogni città vi aveva lo avvocato suo. E perché conosceva le rigorosità passate averli generato qualche odio, per purgare gli animi di quelli populi e guadagnarseli in tutto, volle mostrare che, se crudeltà alcuna era seguita, non era nata da lui, ma dalla acerba natura del ministro. E presa sopr’a questo occasione, lo fece a Cesena, una mattina, mettere in dua pezzi in sulla piazza, con uno pezzo di legno e uno coltello sanguinoso a canto. La ferocità del quale spettaculo fece quelli populi in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi. Ma torniamo donde noi partimmo. Dico che, trovandosi il duca assai potente e in parte assicurato de’ presenti periculi, per essersi armato a suo modo e avere in buona parte spente quelle arme che, vicine, lo potevano offendere, gli restava, volendo procedere con lo acquisto, il respetto del re di Francia; perché conosceva come dal re, il quale tardi si era accorto dello errore suo, non li sarebbe sopportato. [27] E cominciò per questo a cercare di amicizie nuove, e vacillare con Francia, nella venuta che feciono gli Franzesi verso el regno di Napoli contro agli Spagnuoli che assediavono Gaeta. E l’animo suo era assicurarsi di loro; il che gli sarebbe presto riuscito, se Alessandro viveva. E questi furono e’ governi suoi quanto alle cose presenti. Ma quanto alle future, lui aveva a dubitare, in prima, che uno nuovo successore alla Chiesa non li fussi amico e cercassi torli [28] quello che Alessandro gli aveva dato. Di che pensò assicurarsi in quattro modi: prima, di spegnere tutti e’ sangui [29] di quelli signori che lui aveva spogliati, per tôrre al papa quella occasione; secondo, di guadagnarsi tutti e’ gentili uomini di Roma, come è detto, per potere con quelli tenere el papa in freno; terzo, ridurre el Collegio [30] più suo che poteva; quarto, acquistare tanto imperio, avanti che il papa morissi, che potessi per se medesimo resistere a uno primo impeto. Di queste quattro cose, alla morte di Alessandro ne aveva condotte tre; la quarta aveva quasi per condotta; perché de’ signori spogliati ne ammazzò quanti ne possé aggiugnere [31], e pochissimi si salvorono, e’ gentili uomini romani si aveva guadagnati, e nel Collegio aveva grandissima parte: e, quanto al nuovo acquisto, aveva disegnato diventare signore di Toscana, e possedeva di già Perugia e Piombino, e di Pisa aveva presa la protezione. E come non avessi avuto ad avere respetto a Francia (ché non gliene aveva ad avere più, per essere di già e’ Franzesi spogliati del Regno dagli Spagnoli, di qualità che ciascuno di loro era necessitato comperare l’amicizia sua), e’ saltava in Pisa. Dopo questo, Lucca e Siena cedeva subito, parte per invidia de’ Fiorentini, parte per paura; e’ Fiorentini non avevano remedio. Il che se li fusse riuscito (che gli riusciva l’anno medesimo che Alessandro morì), si acquistava tante forze e tanta reputazione,che per sé stesso si sarebbe retto, e non sarebbe più dependuto dalla fortuna e forze di altri, ma dalla potenzia e virtù sua. Ma Alessandro morì [32] dopo cinque anni ch’egli aveva cominciato a trarre fuora la spada. Lasciollo con lo stato di Romagna solamente assolidato, con tutti gli altri in aria, intra dua potentissimi eserciti inimici [33], e malato a morte. Ed era nel duca tanta ferocia e tanta virtù e sì bene conosceva come gli uomini si hanno a guadagnare o perdere, e tanto erano validi e’ fondamenti che in sì poco tempo si aveva fatti, che, se lui non avessi avuto quegli eserciti addosso, o lui fussi stato sano, arebbe retto a ogni difficultà. E ch’e’ fondamenti sua fussino buoni, si vidde: ché la Romagna lo aspettò più di uno mese; in Roma, ancora che mezzo vivo, stette sicuro, e benché Baglioni, Vitelli e Orsini venissino in Roma, non ebbono séguito contro di lui: possé fare, se non chi e’ volle papa, almeno che non fussi chi non voleva. Ma se nella morte di Alessandro lui fussi stato sano, ogni cosa gli era facile. E lui mi disse, ne’ dì che fu creato Iulio II [34], che aveva pensato a ciò che potessi nascere, morendo el padre, e a tutto aveva trovato remedio, eccetto che non pensò mai, in su la sua morte, di stare ancora lui per morire. Raccolte io adunque tutte le azioni del duca, non saprei reprenderlo; anzi mi pare, come ho fatto, di preporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con l’arme d’altri sono ascesi allo imperio. Perché lui avendo l’animo grande e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimenti, e solo si oppose alli sua disegni la brevità della vita di Alessandro e la malattia sua. Chi, adunque, iudica necessario nel suo principato nuovo assicurarsi de’ nimici, guadagnarsi degli amici, vincere o per forza o per fraude, farsi amare e temere da’ populi, seguire e reverire da’ soldati, spegnere quelli che ti possono o debbono offendere, innovare con nuovi modi gli ordini antiqui, essere severo e grato, magnanimo e liberale, spegnere la milizia infedele, creare della nuova, mantenere le amicizie de’ re e de’ principi in modo che ti abbino o a beneficare con grazia o offendere con respetto, non può trovare e’ più freschi esempli che le azioni di costui. Solamente si può accusarlo nella creazione di Iulio pontefice, nella quale lui ebbe mala elezione [35]; perché, come è detto, non potendo fare uno papa a suo modo, e’ poteva tenere che uno non fussi papa; e non doveva mai consentire al papato di quelli cardinali che lui avessi offesi, o che, diventati papi, avessino ad avere paura di lui. Perché gli uomini offendono o per paura o per odio. Quelli che lui aveva offesi erano, infra gli altri, San Piero ad Vincula, Colonna, San Giorgio, Ascanio [36]; tutti gli altri, divenuti papi, aveano a temerlo, eccetto Roano e li Spagnuoli: questi per coniunzione e obligo; quello per potenzia, avendo coniunto seco il regno di Francia. Pertanto el duca, innanzi a ogni cosa, doveva creare papa uno spagnolo, e, non potendo, doveva consentire che fussi Roano e non San Piero ad Vincula. E chi crede che ne’ personaggi grandi e’ benefizii nuovi faccino dimenticare le iniurie vecchie, s’inganna. Errò, adunque, el duca in questa elezione; e fu cagione dell’ultima ruina sua. |
1] Sui principati nuovi che si acquistano con armi altrui e fortuna.
[2] Quando hanno raggiunto il potere. [3] Affinché. [4] Essendo sempre stati privati cittadini. [5] Gli stati creati dal nulla, ex novo. [6] Non possono avere radici e solide fondamenta. [7] Proporre due esempi verificatisi nei tempi recenti. [8] Francesco Sforza (1401-1466), capitano di ventura, divenne duca di Milano. [9] Detto il Valentino, era originario della città di Valencia in Spagna e figlio naturale di papa Alessandro VI. [10] Da parte sua. [11] Benché. [12] E se i suoi provvedimenti non sortirono gli effetti sperati. [13] A prendere. [14] Non glielo avrebbero consentito. [15] Gli eserciti, le soldatesche. [16] Alessandro VI annullò il matrimonio di Luigi XII e in seguito il re francese scese in Italia (1499-1500), conquistando il ducato di Milano. [17] Le milizie degli Orsini. [18] Incarichi politici e militari. [19] Il 9 ott. 1502. [20] Paolo Orsini, riconciliatosi col Valentino a Imola nel 1502. [21] A Senigallia Cesare Borgia fece assassinare i principali suoi avversari politici. [22] Soprattutto. [23] Capendo che era stata governata. [24] Ramiro de Lorqua, che fu poi fatto uccidere il 26 dic. 1502. [25] Dai metodi spicci. [26] Temeva che. [27] Non sarebbe stato tollerato. [28] Di togliergli. [29] I discendenti. [30] Il collegio cardinalizio, che avrebbe eletto il nuovo papa. [31] Tutti quelli che poté raggiungere. [32] Il 18 ag. 1503. [33] Gli Spagnoli, che assediavano Gaeta, e i Francesi, vicini a Roma. [34] Nei giorni dell'elezione di papa Giulio II. [35] Nella quale lui giocò male le sue carte. [36] Si tratta, nell'ordine, di Giulio II della Rovere, Giovanni Colonna, Raffaele Riario, Ascanio Sforza. |
Interpretazione complessiva
- Il cap. VII forma una sorta di "dittico" con il precedente, il VI, in cui l'autore aveva proposto alcuni "grandissimi esempli" di condottieri del passato (Mosè, Ciro il Grande, Romolo, Teseo) giunti al potere con armi proprie e virtù, mentre in questo passo è analizzato il caso opposto di privati cittadini diventati principi con armi altrui e l'aiuto della fortuna: la riflessione di Machiavelli è incentrata soprattutto sulla figura di Cesare Borgia (1475-1507), il duca Valentino figlio illegittimo di papa Alessandro VI e capace di creare dal nulla un nuovo Stato tra Urbino e la Romagna, con l'aiuto del padre che gli fornì inizialmente la forza militare necessaria. Il Valentino, che Machiavelli conobbe personalmente e vide all'opera nella sua azione di governo, è un personaggio che affascina fortemente l'autore proprio per la capacità dimostrata di creare ex novo un proprio dominio territoriale e diventare artefice del proprio destino, in maniera piuttosto inedita nella realtà politica dell'Europa e in accordo con la nuova mentalità umanistica che riconosceva all'uomo la possibilità di costruire la propria fortuna. La sua parabola di ascesa e caduta, quest'ultima dovuta alla "malignità di fortuna" più che ad errori compiuti dal personaggio, aveva caratteri letterari e "tragici" che spingono Machiavelli a dedicargli il capitolo più ampio del Principe e a proporlo come modello positivo per l'azione politica, benché il Valentino sia stato autore di molti efferati delitti (ciò rientra nella visione dello scrittore per cui, come spiegherà nei capp. XV ss. del trattato, il sovrano non può sempre comportarsi rettamente; ► TESTO: La verità effettuale). Il personaggio del Valentino viene di fatto contrapposto a quello di Francesco Sforza, il capitano di ventura che divenne duca di Milano e che secondo Machiavelli si basò sulla virtù e non sulla fortuna, anche se alla fine il bilancio che egli stila dell'azione politico-militare del Borgia è sostanzialmente positivo.
- Il duca Valentino (detto così perché originario, come il padre Alessandro VI, della città spagnola di Valencia) è un eccellente esempio secondo l'autore di condottiero che, dapprima, è aiutato dalla fortuna e arriva facilmente al potere, poi però è abile a gettare solide basi ai suoi domini e a consolidare il proprio potere: Cesare è infatti supportato dal padre che gli fornisce l'aiuto militare degli Orsini e l'appoggio del re di Francia per consentirgli di invadere le Romagne e creare il proprio Stato, tuttavia in seguito si adopera per fornirsi di soldatesche proprie che gli siano fedeli (in accordo col pensiero di Machiavelli, secondo cui le milizie mercenarie sono inaffidabili; ► TESTO: Le milizie mercenarie) e stabilisce una rete di alleanze politiche che stabilizzano il suo potere, accingendosi a nuove conquiste e non dipendendo più dalla fortuna che gli ha arriso inizialmente. Secondo l'attenta analisi dello scrittore il Valentino sarebbe certo riuscito ad ampliare i suoi domini anche in Toscana a danno di Firenze, se il padre Alessandro VI non fosse morto improvvisamente nel 1503 (si disse avvelenato) e lui fosse riuscito a manovrare efficacemente l'elezione del nuovo pontefice, facendo salire al soglio pontificio un suo alleato o almeno uno che non gli fosse nemico; invece venne in seguito eletto Giulio II della Rovere, nemico giurato dei Borgia, e per colmo di sfortuna Cesare era gravemente malato nei giorni dell'elezione papale, quindi non poté far molto per opporsi a questa scelta. Secondo Machiavelli questo fu l'unico e più grave errore del Valentino, poiché si fidò delle promesse di Giulio II (che si era impegnato a sostenere il suo Stato nelle Romagne) e poi venne osteggiato dal papa, che lo fece imprigionare e causò l'ultima sua disfatta. L'esempio del Valentino anticipa quanto Machiavelli dirà circa il rapporto tra virtù e fortuna, poiché Cesare avrebbe dovuto prevedere ogni eventualità riguardo alla morte del padre e premunirsi per tempo, invece la malasorte lo colse impreparato e a causa dell'elezione di papa della Rovere perse tutti i territori conquistati in precedenza (non costruì "argini" efficaci a frenare l'esondazione del fiume, cui nel cap. XXV Machiavelli paragonerà l'azione della sorte; ► TESTO: Il principe e la fortuna).
- Cesare Borgia viene proposto dall'autore come un modello positivo di principe e di sovrano, benché il personaggio si sia macchiato di gravi colpe e di una serie di atrocità che tuttavia, in quanto tali, vengono giudicate come necessarie a rafforzare la sua posizione: un primo esempio è il tranello in cui il Valentino attira nel dicembre 1502 i suoi nemici a Senigallia, fingendo di volersi riappacificare con loro e facendoli in realtà assassinare, fatto che suscitò grande scalpore all'epoca e di cui Machiavelli fu in un certo senso testimone, essendo lui presente a Senigallia come rappresentante della Repubblica di Firenze (di ciò scriverà un breve trattatello dal titolo Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino ...). L'azione del Borgia, pur proditoria e delittuosa, è comunque elogiata da Machiavelli poiché in tal modo egli si liberò dei suoi oppositori e spianò la strada al consolidamento del suo potere, quindi è già un esempio di quei comportamenti immorali ma politicamente necessari che verranno descritti nei capp. XV-XXIII del trattato, quelli più controversi e scandalosi dell'opera. Un secondo esempio del pragmatismo politico del Valentino è la designazione quale governatore in Romagna di Ramiro de Lorqua, condottiero al suo servizio e noto per i suoi metodi crudeli e spietati, il quale dapprima esercita un duro dominio sul nuovo Stato e riporta l'ordine tra la popolazione, poi (quando è evidente che la sua figura è odiosa ai signorotti locali e potrebbe suscitare malcontento) viene fatto uccidere dallo stesso Borgia, che ne espone il corpo tagliato a pezzi sulla piazza di Cesena. In tal modo il duca ottiene il duplice scopo di pacificare la regione e di cattivarsi l'appoggio dei feudatari locali, oltre a dare un macabro esempio di cosa possa accadere a chi, in qualche modo, ne ostacola l'azione politica. Da ricordare ancora che la strage di Senigallia fu attuata per mano di Miguel Corella, celebre sicario spagnolo amico e collaboratore di Borgia (noto anche come Micheletto) cui Machiavelli proporrà di affidare il comando delle milizie cittadine arruolate dalla Repubblica di Firenze nel 1506, anche se la cosa non avrà un seguito (il Corella verrà a sua volta assassinato nel 1508, in oscure circostanze).