Niccolò Machiavelli
Il principe e la fortuna
(Il principe, XXV)
Il capitolo è il seguito ideale del XXIV, in cui l'autore ha spiegato che i sovrani italiani hanno perso i loro Stati per "ignavia" e non a causa della fortuna, e qui essa viene definita come l'azione del caso che influisce solo su metà delle vicende umane, mentre per il resto il principe può opporre ad essa la "virtù" che consiste nella capacità di prevenire ogni evenienza e di adattarsi alle diverse circostanze mutando il proprio atteggiamento. Il passo è importante perché segna la distanza tra Machiavelli e la cultura medievale, in cui la fortuna veniva vista come espressione della volontà divina e del tutto separata dall'azione umana.
► PERCORSO: Il Rinascimento
► AUTORE: Niccolò Machiavelli
► OPERA: Il principe
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► AUTORE: Niccolò Machiavelli
► OPERA: Il principe
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CAPITOLO XXV
Quantum fortuna in rebus humanis possit, et quomodo illi sit occurrendum. [1] È non mi è incognito [2] come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio, che gli uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo potrebbono iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose [3], ma lasciarsi governare alla sorte. Questa opinione è suta [4] più creduta ne’ nostri tempi, per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuora di ogni umana coniettura. A che pensando, io, qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro. [5] Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam [6] lei ne lasci governare l’altra metà, o presso [7], a noi. E assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s’adirano [8], allagano e’ piani, ruinano gli alberi e gli edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell’altra; ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. [9] E benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti, e con ripari e argini, in modo che, crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né si licenzioso né si dannoso. Similmente interviene della fortuna; la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle [10]; e quivi volta li sua impeti dove la sa che non sono fatti gli argini e li ripari a tenerla. E se voi considerrete l’Italia, che è la sedia [11] di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo: che, s’ella fussi riparata da conveniente virtù, come la Magna [12], la Spagna e la Francia, o questa piena non arebbe fatte le variazioni grandi che ha, o la non ci sarebbe venuta. E questo voglio basti avere detto quanto allo opporsi alla fortuna, in universali. [13] Ma, restringendomi più a’ particulari, dico come si vede oggi questo principe felicitare, e domani ruinare, sanza averli veduto mutare natura o qualità alcuna. Il che credo che nasca, prima, dalle cagioni che si sono lungamente per lo adrieto discorse, cioè che quel principe che si appoggia tutto in sulla fortuna, rovina, come quella varia. Credo, ancora, che sia felice quello che riscontra el modo del procedere suo con le qualità de’ tempi [14], e similmente sia infelice quello che con il procedere suo si discordano e’ tempi. Perché si vede gli uomini, nelle cose che li conducono al fine quale ciascuno ha innanzi, cioè glorie e ricchezze, procedervi variamente, l’uno con respetto [15], l’altro con impeto [16], l’uno per violenzia, l’altro con arte; l’uno per pazienzia, l’altro con il suo contrario: e ciascuno con questi diversi modi vi può pervenire. Vedesi ancora dua respettivi [17], l’uno pervenire al suo disegno, l’altro no, e similmente dua equalmente felicitare con dua diversi studii, sendo l’uno respettivo e l’altro impetuoso: il che non nasce da altro, se non dalla qualità de’ tempi, che si conformano o no col procedere loro. Di qui nasce quello ho detto, che dua, diversamente operando, sortiscono el medesimo effetto; e dua equalmente operando, l’uno si conduce al suo fine, e l’altro no. Da questo ancora depende la variazione del bene; perché, se uno che si governa con respetti e pazienzia, e’ tempi e le cose girono in modo che il governo suo sia buono, e’ viene felicitando; ma, se li tempi e le cose si mutano, e’ rovina, perché non muta modo di procedere. Né si truova uomo sì prudente che si sappi accomodare a questo; sì perché non si può deviare da quello a che la natura lo inclina; sì etiam perché, avendo sempre uno prosperato camminando per una via, non si può persuadere partirsi da quella. E però l’uomo respettivo, quando egli è tempo di venire allo impeto, non lo sa fare, donde rovina; che, se si mutassi di natura con li tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna. Papa Iulio II [18] procedé in ogni sua cosa impetuosamente; e trovò tanto e’ tempi e le cose conforme a quello suo modo di procedere, che sempre sortì felice fine. Considerate la prima impresa che fe’ di Bologna, vivendo ancora messer Giovanni Bentivogli. [19] E' Viniziani non se ne contentavano [20]; el re di Spagna, quel medesimo; con Francia aveva ragionamenti di tale impresa; e nondimanco, con la sua ferocia e impeto, si mosse personalmente a quella espedizione. La quale mossa fece stare sospesi e fermi Spagna e Viniziani; quelli per paura, e quell’altro per il desiderio aveva di recuperare tutto el regno di Napoli; e dall’altro canto si tirò drieto el re di Francia, perché, vedutolo quel re mosso, e desiderando farselo amico per abbassare e’ Viniziani, iudicò non poterli negare le sua gente sanza iniuriarlo manifestamente. Condusse, adunque, Iulio, con la sua mossa impetuosa, quello che mai altro pontefice, con tutta la umana prudenzia, arebbe condotto: perché, se egli aspettava di partirsi da Roma con le conclusione ferme e tutte le cose ordinate, come qualunque altro pontefice arebbe fatto, mai li riusciva; perché il re di Francia arebbe avuto mille scuse, e gli altri messo mille paure. Io voglio lasciare stare le altre sue azioni, che tutte sono state simili, e tutte li sono successe bene. E la brevità della vita non gli ha lasciato sentire il contrario; perché, se fussino venuti tempi che fussi bisognato procedere con respetti, ne seguiva la sua ruina: né mai arebbe deviato da quelli modi a’ quali la natura lo inclinava. Concludo, adunque, che, variando la fortuna, e stando gli uomini ne’ loro modi ostinati, sono felici mentre concordano insieme, e, come discordano, infelici. Io iudico bene questo: che sia meglio essere impetuoso che respettivo; perché la fortuna è donna, ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano [21]; e però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano. |
[1] In che misura la fortuna interviene nelle vicende umane e in che modo ci si può opporre ad essa. [2] Non mi è ignoto.
[3] Che non ci si debba impegnare molto nelle cose. [4] È stata. [5] Talvolta sono stato incline a condividere tale opinione. [6] Pure. [7] O quasi. [8] Quando esondano, straripano. [9] Senza potersi opporre in alcun modo. [10] Dove non vi è virtù preparata a resistere ad essa. [11] La sede. [12] La Germania (l'Impero). [13] In linea generale. [14] Quello che adatta il suo modo di fare alle circostanze. [15] Con cautela. [16] In modo impulsivo. [17] Due uomini cauti. [18] Giulio II della Rovere (1443-1513), già citato in altri capitoli. [19] Allude all'occupazione di Bologna avvenuta nel 1506, scacciando dal governo della città il suo signore, Giovanni Bentivoglio. [20] Non la approvavano. [21] Che agiscono con eccessiva cautela. |
Interpretazione complessiva
- Il capitolo è strettamente legato al precedente (XXIV), in cui Machiavelli ha affermato che i principi italiani hanno perso i loro Stati in seguito alle guerre di inizio XVI sec. a causa della loro "ignavia" e non già per l'azione della "fortuna", specie per la loro incapacità militare e l'eccessiva fiducia nelle soldatesche mercenarie: in questo passo l'autore dichiara che la fortuna, definita quale capriccio del caso e non certo come espressione del giudizio divino, influisce su metà delle azioni umane ed è quindi possibile opporsi ad essa con la "virtù", specie prevedendo i possibili rovesci della malasorte e, soprattutto, prendendo precauzioni per tempo, cosa che i sovrani degli Stati non hanno fatto al tempo della discesa di Carlo VIII di Francia. L'autore paragona l'azione della fortuna a un fiume in piena, che quando esonda devasta le coltivazioni circostanti, ma la cui azione distruttiva può essere mitigata con la costruzione di argini e canali (fuor di metafora, nel caso dell'Italia del tempo tali argini dovevano essere le milizie cittadine, altrove caldeggiate dallo scrittore come assai più fedeli ed efficienti di quelle prezzolate; ► TESTO: Le milizie mercenarie). Machiavelli esprime una visione moderna e pienamente "umanistica" della fortuna, descritta appunto come espressione della pura casualità, e mostra tutta la sua distanza dalla cultura medievale che considerava invece la fortuna come intelligenza angelica, "ministra" del volere divino ed esecutrice della sua giustizia, quindi come qualcosa cui l'uomo non poteva assolutamente opporsi (tale visione rientra pienamente nella mentalità di Dante; ► TESTO: L'azione della fortuna). È ovvio che la riflessione di Machiavelli sulle cause del declino politico-militare degli Stati italiani prende spunto dalle guerre che eserciti stranieri combattevano nel nostro Paese a partire dal 1494 e anticipa in parte l'appello ai Medici del cap. seguente, quando li inviterà a prendere le armi per scacciare i "barbari" dall'Italia (► TESTO: L'esortazione finale ai Medici).
- La principale "virtù" che il principe saggio deve usare contro l'azione della fortuna è soprattutto il sapersi adattare alle diverse circostanze, mutando la propria linea di condotta a seconda di ciò che la situazione richiede e diventando "respettivo" oppure "impetuoso", in base al bisogno: Machiavelli riconosce che questa capacità è molto rara, poiché non c'è cosa più difficile per un uomo politico di cambiare modo di fare e forzare la propria indole, eppure secondo la sua riflessione ciò è indispensabile per ottenere buoni successi in campo politico-militare (l'esempio di papa Giulio II argomenta proprio questo assunto, poiché egli ebbe sempre successo nella sua azione politica ma non avrebbe saputo cambiare modo di agire; sul punto si veda oltre). Il ragionamento verrà ripreso anche in un passo dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (III.9), in cui lo scrittore dirà allo stesso modo che i condottieri devono saper adattare le proprie strategie alle circostanze e in cui verrà fatto ancora l'esempio di papa Giulio II, accanto a quello opposto di Pier Soderini (il gonfaloniere perpetuo della Repubblica di Firenze, di cui Machiavelli era stato collaboratore e amico) che invece era caduto in disgrazia quando sarebbe dovuto diventare, da cauto, impulsivo, cosa di cui non fu capace (► TESTO: I condottieri e la fortuna). Tale concezione della fortuna verrà in parte criticata da Guicciardini, secondo il quale essa domina largamente le vicende umane ed è illusorio pensare di poterla piegare al proprio volere (cfr. Ricordi, 30; ► AUTORE: Francesco Guicciardini).
- L'esempio di papa Giulio II della Rovere è già stato prodotto da Machiavelli in altri capitoli del trattato, anzitutto nel cap. VI in cui è indicato quale principale artefice della rovina politica del Valentino (► TESTO: L'esempio di Cesare Borgia) e poi nel XI, dove viene descritto come un pontefice capace di accrescere la potenza dello Stato della Chiesa con conquiste militari, di cui si parla anche in questo passo: l'autore allude all'impresa di Bologna, in seguito alla quale il papa, con l'aiuto del re di Francia Luigi XII e nonostante l'opposizione di Venezia, riuscì a impossessarsi della città scacciando dal governo Giovanni Bentivoglio, che ne era il signore (ciò avvenne nel 1506). Giulio II è qui indicato come uomo politico "impetuoso", che sempre agì in modo impulsivo e sempre ottenne i successi sperati, mentre se avesse dovuto mutare linea di condotta si sarebbe trovato a mal partito, cosa che non avvenne perché morì al massimo della sua potenza. Sia lui sia Alessandro VI Borgia vengono presentati da Machiavelli come esempi di principi a tutti gli effetti, in quanto i papi erano nel Cinquecento i sovrani a capo dello Stato della Chiesa e del tutto assimilabili agli altri regnanti laici.
- Nel finale del capitolo Machiavelli afferma che, in ogni caso, per un uomo politico o un condottiero è meglio agire in modo impulsivo che troppo cauto e ciò perché la fortuna "è donna" e per dominarla è necessario "batterla e urtarla", mentre in quanto donna sarebbe più portata ad apprezzare gli uomini giovani che con più audacia la comandano: emerge in queste parole un lato misogino del pensiero di Machiavelli, che è evidente anche nella Novella di Belfagor arcidiavolo (► VAI AL TESTO) e, almeno in parte, nella Mandragola, specie nella descrizione di Sostrata quale donna senza scrupoli che spinge la figlia Lucrezia a compiacere i disegni del marito (► TESTO: Fra Timoteo e Lucrezia). Secondo alcuni studiosi, inoltre, la figura di Lucrezia protagonista della commedia rimanderebbe proprio al principe, in quanto la donna è abile a cogliere l'occasione propizia per adempiere i propri desideri e architetta lo stratagemma che consentirà a Callimaco di continuare ad essere il suo amante, quindi sarebbe lei stessa in grado di dominare la fortuna (► TESTO: Il finale della Mandragola).